SARAH MOON Omaggio a Mariano Fortuny
Dal 19 Dicembre 2015 al 13 marzo 2016 Venezia, Palazzo Fortuny
Lo stile personalissimo e visionario di Sarah Moon, l’intensità del suo sguardo e la poesia dei suoi scatti non potevano trovare luogo più suggestivo ed empatico di Palazzo Fortuny. Le luci tenui dell’inverno lagunare che penetrano dalle ampie vetrate, le pieghe, le volute e i giochi di rifrazione creati dai tessuti e dai panneggi degli abiti ideati da Mariano Fortuny, sono fonte d’ispirazione per questo nuovo progetto espositivo, a cura di Alexandra de Léal e Adele Re Rebaudengo, che la grande fotografa ha costruito nel corso degli anni durante le frequentazioni della casa/laboratorio di Palazzo Pesaro degli Orfei. Le sue fotografie, realizzate per rendere omaggio a Mariano Fortuny, che ci accolgono nei luminosi spazi al secondo piano del palazzo, innescano un percorso nella memoria, dove i segni del tempo rendono manifesta l’evanescenza della bellezza e la permanente condizione d’incertezza su cui riposa l’umana esistenza. Le stampe a getto d’inchiostro e ai sali d’argento raccontano frammenti di una storia interiore, che prende corpo nelle ombre create dal movimento delle stoffe, che richiamano la morbidezza dei plissé del Delphos, l’abito-icona della produzione di Fortuny e nelle linee – sfocate dal ricordo – delle architetture del Palazzo. L’artista francese, tra le maggiori fotografe di moda contemporanee, prima donna nel 1972 a scattare le foto per il Calendario Pirelli, da molti anni ha ampliato gli orizzonti del suo sguardo soffermandosi in particolare su tre temi: l’evanescenza della bellezza, l’incerto e lo scorrere del tempo. Il suo percorso si è declinato anche attraverso i video ed è stato oggetto di numerosi riconoscimenti, come il Grand Prix National de la Photographie nel 1995 e il Prix Nadar nel 2008. Catalogo Fondazione Musei Civici di Venezia, a cura di Daniela Ferretti, con saggi di Alexandra de Léal, Federica Mazzarelli.
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SAUL LEITER
It’s only recently that Saul Leiter (1923-2013) has received due recognition for his pioneering role in the emergence of colour photography. He moved to New York intent on becoming a painter, yet ended up working for magazines such as Harper’s Bazaar, Elle and British Vogue and became known for his impressionistic colour street scenes.
As early as 1946, and thus well before representatives of the 1970s new colour photography school (such as William Eggleston and Stephen Shore), Leiter was using Kodachrome colour slide film for his free artistic shots, despite it being despised by artists of the day.
“When we do not know why the photographer has taken a picture and when we do not know why we are looking at it, all of a sudden we discover something that we start seeing. I like this confusion.” Saul Leiter
22 Jan – 3 Apr 2016 The Photographers’ Gallery – London
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Aliqual di Massimo Mastrorillo/D.O.O.R.
Esiste un gioco molto semplice ripetere una parola in continuazione fino a che non perde il suo senso e diventa un qualcosa di misterioso, qualcosa che ci fa perdere l’orientamento e da la possibilità di immaginarci in un mondo che improvvisamente è diventato altro.
Laquilalaquilalaquilaaliqualaliqualaliqual: una città animata da una visione lontana e alienata, moderna versione dei viaggi morali di Gulliver.
Nella scomposizione dello spazio di una panoramica a volo d’uccello Aliqual emerge come in una miniatura che inesorabilmente risucchia al suo interno, con la forza d’attrazione di un buco nero. Ma non si fa in tempo a immergersi in questi ambienti che ci si trova altrove, in un gioco di specchi che costringe a un continuo vagare.
La percezione delle cose va alla deriva, verso un mondo parallello, in un tempo sospeso dove la referenza storica viene messa da parte in un’operazione che relativizza il passato e la memoria: la scrittura fotografica si trova a sfociare in una zona d’ombra fra enigma e rebus.
Qui ad Aliqual il centro è fatto di macerie, resti inesorabili, vuoto, ma animato, mentre intorno un arcipelago di periferie abitate sembra spingere alla ricerca di nuove visioni. Uno spazio distopico collocato tra un futuro prossimo e insieme remoto che rende tangibile una reale perdita del senso della misura, una crisi che va oltre gli effetti di un evento.
In questo improbabile centro abitato tutto è rovesciato, organico e disorganico si confondono in continue metamorfosi, si vedono solo forme: linee, cerchi, triangoli: registrazioni quasi automatiche, iperformali, che hanno smesso di interrogarsi e porre domande.
