Ciao,
anche a febbraio vi segnaliamo mostre molto interessanti. Date un’occhiata!
Qua trovate la nostra pagina dedicata alle mostre, sempre aggiornata.
Ciao
Anna
André Kertész. Un grande maestro della fotografia del Novecento
Considerato un maestro da Henri Cartier-Bresson e da Brassaï, André Kertész è una delle figure più importanti della storia della fotografia, e il suo lavoro offre ancora oggi molti spunti di riflessione e analisi.
Autodidatta, Kertész si contraddistingue per una poetica intima ed emotiva, che lascia spazio al proprio stato d’animo in una visione discreta e lucida, profondamente umana.
Di origini ungheresi, si arruolò nell’esercito Austro-Ungarico durante la prima guerra mondiale, e lì documentò con la sua macchina fotografica la vita quotidiana della trincea e le lunghe marce. Finita la guerra si trasferì a Parigi nel 1925, e lì ebbe modo di conoscere e frequentare gli artisti e gli intellettuali del momento come Mondrian, Picasso, Chagall che influenzarono e ispirarono il suo lavoro dell’epoca. A questo periodo risalgono infatti le celebri sperimentazioni fotografiche come la serie Distorsioni, in cui utilizzando uno specchio deformante da circo, gioca con le forme dei corpi, influenzato dal Surrealismo e vicino alle poetiche di Picasso, Hans Arp e Henri Moore.
Fu soprattutto l’incontro con Brassaï a dare una svolta alla sua carriera, nel momento in cui lo introdusse alla celebre rivista VU, antesignana dell’americana LIFE. Le sue fotografie iniziarono a circolare molto tra le testate più importanti, sino ad arrivare alla Keystone Agency, la più importante agenzia dell’epoca, che lo chiamò a New York nel 1937. Da quel momento, una volta trasferitosi in America, da un lato continuò a collaborare con le celebri riviste come Vogue o Harper’s Bazaar, ma allo stesso tempo iniziò a dedicarsi alla sua personale visione artistica, con mostre e pubblicazioni che lo resero ben presto uno dei più rappresentativi artisti della fotografia d’avanguardia americana.
Costretto a stare in casa a causa della malattia, e affascinato dalla vista fatta di tetti e strade sul Washington Square Park, Kertèsz cominciò a fotografare dalla finestra di casa, riuscendo a cogliere i momenti intimi delle persone che attraversavano la piazza: il lavoro From my Window è uno dei più struggenti ed emozionanti ritratti dell’umanità, colta nei momenti più semplici della quotidianità.
La mostra in programma a Palazzo Ducale presenta una selezione di negativi dalla Kertész Collection, sia degli esordi in Ungheria e della sua esperienza nell’esercito Austro-Ungarico (1912-1925), sia il periodo parigino, con i celebri nudi e i viali lungo la Senna, fino ad arrivare agli anni trascorsi a New York nell’isolamento della malattia.
24 febbraio – 17 giugno 2018 – Palazzo Ducale Genova
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Susan Meiselas – Mediations
The retrospective devoted to the American photographer Susan Meiselas (b. 1948, Baltimore) brings together a selection of works from the 1970s to the present day.
A member of Magnum Photos since 1976, Susan Meiselas questions documentary practice. She became known through her work in conflict zones of Central America in the 1970s and 1980s in particular due to the strength of her colour photographs. Covering many subjects and countries, from war to human rights issues and from cultural identity to the sex industry, Meiselas uses photography, film, video and sometimes archive material, as she relentlessly explores and develops narratives integrating the participation of her subjects in her works. The exhibition highlights Susan Meiselas’ unique personal as well as geopolitical approach, showing how she moves through time and conflict and how she constantly questions the photographic process and her role as witness.
from 06 February 2018 until 20 May 2018 – Concorde, Paris
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Valerio Bispuri – Paco a drug story
La mostra attraverso un reportage di quaranta fotografie, parla di PACO, una droga devastante nata in Sudamerica e sulla quale l’artista ha lavorato per quattordici anni, in contemporanea con un altro lavoro fotografico dal titolo Encerrados, che documenta il viaggio in 74 carceri sudamericane.
