Corso di Storytelling fotografico, i lavori degli studenti!

Buongiorno, oggi vi mostro i progetti che alcuni dei “ragazzi” hanno prodotto durante il mio corso di Storytelling. Un corso a cui tengo molto, perché mi da il tempo di far sbocciare, attraverso il confronto e lo studio collettivo, un linguaggio personale in ognuno, sfruttando al meglio le vostre possibilità. Sono contenta dei risultati. Ho chiesto loro di fare un editing di 12 immagini circa per progetto, i lavori sono spesso più lunghi e articolati.

Spero vi interessino e vi colpiscano.

Buona giornata

Sara

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Pellestrina. Tra la mia casa e l’isola, sulla carta geografica, intercorrono solo ottanta chilometri, ma questa distanza si traduce in un vero e proprio viaggio. Due ore e mezza di percorso, prima in auto, poi su un vaporetto e infine su un autobus che si lascia traghettare di isola in isola procedendo snellamente e assecondando pazientemente le fermate. Il mio approdo finale avviene con la Linea 11, su una “corriera” che compie ripetitivi viaggi quotidiani e accarezza come un’onda l’isola lunga undici chilometri: una linea di terra sottile, sospesa sull’acqua talvolta per pochi metri di larghezza, un tracciato che ti fa sentire quasi inerme davanti alla spettacolarità naturale del luogo. Il viaggio diviene propedeutico, un adeguamento progressivo, una educazione alla trasformazione. Tutto è scandito da un ritmo di attese. Poi, all’arrivo, l’acqua, il vento, il sale manifestano immediatamente l’unicità di questo lembo di terra dove si respira diffusamente la laguna. Qui si percepisce l’essenziale, entro un microcosmo che silenziosamente ti accoglie e ti scava dentro. La mia prima conoscenza dell’isola avvenne quasi vent’anni fa, durante una gita estiva in bicicletta con amici. In quell’occasione, dispersiva e quasi vacanziera, non riuscii a cogliere nulla di preciso, ma qualcosa di latente mi rimase dentro. Qualche anno fa ci sono ritornata da sola, d’inverno, quasi in seguito a un richiamo e ne sono rimasta folgorata. Ho subito amato la qualità del silenzio e la semplicità un po’ ruvida e malinconica che avvolge tutto. Ho meditato a lungo sul modo di esprimere ed interpretare col mio sguardo la profondità di questo luogo anfibio; soffermandomi inizialmente sul nome dell’isola ho pensato alla pelle, un’associazione forse banale, se accolta senza considerazioni. La pelle, ovvero la superficie delle cose, la prima barriera con l’esterno. Ho cercato di figurare l’epidermide del luogo, partendo dal presupposto che in un territorio così esposto la superficie esterna non può che celare una grandissima profondità. A poco a poco è sorta una personale immagine dell’isola attraverso l’espressione della sua fisionomia sensibile, degli isomorfismi creati dagli agenti atmosferici, dal sale, dalle acque, da piccole creature marine e dall’uomo. Dietro a questa scorza si respirano tradizioni, fatica, lavoro e un’infinita dolcezza. Il mio desiderio è consistito nel tentativo di espressione sensibile dello scorrimento temporale, del flusso vitale, della fragilità e del senso di vulnerabilità – ambientale, fisica, umana – che trasuda dalla microstoria del luogo. Ho pensato alla laguna di Venezia e alla sua labilità, ai suoi delicati equilibri, ponendoli in relazione con la fugacità della vita umana, rispecchiando la lotta contro il tempo della nostra esistenza nell’immagine di una laguna che tenta, mutando, di sopravvivere e di sopravviverci: un mondo tenace che si trasforma e resiste. L’isola sussurra il passato, officia la sua e la nostra caducità entro il processo perpetuo e metamorfico di fragili creature strappate all’acqua, in una relazione dinamica con il mare la cui progressiva precarietà, anche a causa dell’invadenza antropica, è accoratamente evidente.

Eliana Bozzi

sito: www.elianabozzi.it

Instagram: @elianatamago

HAJIME, 1980.

“Hajime” è la parola che in giapponese significa“Inizio”ed è la stessa che viene usata dagli arbitri al via di ogni incontro di judo. 

New York, 29-30 novembre 1980. 149 atlete provenienti da 27 paesi del mondo mettono piede nel Madison Square Garden, pronte a scrivere una pagina della storia dello sport. Fortemente voluti dalle judoka di tutto il mondo e soprattutto dalla leggendaria figura di Rusty Kanokogi, i primi campionati del mondo di judo femminile trovano il proprio via. 

È un evento unico, dove per la prima volta si respira un’aria diversa, davvero di universalità. È qualcosa a cui oggi noi siamo abituate, ma che risulta totalmente nuovo a chi, fino a quel momento, si vedeva negata la possibilità di viverlo.
E tra tutte le 149 judoka presenti, c’erano anche loro: le 7 azzurre di New York. Anna De Novellis, Patrizia Montaguti, Maria Vittoria Fontana, Laura di Toma, Nadia Amerighi, Margherita De Cal. Sette donne che hanno scritto parte di questo “hajime”, a cui voglio rendere un piccolo tributo attraverso questo lavoro.
La memoria è corta, si dà spesso per scontato tutto quello che abbiamo, ma a monte c’è sempre un pioniere che apre la strada a tutti coloro che vengono dopo.
Le medaglie olimpiche femminili di judo, sono tutte figlie dei nomi che hanno partecipato a quel primo storico evento.
“Hajime” è il racconto di quel nuovo inizio che si snoda nei ricordi di queste sette meravigliose donne, creato raccogliendo i loro volti e ciò che il tempo conserva ancora tra fotografie, documenti e articoli di giornali. 