Come in una teoria delle rovine alla rovescia, ci si trova immersi nello spazio di rappresentazione della distorsione della realtà, in cui ad animarsi è un mondo inabitabile.
Il confronto con la storia e la memoria prende la strada della scoperta alla ricerca di questi frammenti che si animano e prendono vita da soli, e dalla loro esplorazione, dalla loro esplosione, ci si trova a seguire il filo di un’improbabile misurazione del caos, i cui movimenti seguono le dinamiche di una roulette russa: una scommessa con la storia che si trova a franare in un moto prevedibile e sempre inaspettato.
Se pare impossibile registrare questo mondo col linguaggio della documentazione, il confronto con figurazioni che alludono a modelli geometrico-matematici, alle astratte e ipotetiche verità di astrazioni scientifiche, apre uno spiraglio su una dimensione personale e nuovamente umana. Un puzzle che tenta di dar vita a nuove possibilità di senso ed esistenza nell’incessante scomporsi e ricomporsi di ciò che sembrava solo un gioco di forme.
Fonderia 20.9 Via XX Settembre 67, Verona
Dal 23 Gennaio al 6 Febbraio 2016
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Frida Kahlo – Fotografie di Leo Matiz
ONO Arte Contemporanea in collaborazione con (Fondazione Leo Matiz) Alejandra Matiz presenta Frida Kahlo. Fotografie di Leo Matiz, una mostra fotografica del fotografo colombiano Leo Matiz che, con il suo obiettivo, è riuscito a penetrare – al di là delle apparenze -, un’immagine tanto vivida quanto reale dell’artista messicana.
Quando Frida e Diego si incontrano è il 1922. Rivera, pittore già noto in Messico, stava dipingendo un importante murale nell’anfiteatro della Scuola preparatoria che Frida frequentava all’epoca. Ancora lontana dall’incidente che le avrebbe cambiato per sempre la vita, Frida era una ragazza fiera, decisa e emancipata.
A quel tempo l’arte rappresenta per lei solo un divertissment, un gioco che la impegna nei ritagli di tempo dallo studio. Le cose cambiano però il 17 settembre 1925: mentre sta rientrando a casa da scuola, l’autobus su cui viaggia insieme al fidanzato Alejandro, viene travolto da un tram. La spina dorsale le si frattura in diversi punti così come la gamba sinistra e le costole, e il suo corpo viene lacerato da un’asta metallica che le lascerà delle ferite indelebili, sia esteriori che interiori. “Non sono morta e, per di più, ho qualcosa per cui vivere; questo qualcosa è la pittura”. Queste le parole che Frida pronuncia alla madre non appena la incontra dopo l’incidente. Da questo momento l’arte diventa per lei valvola di sfogo e occupazione privilegiata.
Grazie a uno specchio appeso sul letto a baldacchino e un apposito dispositivo su cui appendere una tavola dilegno per dipingere, la sua immagine, diventa il soggetto preferito dei suoi ritratti – “Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio” -. Dopo tre anni, la sua vita torna quasi alla normalità, e nel 1928 incontra nuovamente Rivera. L’amore scoppia, passionale e travolgente, la loro arte si contamina ed evolve. Nell’agosto dello stesso anno si sposano, e dopo qualche tempo si trasferiscono negli Stati Uniti, dove consolidano la loro fama ma anche l’avversione di una parte dell’opinione pubblica che definisce i murali che Rivera realizza per il Detroit Institute of Art “uno spietato inganno ordito ai danni degli stessi capitalisti che li hanno commissionati”. Tornati in Messico, Frida diventa sempre più prolifica e conosciuta, tanto che Breton, il padre del surrealismo, le propone una mostra a Parigi.
Siamo ormai nel 1941: per Frida è un anno di cambiamento. Nonostante la dolorosa perdita del padre, raggiunge un’indipendenza sentimentale ed economica che le permettono di “maturare una piena fiducia in se stessa” e di diventare un’artista a tuttotondo che rischia di mettere in ombra, con la sua arte e la sua storia, il genio Rivera. Le immagini di Leo Matiz – fotoreporter colombiano nato nella magica Macondo di Gabriel Garcia Marquez -, raccontano di questa consapevolezza, ma raccontano anche la storia di un Messico assolato e lontano, fatto di rivoluzione e guerra, e al contempo di gioia e speranza, del quale Diego ne dipinge la “bellezza umile” e Frida “l’equivalente interiore”. Le foto in mostra, si soffermano soprattutto sull’immagine di Frida, immortalata nel suo quartiere natale di Coyoacan a Città del Messico, della quale Matiz ce ne restituisce un ritratto intimo ripreso da un punto di vista privilegiato, ossia quello dell’amicizia che per anni li ha legati.