Diffusosi a partire dagli anni Novanta, soprattutto nei bassifondi di Buenos Aires e, in seguito, nelle favelas e nelle periferie di tutto il Sudamerica, il consumo di paco è aumentato notevolmente agli inizi del duemila. Si tratta di una droga estremamente nociva ottenuta con gli scarti della lavorazione della cocaina, miscelati a cherosene, colla, veleno per topi o polvere di vetro. I giovani, che sono i consumatori più̀ assidui, arrivano ad aver bisogno di assumere fino a venti dosi al giorno di paco con conseguenze devastanti, poiché dà immediata assuefazione.
Valerio Bispuri è entrato in questo inferno di morti viventi per raccontare la sofferenza e la vita nei ghetti periferici, viaggiando tra Argentina, Brasile, Perù, Colombia e Paraguay e condividendo la quotidianità̀ dei consumatori di paco. Bendato per non riconoscere i luoghi in cui si muoveva, il fotografo è riuscito a farsi accompagnare nelle “cucine della droga” dove il paco viene creato. Ha potuto seguire le vite distrutte dei consumatori di questa droga e le loro famiglie da vicino, ritraendoli nelle sue immagini dal grande impatto emotivo e narrativo.
Michael Wolf – Life in Cities
A figure behind a misted window turns its face away and closes its eyes in an attempt to evade the lens of the photographer. The metro passenger is crushed between fellow-commuters and unable to move when photographer Michael Wolf points his camera at him from the other side of the glass. Over the 2010-2013 period, Wolf returned time and time again to the same metro platform in Tokyo to lie in wait for his passing prey. The result is Tokyo Compression, perhaps Wolf’s most renowned photo-series, in which he explores the subjects of privacy and voyeurism in great detail. In the densely populated world cities where Michael Wolf works, these themes are unavoidable. The Hague Museum of Photography is about to exhibit a major retrospective of Wolf’s work, stretching from his earliest years as a documentary photographer right through to relatively recent series like Architecture of Density (2003 – 2014) and Transparent City (2006).
from Jan-20-2018 until Apr-22-2018 – Fotomuseum Den Haag
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PRIMA VISIONE 2017 – I FOTOGRAFI E MILANO
“Prima Visione. I fotografi e Milano” dal 2006 è un appuntamento atteso, una mostra che coinvolge chi ama Milano e la fotografia. La Galleria Bel Vedere, infatti, da tredici anni invita (dal 2010 con la collaborazione dell’associazione dei photo-editor italiani, G.R.I.N.) i fotografi milanesi o di passaggio a Milano a proporre liberamente una loro immagine della città. L’edizione del 2017, che comprende anche due autori segnalati dalla open call permanente “MilanoMeravigli” di Fondazione Forma, racconta una città con poche ombre, dall’equilibrio apparentemente ritrovato, nella quale i grandi lavori di costruzione dei nuovi quartieri sono terminati e sono anzi diventati una scenografia consueta, animata da cittadini e turisti, luoghi d’elezione per gli esercizi della fotografia. La nuova Milano, reduce dai maquillage di Expo, è al centro di molti interessi, come pure le zone storiche che conservano intatte o abilmente restaurate le architetture a misura d’uomo dei secoli scorsi. L’attenzione della fotografia milanese si rivolge anche ai musei, animati da silenziose presenze, e ai grandi paesaggi, visioni dall’alto che registrano le nuove presenze che emergono dal consolidato tessuto urbano.