In mostra saranno presenti anche gli schizzi preparatori di Vanna Vinci, lavori di studio per la biografia a fumetti dedicata a Frida Kahlo che 24 ORE Cultura pubblicherà nell’autunno 2016. Oltre ai disegni preparatori del progetto, saranno esposte anche 4 grafiche realizzate ad hoc dall’artista e delle quali sono state realizzate delle tirature limitate.
La mostra (14 gennaio – 28 febbraio 2016) è composta di 27 fotografie in diversi formati. Con il patrocinio del Comune di Bologna.
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Tavole di classe – Massimo Siragusa e Annette Schreyer
Arriva a Officine Fotografiche Roma il progetto espositivo Tavole di classe, realizzato da due fotografi d’eccezione, Massimo Siragusa e Annette Schreyer, che hanno indagato su un doppio binario il rapporto tra cibo, luoghi e arte.
La mostra, curata da Tiziana Faraoni e prodotta da Officine Fotografiche Roma, inaugura mercoledì 20 gennaio alle 19 e resterà aperta al pubblico fino al 12 febbraio 2016.
Il progetto fotografico trae spunto da due aspetti della società che hanno, apparentemente, un unico protagonista: il cibo.
Da una parte un mondo dove sedersi a tavola è semplicemente un momento della routine quotidiana, templi della “pausa pranzo”, a volte asettici, costruiti per non pensare. Luoghi vuoti che, ripresi loro stessi in un momento di pausa, diventano protagonisti e rivelatori di differenze culturali e sociali.
Dall’altra il cibo come indicatore di stati d’animo che diventa rito. Inteso come consolazione ma anche come tentazione, simbolo del piacere. Attimo di ispirazione fermato nel tempo da pennellate di luce in una lunga riflessione poetica.
Massimo Siragusa e Annette Schreyer hanno lavorato su questo doppio binario, fondendo in un unico percorso i due aspetti che finora sono stati enfatizzati senza mai riuscire a creare un file rouge. Qui il tempio della “pausa pranzo” diventa la culla dell’arte e dell’ispirazione.
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Oltre le mura di Roma

(c) Stefano De Luigi
Oltre le mura di Roma è un progetto volto a coinvolgere i cittadini romani nel racconto fotografico delle loro periferie. Il percorso ha avuto inizio a gennaio 2015 con il lavoro di alcuni tra i migliori fotogiornalisti italiani che hanno realizzato cinque reportage fotografici dedicati alle storie di successo e di disagio delle aree periferiche della città.
Dal 21 gennaio al 10 marzo 2016, saranno esposte al Museo MACRO Testaccio (la Factory) le storie fotografiche realizzate dai vincitori: Sara Camilli, Ivan Consalvo, Gerardo Filocamo, Matteo Fusacchia, Giorgio Guastella, Fabio Moscatelli, Andrea Petrosino, Alita Spano & Marco Di Traglia e Matteo Vieille e, per la categoria Giovani emergenti, Isabella Borrelli e Lucia D’Amato. Faranno parte dell’esposizione inoltre singoli scatti di Francesco Conti, Nicola Delle Donne, Francesca Fabiano, Alice Falco, Alessandro Lacchè, Marco Leonardi, Zàira Mantovan, Viviana Peretti, Francesca Pompei & Gianluca De Simone, Liliana Ranalletta, Gianluca Rocchi, Stefano Sbrulli, Noemi Seminara e Michele Vittori, selezionati con menzione speciale dalla Giuria.
Gli scatti selezionati saranno esposti accanto ai cinque reportage d’autore sulle periferie realizzati in esclusiva dai fotogiornalisti romani Francesco Zizola, Stefano De Luigi, Davide Monteleone, Angelo Turetta e Tommaso Protti.
Giovedì 21 gennaio, alle ore 18.30, si terrà l’inaugurazione della mostra Oltre le Mura di Roma Durante l’evento inaugurale saranno, inoltre, annunciati i nomi dei vincitori delle borse di studio.
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UN MONDO A PARTE – Lahore Mental Hospital
Fotografie di Marylise Vigneau e Aun Raza
30 gennaio – 21 febbraio 2016 – QR Photogallery Bologna
Le fotografie di questa mostra sono il frutto del lavoro dei due autori realizzato nel corso di alcuni anni all’interno dell’ospedale psichiatrico di Lahore in Pakistan.
Gli sguardi originali dei due fotografi, tra loro diversi e complementari, ci guidano all’interno di un luogo dove scopriamo che non esiste soltanto la dimensione della sofferenza, della contenzione e della cura.
Insieme a loro percorriamo cortili e camerate come spazi dove l’espressione individuale del disagio profondo è ammessa, rispettata e in un certo senso salvaguardata dal giudizio stigmatizzante della ‘normalità’ che rimane al di fuori delle mura.