Le immagini nel loro insieme documentano un ritrovato affetto nei confronti della città, delle sue architetture, dei suoi spazi comuni. Ed è questo lo straordinario valore di “Prima Visione”: censire anno dopo anno i sentimenti che legano fotografia e città, documentarne i cambiamenti architettonici e sociali, proporre al pubblico e ai lettori una selezione di visioni che, con linguaggi e intendimenti diversi, ci accompagnano nelle Cinque Vie o in via Brera, al Mudec o in piazza Giulio Cesare, in Duomo o a una sfilata di moda, alla Scala o dal pescivendolo. Milano regala tutto e il suo contrario, e la fotografia, puntuale, raccoglie e ci offre anche questa volta quarantasette possibili capitoli della stessa storia.
dal 26 gennaio al 24 febbraio 2018 – Galleria Belvedere – Milano
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Nocturne – Luca Campigotto
Laurence Miller Gallery is pleased to present LUCA CAMPIGOTTO: NOCTURNE, an exhibition of night time photographs by this mid-career Italian photographer, printed in his signature large color format. Campigotto, born in Venice in 1962 and currently residing in Milan, is a tireless world traveler, and his pictures share a common pursuit of grandiosity in scale. Included in Nocturne are views of Milan, Shanghai, the Roman Forum, London, Hong Kong, the Golden Gate Bridge, the Williamsburg Bridge, Beijing and Jerusalem’s Western Wall.
Campigotto’s unique style is to train his camera upon feats of nature and engineering that dwarf the individual. Photographing at night imbues an extra shroud of mystery – the sweeping architectural views appear virtually empty, the only sign of activity being the occasional stream of taillights shooting through the darkened streets or vessels on the water. The glow of multi-colored lights permeating the sky yields a spectacular palette not visible to the naked eye.
Campigotto is drawn to what he refers to as “mythic cities,” cities that are just as real in legend and memory as they are on a map. His pictures border on the hyper-real, as the cityscapes are often a glowing galaxy of light flares and intricate detail. Taken together, these pictures are not just photographs, but a rather robust vision of a place in the mind’s eye; the “nocturne” in question is not so much a time of night, but an enveloping mystique.
Campigotto holds a degree in history, and accordingly, his pictures embody a great historical scope; today’s buildings stand next to the towering architectural achievements of past generations and epochs. In these photographs the world is felt to be vast and timeless. The ancient ruins of the Roman Forum, the great bridges of the last century, and the glittering Ferris wheel on London’s River Thames all stride across his pictures shoulder to shoulder. Jerusalem’s ancient Western Wall remains a pivotal place today for worshippers from across the globe.
January 11 – February 24, 2018 – Laurence Miller Gallery – New York
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sislej xhafa | mustafa sabbagh – Umanità
Nello scorso mese di novembre è stata formalizzata la costituzione dell’Associazione Culturale Umanità, fondata con il proposito di occuparsi del concetto di integrazione tra culture differenti e di promuovere i valori supremi del rispetto per l’umanità, dell’empatia, della solidarietà. Ferrara ospiterà, il 26 gennaio 2018, il primo evento promosso dall’Associazione.
Luogo prescelto è il Museo di Casa Romei, antica edificazione signorile costruita tra il Medioevo ed il Rinascimento, che nel corso degli ultimi decenni del XIX secolo venne adibita a ricovero di indigenti: già nel 1872, a seguito dell’alluvione del Reno, numerose famiglie sfollate dai territori devastati furono alloggiate all’interno delle sue sale. Casa Romei è oggi eletta nuovamente – in virtù del suo farsi simbolo di Casa, e attraverso l’importante gesto di incontro tra due noti artisti contemporanei invitati da Umanità – a sito di accoglienza, rivivendo nella consapevolezza sincronica dell’importanza rivestita dal Museo attraverso il suo ruolo sociale.
Susseguente ad una tavola rotonda presieduta, dalle 17:30 alle 19:00, dal Professor Paolo Magri [Direttore dell’ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e docente di Relazioni Internazionali all’Università Bocconi], il tema dell’integrazione verrà dunque riflesso, dalle 19:00 alle 21:00 e nei giorni a seguire fino al 18 febbraio 2018, nelle visioni artistiche di Mustafa Sabbagh e Sislej Xhafa.
Internazionalmente riconosciuti come due tra i massimi esponenti dell’arte contemporanea, essi stessi privi di una precisa appartenenza geografica – se non quella alla sola umanità – i due artisti intrecciano le loro poetiche per la prima volta in questa occasione, con la curatela di Paola Nicita e Andrea Sardo. La mostra, realizzata con l’appoggio della Galleria Continua [San Gimignano], ha altresì ottenuto il patrocinio del MiBACT – Ministero dei Beni e delle Attività Culturali come evento di profonda rilevanza artistica.