A questo luogo protetto e tollerante molti pazienti fanno ritorno anche dopo la cura e la dimissione dall’ospedale, spesso provati dal fallimento del tentativo di essere accettati ‘fuori’, alla ricerca di un mondo a parte dove poter essere se stessi.
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Guardo oltre – Lisa Boccaccio
Guardo oltre è un progetto fotografico sviluppatosi a Priolo Gargallo, in provincia di Siracusa, tra agosto e settembre 2014. Successivamente è stato riproposto in Stazione Centrale, a Milano, nell’estate 2015. È la rappresentazione di due realtà, quella del Centro di prima accoglienza per minori non accompagnati (nel caso della Sicilia) e dei minori in arrivo alla Stazione Centrale, che ha prodotto non soltanto la documentazione fotogiornalistica esposta al Pertini, ma anche lo sviluppo di punti di vista diversi su tale realtà: da un lato quello della fotografa, Lisa Boccaccio, dall’altro quello dei migranti minori.
Grazie alla donazione di macchine fotografiche da parte di Sky Italia, è stato possibile effettuare veri e propri corsi di fotografia che hanno coinvolto attivamente i ragazzi. È stato interessante cogliere lo sguardo con il quale i migranti osservavano ciò che li circondava. Il Centro d’accoglienza in un caso, la Stazione nell’altro, sono luoghi di arrivo dopo un lungo viaggio, ma nello stesso tempo sono solo luoghi di passaggio, una difficile prima tappa. La fotografia, in quanto linguaggio universale, ha dato loro modo di esprimersi, di raccontarsi e trovare punti di riferimento visivi nello spazio. Un percorso artistico e visivo che ha rappresentato un momento di svago, formazione e crescita individuale per i ragazzi. Se la bellezza e la forza della fotografia risiedono non solo nel raccontare storie, ma anche nel far riflettere chi la osserva, guardiamo ciò che succede e riflettiamo.
Il progetto è stato realizzato anche grazie alla collaborazione delle associazioni Papa Francesco di Priolo Gargallo e Albero della vita di Milano
16-31 gennaio 2016 – Centro Culturale Il Pertini – Cinisello Balsamo
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Nostalghia. Viaggio tra i cristiani d’Oriente
L’anno che si è appena aperto vedrà un ricco programma di mostre fotografiche a Villa Manin a cominciare da sabato 9 gennaio – inaugurazione alle 11:30 nella barchessa di levante- con “Nostalghia. Viaggio tra i cristiani d’Oriente” di Linda Dorigo, a cura di Annalisa D’Angelo, in programma fino al 6 marzo.
La mostra, accompagnata da un libro fotografico intitolato Rifugio, é la testimonianza del viaggio, durato quasi tre anni, della fotografa Linda Dorigo e del giornalista Andrea Milluzzi tra le comunità cristiane di nove Paesi del Medio Oriente.
Il fil rouge che unisce le trentadue immagini in bianco e nero della mostra è quello della nostalghia: non solo uno stato psicologico di tristezza e di rimpianto per la lontananza da persone o luoghi cari, che é quello che vivono queste comunità costrette per lo più a fuggire dalle proprie terre, ma anche una risposta alla sensazione di pericolo incombente sulla propria identità.
Il percorso fotografico, che vuole muovere le coscienze sui fatti che accadono in quei luoghi, punta i riflettori su una pagina di straordinaria attualità per gli accadimenti che coinvolgono la zona.
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Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla sindone ai droni.
27 gennaio – 1 maggio 2016 – Camera. Centro Italiano per la Fotografia – Torino
L’esposizione analizza la storia della fotografia forense e mostra un corpus di opere che coprono più di un secolo di storia, dai primi scatti entrati nelle aule di tribunale fino alle foto satellitari usate dalle organizzazioni per i diritti umani per denunciare l’uccisione di civili, come nel caso degli attacchi con i droni. Immagini forti, molto diverse tra loro, ma accomunate dalla terribile violenza che documentano e di cui sono prova.
Una selezione di undici casi-studio per illustrare un approccio scientifico al mezzo fotografico, volto a renderlo uno strumento nelle mani della giustizia. Una ricerca molto diversa da quella portata avanti in campo artistico, ma non per questo priva di un suo tetro fascino, nobilitato dalla solennità della Storia.
Ma la fotografia artistica e quella forense sono davvero così diverse? Se la prima si è spesso interrogata sull’effettiva verosimiglianza del mezzo fotografico nel descrivere la realtà, la seconda ha fatto della ricerca e della documentazione della verità la sua ragione d’esistere.