«L’esposizione di Sislej Xhafa e Mustafa Sabbagh è l’occasione particolare per assistere a un dialogo doppio: tra gli artisti contemporanei Xhafa e Sabbagh – entrambi, seppur con modalità differenti, legati ad una ricerca artistica indirizzata ad una riflessione sociale – e tra le opere degli artisti in dialogo con gli spazi di Casa Romei – abitazione ancor prima che museo, luogo di accoglienza, di ospitalità, d’arte e di cultura. Umanità è il fil rouge che lega l’indagine compiuta attraverso il lavoro artistico: la ricerca di un valore da sottolineare come elemento di salvezza, inscindibile dalle ragioni più profonde dell’essere» [Paola Nicita].
Attraverso quattro interventi video ed installativi, selezionati specificamente all’interno del loro percorso artistico, Mustafa Sabbagh e Sislej Xhafa – entrambi presenti all’inaugurazione – aderiscono ad Umanità attraverso un gesto sapientemente artistico, ma innanzitutto profondamente, coscientemente Umano.
museo di casa romei [fe] – dal 26 01 al 18 02 2018
Artico. Ultima frontiera
La mostra presenta circa sessanta fotografie di paesaggi e abitanti di Groenlandia, Islanda e Siberia, scattate da tre maestri della fotografia di reportage, quali Ragnar Axelsson (Islanda, 1958), Carsten Egevang (Danimarca, 1969) e Paolo Solari Bozzi (Roma, 1957).La difesa di uno degli ultimi ambienti naturali non ancora sfruttati dall’uomo, il pericolo imminente del riscaldamento globale, la sensibilizzazione verso i temi della sostenibilità ambientale e del cambiamento climatico, la dialettica tra natura e civiltà. Sono questi gli argomenti attorno cui ruota la mostra ARTICO. ULTIMA FRONTIERA™.
L’esposizione, curata da Denis Curti e Marina Aliverti, è un’indagine approfondita, attraverso tre angolazioni diverse, su un’ampia regione del Pianeta, che comprende la Groenlandia, la Siberia e l’Islanda, e sulla vita della popolazione Inuit, di soli 150.000 individui, costretti ad affrontare nella loro esistenza quotidiana le difficoltà di un ambiente ostile.
Accanto alle potenti immagini di una natura infranta e al contempo affascinante, tre documentari arricchiscono la narrazione delle regioni del Nord: SILA and the Gatekeepers of the Arctic, realizzato dalla regista e fotografa svizzera Corina Gamma; Chasing Ice, diretto dal fotografo e film-maker americano James Balog; The Last Ice Hunters, un documentario dei registi sloveni Jure Breceljnik e Rožle Bregar.
Una giornata dedicata al cambiamento climatico arricchisce il tema della mostra: il 27 febbraio 2018 si svolge in Triennale il Summit on Climate Change, durante il quale scienziati, politici ed imprenditori italiani ed internazionali presentano i loro ultimi risultati sul tema del cambiamento climatico. Dovrebbe trattarsi, per Milano, di una delle rare occasioni di dibattito su questi temi così attuali.
8 FEB – 25 MAR 2018 – La Triennale di Milano
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Ultimo domicilio – Lorenzo Castore
Le fotografie di Ultimo domicilio sono una riflessione sull’esistenza e l’esistito, sinonimi visivi del concetto di passaggio. La Galleria del Cembalo propone per la prima volta dodici opere di grande formato, ognuna delle quali dedicata ad una abitazione.
Le case raccontano dei propri abitanti anche quando questi smettono di occuparle. “I quadri alle pareti, le fotografie, gli oggetti sul comò e i libri nella biblioteca, in risonanza tra loro, riflettono i desideri e le aspirazioni, gli affetti e i ricordi” scrive Laura Serani a proposito de La petite recherche di Castore, che si insinua negli angoli più remoti del luogo privato per eccellenza.
Per circa nove anni Lorenzo Castore ha lavorato in case silenziose, quelle in cui la vita “sembra come evaporata”. Afferma l’autore: “Ho conosciuto queste case per varie ragioni. Sono case dove ho vissuto e che sono state abbandonate, case che ho visitato, le mie case o quelle di qualcun altro. Dicono tutte di qualcosa che ho cercato in anni di girovagare”. Castore ha lavorato tra Torino, Firenze, Casarola, Sarajevo, Cracovia, New York, inseguendo il desiderio di rinvenire le tracce di vite vissute intensamente. Come quelle di Giacomo e Maria, nonni dell’autore, protagonisti di “una normale storia italiana”, presenti negli oggetti della loro casa di Via Masaccio a Firenze, liberata un mese dopo la scomparsa della donna.
Analogamente, il domicilio di Casarola narra della famiglia Bertolucci. A questo luogo, che Attilio stesso descriveva come “staccato non solo dalla pianura ma dal mondo”, i Bertolucci resteranno legati anche dopo il loro trasferimento nella capitale nel 1951. Ed è attraverso il film corto Casarola (8 minuti) girato nel corso del tempo, dentro e intorno alla casa di famiglia di Bertolucci, che Castore descrive – grazie a materiale di repertorio e girato attuale – il luogo fonte d’ispirazione per Attilio e per i suoi figli Bernardo e Giuseppe. Un luogo incontaminato di affetti e immaginazione.
In questo caso, oltre alle fotografie sapientemente acquerellate, anche la proiezione del film ci racconterà il rapporto con l’origine e la figura paterna, una fuga dalla realtà tra la memoria personale e il tempo presente in una rarefatta atmosfera dove il ricordo si mischia al sogno.
E ancora, attraversato l’oceano, Ultimo domicilio conduce a Brooklyn, nell’appartamento che è stato di Adam Grossman Cohen, filmmaker, figlio del fotografo Sid. Di suo padre, Adam perpetua la tensione verso una bellezza pura e metafisica e la casa di New York, dismessa nel 2010, è la tangibile testimonianza del suo tumulto interiore.
Lorenzo Castore ci racconta di New York, ma anche di Sarajevo e Mostar, di Fontenay-Mauvoisin, di Roma, Milano, Finale Ligure e di Cracovia, casa sua per sei anni, luogo di libertà e di sperimentazione, “un vero inizio” per il consolidamento delle proprie ricerche personali. Ritrae case che sono al contempo esperienze e parla di esperienze, che divengono case, che ognuno si porta dentro. Accompagna la mostra anche il volume “Ultimo domicilio” a cura di Laura Serani (L’Artiere. Bologna, 2016).
Dall’8 febbraio al 31 marzo 2018 – Galleria del Cembalo – Roma
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Sei Progetti – Luigi Vegini
Una fotografia leggera di Roberta Valtorta
Per sua natura, la fotografia è un’arte che si rivolge all’esterno. Essa ha anche posto fine alla funzione cultuale dell’opera d’arte inaugurando e sempre più alimentando nel tempo la lunga stagione della sua esponibilità. In questo senso le tecniche di riproduzione a base fotografica prima, i mass media poi, e infine internet e i social media hanno amplificato un percorso di proliferazione e diffusione già indicato dalla originaria riproducibilità della fotografia.
Tuttavia, come arte che ha messo radici profonde nella società e che appartiene e viene praticata da tutti, fin dalle sue origini ha trovato ambiti di utilizzo intimo, esclusivamente affettivo e simbolico, e legato alla memoria e alle storie personali: si pensi all’importanza dell’album di famiglia e a tutte le pratiche private che non prevedono esposizione, pubblicizzazione, vendita o acquisto, o meglio non prevedevano, dato l’attuale processo in crescita esponenziale di mescolamento tra privato e pubblico, personale e condiviso che ha travolto l’idea stessa della privatezza dell’immagine, in un fluttuare inedito di comportamenti e sentimenti.