Questa mostra esplora contemporaneamente la potenza e i limiti del mezzo fotografico nella ricerca della verità. La potenza è quella dell’immagine, più d’impatto e più convincente di quanto potranno mai esserlo parole o cifre. Il limite è quello della tecnica, che spesso smentisce l’idea secondo cui l’obiettivo del fotografo non è altro che un occhio infallibile, che tutto coglie e tutto registra, capace di catturare l’attimo e di fermare in questo modo il tempo.
Appare allora chiaro che la verità non viene solo ri-costruita, ma viene a tutti gli effetti costruita e poi difesa tramite la raccolta di prove, tra cui le immagini sono regine indiscusse. Non è quindi sufficiente riportare alla luce le fosse comuni dove riposano i curdi vittima del genocidio operato dall’esercito iracheno nell’88: nel 1992 una fotografa dell’agenzia Magnum accompagna gli attivisti alla ricerca di prove, e documenta scrupolosamente l’esumazione affinché quelle vittime esistano davvero e possano quindi avere giustizia. Non basta processare i gerarchi nazisti: l’orrore dei campi di sterminio viene fotografato e filmato secondo regole ben precise dai soldati Alleati, e il film che ne deriva sarà il più grande atto d’accusa verso gli imputati a Norimberga. La verità che esce da queste prove appare tutto fuorché scontata. È anzi stata duramente conquistata, e nessuna immagine sarà mai vista abbastanza volte o da un numero sufficiente di persone fino al punto di renderla immortale e metterla al sicuro dai negazionismi.
Le lenti fotografiche sono state chiamate “obiettivi”, nella speranza che potessero salvare dall’imprecisione e dai dubbi che si accompagnano alla soggettività, ma la diversa interpretazione di una fotografia può tutt’ora avere pesanti conseguenze geopolitiche e umanitarie. C’è o non c’è traccia dell’antico cimitero beduino di Koreme, nel Deserto del Negev, nelle foto aeree che gli inglesi della RAF scattarono alla fine della Seconda Guerra Mondiale, prima della fondazione dello Stato di Israele? Chi sostiene che negli scatti sgranati e nebulosi di 70 anni fa non si veda alcun cimitero beduino non sta solo dibattendo i dettagli di vecchie fotografie: sta allo stesso tempo dichiarando che le migliaia di famiglie palestinesi che vivono tutt’ora nella zona sono abusive e devono essere cacciate dalle loro case, a ulteriore testimonianza del terribile potere che possono avere le immagini.
Una mostra intensa e con più livelli di lettura, che parla dei nostri lati bui e del nostro disperato bisogno di certezze.
Una coproduzione Le Bal (Parigi), Photographers’ Gallery (Londra) e Netherlands FotoMuseum (Rotterdam)
Mostra ideata da Diane Dufour con Luce Lebart, Christian Delage ed Eyal Weizman
Con il contributo di Jennifer L. Mnookin, Anthony Petiteau, Tomasz Kizny, Thomas Keenan ed Eric Stover
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Visions of Venice – Roberto Polillo
In anteprima internazionale, dopo averne mostrato un estratto al MIA 2015 di Milano, inaugura il 22 gennaio 2016 alle 18.00 alla Casa dei Tre Oci alla Giudecca di Veneziala la mostra “Roberto Polillo. Visions of Venice”.
In programma fino al 28 marzo 2016 e inserita all’interno della manifestazione “Tre Mostre – Tre Oci”, l’esposizione è introdotta da un testo di Denis Curti ed è curata da Alessandro Luigi Perna.
A comporre la mostra 75 immagini di Venezia (dal piccolo al grandissimo formato) realizzate dal fotografo Roberto Polillo nell’ambito di un progetto personale pluriennale dedicato alla città. In esposizione e nel libro che l’accompagna, edito da Skira, anche una selezione di citazioni su Venezia tratte dalle opere di alcuni dei più grandi scrittori italiani e internazionali.
“Visions of Venice” rappresenta il primo capitolo di “Impressions of the World”, il progetto ormai decennale di Roberto Polillo che ha per obiettivo la ricerca del Genius Loci di città e paesi del mondo. Un’avventura artistica e spirituale che finora lo ha portato in Marocco, India, Sud Est Asiatico, America Centrale, New Mexico, Miami, Islanda e Italia. Il progetto è tutto realizzato in ICM – Intentional Camera Movement, una tecnica di ripresa ancora poco conosciuta ma di grandi potenzialità artistiche che impone di realizzare le immagini tenendo tempi di ripresa lunghi e muovendo la macchina fotografica durante lo scatto.