In questa civiltà così fortemente dominata dalla comunicazione, però, fin dagli anni Novanta del secolo scorso e poi via via nel nuovo secolo si sono fatte strada ricerche fotografiche che possiamo definire di tipo diaristico: abbandonate le narrazioni di grande respiro sociale, sono nate brevi storie, racconti di ben circoscritte vicende umane e di piccoli ambienti di vita, in una sorta di dilatazione dell’idea di album di famiglia, con l’adozione di linguaggi semplici e spesso carichi di emotività, e il frequente ricorso a immagini-frammento.
In questo contesto possiamo collocare i lavori fotografici di Luigi Vegini. Le sue immagini di tono domestico sono in bilico tra il mondo esterno, di cui la fotografia ha comunque bisogno per esistere, e un personale mondo interiore denso di percezioni, pensieri, ricordi, e anche desideri. Questa necessaria congiunzione, è chiaro, avviene ogni qual volta chiunque realizzi una fotografia (ma anche uno scritto, un disegno, una musica, e ogni altra creazione umana). In certi casi, però, questa condizione a metà tra la realtà esterna, visibile, e la indefinibile realtà interiore, di cui non conosciamo le forme, appare così evidente da arrivare a costituire l’essenza stessa dell’immagine.
Gli oggetti intorno a noi e i nostri affetti, i particolari della scena quotidiana, i volti e i corpi delle persone che amiamo e nelle quali ci rispecchiamo, non possono essere guardati in modo veloce e superficiale. Fanno parte della nostra intimità e renderli pubblici attraverso la fotografia non è semplice. L’intimità non parla ad alta voce.
E infatti le brevi narrazioni di Vegini si avvalgono di una sorta di linguaggio del silenzio, o meglio, del parlare sommesso. Prima di tutto sul piano delle scelte tecniche: il prevalere di un bianco e nero delicato, privo di forti contrasti (frequente l’uso della gamma dei grigi chiari); un utilizzo discreto delle luci e delle ombre; la scelta di gamme di colori spenti o pastellati, o, nel caso in cui essi siano più vivaci, sfumati e sfuocati, dunque abbassati e resi trasparenti; la preferenza per pose molto semplici e spontanee, per nulla forzate, da parte delle persone ritratte. Su questa base l’autore affronta gli argomenti della sua vita: la figlia Bianca, l’ostetrica Giuseppina Crocca che lo ha fatto nascere, il suo giardino, i fiori del suo erbario domestico, i semplici e colorati momenti al mare, le ombre delle foglie e le luci, le superfici dei muri e gli spazi degli ambienti quotidiani.
E’ un mondo, quello che si compone, che sta intorno alla persona ma, appunto, anche dentro la persona, per raccontare il quale Vegini utilizza una fotografia leggera. Intendiamo la parola leggerezza nel senso che Italo Calvino le attribuì nelle sue Lezioni americane: capacità di sottrarre peso alla struttura del racconto e al linguaggio. Significa, nel nostro caso, saper togliere ogni artificio che crei drammatizzazione, ogni eccesso di colore e anche di forme che alzi il tono della voce, ogni pesantezza di tipo narrativo, per riportare il registro alla vera e semplice quotidianità.
Vegini si muove, in ciascuno dei sei progetti qui raccolti, in modi diversi: ora adotta il sistema della serialità, rispondendo ai criteri di una sorta di poetica catalogazione seriale (Polafiori, 2006-2007); ora indaga un luogo prendendone in considerazione le varie parti, giorno dopo giorno, a misurare il tempo dell’anno che trascorre (Il mio giardino, 2008); ora registra piccoli momenti di vita senza descriverli ma presentandoli come lontane macchie di colore (Percezioni, 2006); ora torna al più tradizionale metodo della fotografia documentaria raccontando particolari della persona e dei suoi oggetti (Giuseppina Crocca, 2008); ora costruisce un piccolo racconto di tono realmente diaristico, come usiamo fare nelle foto-ricordo (Bianca, 2011-2017); ora, infine, lavora sul frammento, sull’inquadratura circoscritta, affidando sensazioni e pensieri alla luce e all’ombra (Natura-luce, 2006/2017).
Ma nonostante la diversità degli approcci, l’intento di una narrazione leggera e intima è sempre raggiunto. La fotografia di Vegini, che possiamo porre nel solco delle tradizione di Harry Callahan, Emmet Gowin, Sally Man, o Bernard Plossu, o Claude Batho, procede in modo lento e sereno, a formare un percorso, un insieme di momenti e di pensieri, di corse immaginate e ricordate, e a comporre una riflessione sul rapporto tra vita e immagine.
Dall 11 febbraio al 3 marzo – Sala Espositiva “Virgilio Carbonari” Palazzo Comunale – Seriate (BG)
PRAGA 1968
In occasione del cinquantesimo anniversario della“Primavera di Praga”, attraverso la collaborazione tra l’Ambasciata d’Italia e l’Istituto Italiano di Cultura a Praga, il Consiglio Regionale del Friuli-Venezia Giulia e il CRAF di Spilimbergo, verrà presentata la mostra Praga 1968 in una prima tappa all’ Antico Foledor Boschetti – Della Torre, di Manzano (16 febbraio – 8 aprile) messo a disposizione dal Comune di Manzano e quindi in Repubblica Ceca (alla Cappella Barocca dell’Istituto a Praga e al Museo Nazionale di Fotografia di Jindřichův Hradec).
La mostra Praga 1968 presenta gli avvenimenti di quell’anno in oltre 100 fotografie realizzate dal fotografo ceco Pavel Sticha, dallo svedese Sune Jonsson e dagli italiani Carlo Leidi e Alfonso Modonesi (questi ultimi documentarono l’autunno del 1968) i cui lavori sono conservati negli archivi del CRAF.
La fase di liberalizzazione politica nella Cecoslovacchia sottoposta all’influenza e al dominio dell’Unione Sovietica, sfiorì rapidamente con l’invasione del 20 agosto 1968 e nel plumbeo autunno della “normalizzazione” che segnò il Paese per molti anni ancora.
iformista Alexander Dubček salì al potere, e proseguita fino all’ agosto dello stesso anno quando un corpo di spedizione sovietico e di truppe del Patto di Varsavia invase il Paese e stroncò le riforme in corso.
Un arco temporale relativamente breve che tuttavia ebbe una rilevanza politica globale se si pensa all’impatto che l’esperimento di “riformare” il sistema con elementi di democrazia, di liberalismo, di libertà di stampa e di critica esercitò sull’intera Europa dell’Est e su tutto il Continente.
Pavel Sticha prima di abbandonare la Cecoslovacchia era fotografo del quotidiano “Svoboda”. A lui si deve un significativo contributo di immagini sulla “Primavera”, che inquadrano molti dei protagonisti di quegli eventi: il Presidente Ludvík Svoboda, Alexander Dubček,František Kriegel, Josef Plojhar e persino Gustáv Husák in due eventi fondamentali della storia di quell’anno, la nomina di Dubček a Segreterio del Partito Comunista Cecoslovacco nel febbraio 1968 e il corteo del 1 maggio dello stesso anno.
La mostra documenta anche il lavoro dello svedese Sune Jonsson che documentò le giornate dell’agosto di quell’anno. Jonsson, assieme al giornalista Dag Lindberg, era a Praga per conto della rivista “VI”per realizzare un servizio sull’assedio di Praga del1648, ultimo evento bellico della Guerra dei trent’anni, quando una colonna svedese fu inviata alla conquista del Hradčany. I due erano arrivati per documentare e “ricostruire” l’Assedio di Praga di quattro secoli prima, assistettero invece all’invasione delle truppe del Patto di Varsavia il 21 agosto, un altro assedio!
Carlo Leidi e Alfonso Modonesi nel 1968 documentarono gli avvenimenti dei mesi autunnali fotografando anche i reparti di produzione della ČKD, allora la più grande azienda praghese, ove si era riunito clandestinamente il congresso del Partito Comunista dopo l’invasione. Eloquenti le loro immagini dei muri e i balconi di Praga dove con graffiante ironia comparivano scritte contro l’invasione e a sostegno della “Primavera”.