La storia di Roberto Polillo come fotografo inizia nei primi anni ’60. È in quel periodo che il padre Arrigo Polillo, a tutt’oggi il più importante critico di musica jazz in Italia, lo spedisce a fotografare i grandi musicisti jazz di passaggio nel nostro paese per pubblicarne le immagini su Musica Jazz, la rivista di cui è direttore. Buttato nella mischia da giovanissimo, Polillo impara presto e bene il mestiere di reporter tanto da scattare immagini che entrano nella storia della fotografia dello spettacolo – oggi una sua mostra è in esposizione permanente alla Fondazione Siena Jazz. Ma poi agli inizi degli anni ’70 appende la macchina fotografica al chiodo per dedicarsi ad altro: l’imprenditoria e l’insegnamento universitario, entrambi nel campo dell’informatica, diventano infatti il suo futuro.
A riaccendergli la passione per il mezzo è la tecnologia digitale applicata alla fotografia. Che Roberto Polillo porta alle sue estreme conseguenze con la tecnica di ripresa ICM – Intentional Camera Movement. Usa infatti la macchina fotografica come fosse un pennello: tempi molto lunghi e movimenti di ripresa sempre diversi – verticali, orizzontali, circolari, obliqui, lenti o bruschi a seconda di come lo ispira il soggetto – fanno delle sue fotografie affascinanti rappresentazioni pittoriche della realtà. Il perfezionamento delle immagini avviene poi in postproduzione, fase di elaborazione fondamentale perché permette di declinare le immagini secondo la cifra stilistica di ciascun autore.
A ispirarlo culturalmente ed esteticamente sono i pittori viaggiatori dell’800 (soprattutto gli orientalisti) e artisti come Delacroix, Matisse, Renoir, Van Gogh, Turner, De Chirico. Ma per quanti riferimenti ci siano nelle sue immagini alla pittura moderna e contemporanea, Roberto Polillo crea per sé e per il suo pubblico un suggestivo universo artistico ed estetico del tutto originale e autonomo.
Il fotografo si pone davanti a Venezia come i viaggiatori del passato, cercando di astrarsi dai tempi moderni in cui viviamo. Immagina infatti di rivivere tutta la meraviglia di coloro che per la prima volta giungevano in questa città dalle architetture visionarie e fantasmagoriche, con gli edifici, affacciati a precipizio sull’acqua, che sembrano avere fondamenta liquide anziché solide, con canali al posto delle strade e barche invece che carrozze per spostarsi, e con vicoli che sembrano nascondere un misterioso e magico segreto dietro ogni angolo.
La Venezia di Polillo, esplorata in differenti momenti della giornata e nelle diverse stagioni dell’anno, è carica di colori e umori mutevoli. Come fosse in grado di esprimere tutto l’arco dei sentimenti umani attraverso le sue luci, le sue ombre, le sue sfumature cromatiche. A volte è una città luminosa, solare, ottimista. Altre è invece cupa, misteriosa, gotica e avventurosa. Altre ancora è intimista, malinconica, desolata, quasi disperata.
Roberto Polillo, senza mai accontentarsi, con il suo sguardo profondo, va a caccia delle molteplici anime di Venezia e ce le mostra in forma di potenti suggestioni pittoriche che mettono a nudo una città che sembra perduta, anzi sospesa, in eterno, nel tempo.
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GIUSEPPE DE MATTIA Dialogue With Time / FABIO BARILE Homage to James Hutton
Matèria è lieta di ospitare nei suoi spazi la doppia personale di Fabio Barile e Giuseppe De Mattia, la cui apertura al pubblico è fissata per il prossimo 4 febbraio alle ore 19:00.
L’esposizione sancisce l’inizio della collaborazione tra la galleria e i due artisti, con una campionatura della ricerca estetica e concettuale di ognuno, in previsione delle personali a galleria completa in programma per il 2016/2017.
Il lavoro presentato nella prima sala di Matèria, dal titolo Homage to James Hutton, nasce all’interno di Confotografia, un progetto di indagine sul territorio realizzato a distanza di quattro anni dal terremoto dell’Aquila. La serie, presentata per la prima volta in versione integrale, propone immagini diametralmente opposte ai progetti di stampo fotogiornalistico realizzati in seguito al tragico evento.Barile applica un distacco di natura scientifica alla tragedia, trovando terreno fertile per la sua ricerca nella collaborazione con il geologo Antonio Moretti, i cui disegni tecnici, sovrapposti ai paesaggi aquilani di Barile, esplicitano un esercizio riflessivo sul paesaggio come organismo complesso e sui processi di studio sull’evoluzione e la formazione dei territori.
Tre lavori site-specific di Giuseppe De Mattia occupano la seconda sala di Matèria, articolando il rapporto fisico ed estetico dell’artista con la temporalità. Il tempo, tema cardine che accomuna le opere esposte, ha una rilevanza nella produzione stessa dei lavori, la cui forma finale deriva dal legame e dalla convivenza con lo spazio espositivo e la città che ne fa da contorno. Polvere raccolta in galleria, calce, il tratto di una penna, sono gli elementi prediletti per la creazione di opere la cui funzione è la testimonianza della transitorietà personale e collettiva; tracce che De Mattia materializza esteticamente sotto forma di cieli stellati, serpentine e applicazioni monocromatiche che si manifestano con il passare del tempo, per poi svanire di nuovo.