Tra le immagini più significative quelle scattate nella piazza di Hradčany (il Castello che sovrasta la città), la mattina del 28 ottobre 1968, o ancora quelle dei cittadini che deponevano fiori e lumi ai piedi della statua di San Venceslao e infine la tomba di Jan Palach fotografata nel marzo 1970.
Manzano / Antico Foledor Boschetti della Torre
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#EnjoyEternity – Sharon Ritossa
Il 31 gennaio il Museo Egizio e CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia presentano la mostra #EnjoyEternity: progetto fotografico dell’artista Sharon Ritossa, vincitrice del bando Hangar Creatività insieme a Virginia Cimino, curatrice e coordinatrice delle riprese fotografiche.
ncontra gli smartphone e si riscopre attraverso la lente degli schermi moderni. Scatti rubati, cromie televisive e mummie dell’era tecnologica ripropongono la collezione del Museo Egizio in un’ottica inedita e contemporanea.
La mostra dell’artista Sharon Ritossa è realizzata grazie all’affiancamento di Hangar Creatività, il progetto per sostenere i giovani talenti artistici promosso dall’Assessorato alla Cultura e Turismo della Regione Piemonte e coordinato dalla Fondazione Piemonte dal Vivo.
31 gennaio – 26 febbraio 2018 – Museo Egizio Torino
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JERUSALEM – Giovanni Chiaramonte
Il 26 gennaio, in occasione della cerimonia inaugurale dell’Anno Accademico 2017/18 del Politecnico di Bari, si terrà alle ore 12:00 presso il Museo della Fotografia il vernissage della mostra Fotografica JERUSALEM di Giovanni Chiaramonte integrata dalle Poesie di Umberto Fiori.
L’esposizione sarà visitabile fino al due febbraio tutti i giorni dalle ore 9:00 alle 13:00 escluso la domenica – Politecnico di Bari – Via E. Orabona, 4 INGRESSO LIBERO.
La mostra è curata da Loredana Ficarelli Responsabile Scientifico del Museo della Fotografia del Politecnico di Bari e da Pio Meledandri Curatore d’Arte.
Le immagini di Giovanni Chiaramonte si scostano dalla consuetudine ripetitiva se non addirittura banale, di una rappresentazione dei luoghi storici della cristianità. Non sono gli scatti del turista o del reporter superficiale che propongono le medesime icone abitualmente presentate dai “media” come ad esempio il Muro del pianto, l’ingresso al Santo Sepolcro, la Cupola sulla roccia, l’Orto degli Ulivi etc.
Il luogo di partenza del pellegrinaggio di Giovanni Chiaramonte a Gerusalemme è stato Berlino, Città in cui l’artista ha trascorso negli anni ottanta un lungo soggiorno per realizzare un’opera fotografica in vista di una mostra internazionale alla Gropius Bau sul tema della ricostruzione della città europea e in particolare di Berlino.
Fu lì che G. Chiaramonte (come egli stesso afferma) si rese conto che la tragedia tedesca della Shoah aveva avuto inizio più di un secolo prima di quando realmente avvenne, ovvero quando si decise di costruire la capitale tedesca secondo il modello di Atene e Roma, eliminando l’esempio di umanità che aveva donato Gerusalemme alla civiltà europea.
Quelle di “Jerusalem” sono immagini di una profonda riflessione dell’autore sulla vita dell’Uomo, attraverso la ricerca di quelle “tracce” riconosciute guardando le persone, i bambini, i turisti, gli alberi, l’archeologia dei luoghi.
Chiaramonte sistema la sua fotocamera sul treppiede ponendosi egli stesso quale soggetto del mondo intorno a sé e attende osservando la scena, che nell’invisibile profondità del mondo interiore si configuri una dimensione della memoria e del ricordo che, grazie alla mediazione del Fotografo, diventino l’immagine esterna del Territorio e degli uomini che vi hanno vissuto.