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Sorella terra – La nostra casa comune

Dal 22 dicembre il Museo di Roma Palazzo Braschia ospita la mostra “Sorella Terra”, promossa da Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, ideata e realizzata da National Geographic Italia con oltre 60 fotografie.
La mostra ci conduce in un viaggio ideale tra le parole dell’enciclica e gli scatti dei maestri dell’obiettivo sulla fragilità, la sofferenza, la bellezza di questo nostro pianeta in pericolo. Ad accompagnarci nel percorso, che si apre sulla magnificenza del creato, per poi proseguire con il degrado ambientale e umano, l’urbanizzazione selvaggia, l’inquinamento, gli esclusi, ma anche la biodiversità e la sostenibilità, alcune fotografie esclusive di papa Francesco, realizzate dal fotografo Dave Yoder e altri scatti del pontefice.
National Geographic Italia, in occasione del Giubileo straordinario proclamato per la fine del 2015, dedica questa grande mostra, alla rivoluzionaria enciclica del pontefice sulla Terra, nostra casa comune. Una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia e “protesta per il male che provochiamo a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei”. L’enciclica, 246 paragrafi divisi in 6 capitoli, aggiunge un nuovo contributo alla dottrina sociale della Chiesa mettendo l’umanità di fronte alle sue responsabilità. “La terra è ferita, serve una conversione ecologica”, ammonisce Francesco nel testo che non si rivolge solo ai cristiani ma “a ogni persona che abita questo pianeta”, gettando luce sull’inquinamento, l’esaurimento delle risorse naturali, lo sfruttamento selvaggio della natura, la perdita della biodiversità, il deterioramento della qualità della vita, il degrado sociale, e su molte altre “ferite” del nostro mondo.
La mostra mette in campo, oltre alle fotografie di Dave Yoder, che ha seguito e documentato per quasi un anno la vita quotidiana del pontefice per un reportage esclusivo pubblicato ad agosto 2015 da National Geographic, gli scatti dei migliori fotografi del magazine strettamente legati ai temi trattati dall’enciclica LAUDATO SI’.
I temi trattati da Francesco nell’enciclica sono i cavalli di battaglia di National Geographic, che si batte da sempre per la salvaguardia del pianeta, gettando luce sui problemi, sulla ricerca, sulle possibili soluzioni.
Tra i fotografi in mostra: Jonas Bendiksen, James P. Blair, Ira Block, Jodi Cobb, Jad Davenport, David Doubilet, Gordon Gahan, Greg Girard, Fritz Hoffmann, Lynn Johnson,
Menahem Kahana, Ed Kashi, Karen Kasmauski, Robb Kendrick, Tim Laman, Frans Lanting, Pablo Leguizamon, David Liittschwager, Luca Locatelli, Pablo Lopez Luz, Steve McCurry, Michael Melford, Palani Mohan, Paul Nicklen, Carsten Peter, Jim Richardson, Ruben Salgado Escudero, Joel Sartore, Servizio fotografico L’Osservatore Romano, John Stanmeyer, George Steinmetz, Marcelo Tasso, Mike Theiss, Mark Thiessen, Tyrone Turner, Stefano Unterthiner, Stephen Wilkes, Michael S. Yamashita, Dave Yoder, Christian Ziegler.
Curatore/i
Marco Cattaneo e redazione National Geographic Italia
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Oh Man – Lise Sarfati
27 gennaio – 13 marzo 2016 – CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia
Il nuovo progetto dell’artista francese Lise Sarfati, Oh Man, curato da Francesco Zanot, è composto da una serie di fotografie realizzate in California, nella downtown di Los Angeles, tra il 2012 e il 2013.
Soggetto principale del lavoro sono alcuni uomini all’interno del contesto urbano. Non compiono alcuna azione rilevante. Nella maggior parte dei casi camminano. Oppure sono colti in un momento di pausa nel mezzo di uno spostamento. Ciò nonostante la loro presenza è evidente. Carica di energia. Potente. Ovunque si trovino nel rettangolo dell’immagine, hanno un’importanza centrale. In una sorta di aggiornamento della tradizione umanista, Lise Sarfati elimina dal suo immaginario qualsiasi indicazione narrativa e tensione eroica, lasciando campo libero alla pura comparsa nello spazio di una serie di individui.
Privati del’impeto di uno scopo e senza una direzione evidente, i protagonisti di questo lavoro vagano ininterrottamente. Inconsapevoli di essere fotografati, appaiono in posizioni precarie, mentre al contrario Lise Sarfati prende saldamente posizione di fronte a loro, attendendo per giorni interi il momento più propizio per riprendere le proprie immagini. Il risultato è un silenzioso dialogo che si svolge davanti allo spettatore e regola il passaggio tra l’indifferenza della rappresentazione e la partecipazione di chi osserva.
La città è l’unico scenario di questo incontro. Occupa l’intera superficie di ogni immagine, da destra a sinistra, dal basso all’alto. Il cielo, quando compare, è ridotto a un esiguo ritaglio geometrico in mezzo ai palazzi. Blu cobalto. Tipicamente americana nella costante alternanza tra edifici di mattoni, asfalto rabberciato, reti metalliche e insegne dei negozi, la metropoli fornisce il sottofondo ritmico invariabile degli imprevedibili gesti degli uomini, sparsi qua e là come note su uno spartito musicale. Il tempo è dato dalla luce istantanea dell’Ovest americano. Cristallina e violenta nelle ore centrali della giornata, costituisce l’innesco di un teatro che, a pochi chilometri dalle stelle del firmamento hollywoodiano, si svolge ininterrottamente ogni giorno.
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Ritratti – Giulia Efisi
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Le opere fotografiche esposte sono il risultato di un percorso di ricerca sull’identità che l’autrice ha compiuto negli ultimi anni in ambiti diversi. Oltre alle figure più vicine alla sua sfera privata e ad alcuni ritratti eseguiti per committenze di noti marchi italiani, spiccano i volti di personaggi dello spettacolo, dell’arte, dello sport e dell’imprenditoria. Da La Pina, conduttrice radiofonica e rapper, all’attore Jimmy Jean-Louis, dallo stilista Saverio Palatella al regista Rachid Dhibou. Presenti nella selezione di ritratti anche le attrici Sasha Grey ed Emmanuelle Moreau, lo stilista Tom Rebl, il pugile Leonard Bundu e l’attore e poeta Carlo Monni. Non mancano esponenti illustri dell’universo artistico più familiare all’autrice, come il fotografo Joe Oppedisano, mentre per il pianeta musica si sono prestati a essere ripresi dal suo obiettivo Pau dei Negrita ed Emiliano Pepe.“Un’esplorazione – quella dell’artista toscana – che vive di contrasti audaci e di elementi minimali, soprattutto nei ritratti realizzati in high key. Espressioni cercate e teatrali si alternano ad altre più intime, fugaci. Alcuni soggetti appaiono spogliati della loro immagine pubblica, altri sembrano rimossi dalla loro quotidianità per risplendere di una luce nuova, più autentica. In un atto estetico e, al contempo, profondamente introspettivo”. E.C.
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Pickers from the world – AAVV
1 – 12 Febbraio 2016 – Polifemo, La Fabbrica del Vapore – Milano
Si tratta di un’imperdibile esposizione che abbraccia foto sia editoriali che creative realizzate dai contributor di Picwant (Pickers) rigorosamente con il proprio smartphone, quindi una vetrina per presentare al grande pubblico una selezione di 30 scatti provenienti da ogni parte del mondo.
All’interno della mostra saranno inoltre presenti due reportage: Gianmarco Maraviglia, con il suo lavoro via smartphone “Milano mobile” che si interroga su Milano e il rapporto tra cittadini e mobilità pubblica, e Giorgio Cosulich de Pecine, con il progetto “Timkat”, la più importante festa ortodossa in Etiopia.
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RI-SCATTI
Torna la rassegna ideata dall’Associazione Onlus Riscatti (www.ri-scatti.it) fondata dalla giornalista RAI Federica Balestrieri, quest’anno dedicata alla multiculturalità e all’integrazione. La mostra realizzata anche quest’anno con il contributo di Tod’s e con il patrocinio del Comune di Milano, e curata da Chiara Oggioni Tiepolo, si terrà al Pac di Milano dal 16 al 27 gennaio 2016 (ingresso libero).
Oltre 70 foto scattate da 18 immigrati di 9 nazionalità – stampate su carta Canson Infinity- raccontano una Milano inedita e nascosta dove le culture dialogano tra loro e l’immigrazione è ricchezza e risorsa sociale.
Dai luoghi di culto all’intimità della vita tra le mura domestiche, dalle vie della città, alle giornate di lavoro. I fotografi ci riportano il loro personale sguardo su Milano e sulla loro ricerca di integrazione che diventa “riscatto”.
La vendita degli scatti in mostra sosterrà il progetto Home Visiting dell’Associazione CAF, progetto di prevenzione primaria del maltrattamento infantile rivolto a neomamme italiane o straniere in difficoltà o con gravi traumi migratori.
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Anna
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