Erika Zucchiatti

Sito web: http://www.erikazucchiatti.com

Instagram: https://www.instagram.com/zuksku/

TITOLO: N’VALéRAUN PAESE SI RACCONTA

In questo paese, Novellara, sono nata ed ho vissuto sino all’adolescenza.

L’ ho lasciato per studio prima, per lavoro poi, perché “mi stava stretto”, infatti cercavo spazi più aperti e opportunità che non mi offriva.

Il mio interesse, tardivo, per Novellara si rispecchia in quello che aveva coinvolto mio padre che, fotografo dilettante, negli anni ’60 e ’70 del 1900, aveva documentato, insieme ai suoi colleghi del gruppo fotografico novellarese, gli aspetti del centro antico che andavano modificandosi a seguito del boom economico.

Nell’ Archivio Storico Comunale ho trovato le loro testimonianze, ma anche alcune risalenti ai primi decenni del secolo, a cui ho accostato immagini di oggi cercando di mantenere lo stesso loro punto di vista.

La mia indagine, iniziata alla fine del 2020, è nata dallo studio storico dei Conventi che hanno segnato la crescita dell’antico borgo medioevale a partire dal XIV secolo e che erano ancora presenti alla fine del XVIII secolo. Successivamente ho inserito alcuni “luoghi”, compresi nell’antico perimetro paesano, attorno a cui ruota ancora oggi la vita sociale, artistica e politica della comunità.

Ne è nato un corpus di immagini che raccontano, con continui confronti, un ideale viaggio nel passato.

L’ evolversi del mio lavoro mi ha portato a comprendere con occhi nuovi l’ interesse per il paese che aveva mio padre a cui, ora, mi sento più vicina e a cui lo dedico per il sostegno e l’ incoraggiamento silenzioso con cui mi ha sempre accompagnato.

Maura Bartoli

HABITO

Dal latino : abitare, portare abitualmente, essere solito tenere, ma anche stare, trovarsi, trattenersi, fermarsi…

Il progetto è nato con l’intento di tenere viva la memoria di una piccola congregazione religiosa: le “Ancelle della Provvidenza per la salvezza del Fanciullo” della quale sono ormai rimaste le ultime sei suore.

Ho voluto onorare le loro vite fatte di dedizione al bene, rendendole, al contempo, protagoniste attive.

Questa Congregazione religiosa ebbe umili origini e un graduale sviluppo  a Milano, nell’ultimo decennio del secolo XIX, per opera del sacerdote milanese Don Carlo San Martino; nel piccolo gruppo  veniva  coltivato lo spirito di pietà, umiltà e obbedienza, non disgiunto da una grande abnegazione a servizio dei fanciulli poveri e abbandonati.

Le Zie, come le chiamavano le numerose piccole vite fragili che da loro hanno ricevuto accoglienza, cura, educazione, oggi, sono tutte a un bel traguardo di vita e ancora vivono umilmente per insegnare a tutti noi il profondo senso di devozione e di disponibilità verso gli altri.

Ho scattato fotografie che diventano momenti preziosi, intimi, soprattutto veri, in un  mondo che sempre più tende a dimenticare chi ha dato la vita per gli altri: pregando, insegnando, costruendo.

HABITO è un omaggio a delle persone meravigliose che possono solo essere l’esempio da imitare e da seguire; è il luogo dei ricordi di chi ha fatto della Fede la propria vita e diventa anche il luogo dove trasmettere questi ricordi, un testimone da passare alle generazioni future, per non dimenticare e per continuare a coltivare l’amore verso il prossimo e l’amore per la vita.

Monica Testa

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TITOLO: A VITA-E

Un lavoro dedicato a mio padre. Un regalo per lui, per ringraziarlo di tutto ciò che ha fatto e continua a fare per me e tutto quello che è stato ma soprattutto non è stato per me. Un lavoro semplice, pulito, sintetico e allo stesso tempo esaustivo, proprio come lui.

Papà è una persona difficile da fotografare e non perché non sia fotogenico ma perché per timidezza ed imbarazzo difficilmente riesce a guardare dritto in camera, anche se glielo si chiede espressamente. Credo non voglia darsi il permesso di esporsi e quindi di ammorbidirsi.

Nel tentativo di semplificarmi la vita durante gli scatti e di rendere più spontanee le sue espressioni ho pensato di ritrarlo nella sua seconda casa, il suo capannone, il suo regno, il luogo in cui ancora oggi lavora quotidianamente con tanta passione e dedizione, chiedendogli espressamente ogni volta di non rivolgere lo sguardo in camera e ponendo sempre tra me e lui un terzo elemento “filtrante”. 

Così facendo per alcuni giorni l’ho affiancato e “tormentato”. Mi sono immersa con lui e per lui nella sua giornata lavorativa tra compressori ad aria, pezzi di ricambio, filtri d’aria, residui di olio di macchine sul pavimento e getti d’acqua..

Insieme al suo tempo questo è ciò che mi donato. 

In questi scatti riconosco bene mio padre: il suo essere inafferrabile come il fumo, impalpabile, invisibile e vitale come l’aria, sfuggente come l’acqua, trasparente come un vetro e il suo essere sempre e delicatamente ombra al mio fianco.

Cristina Rozzoni

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Vene di terra
Il territorio del confine tra Appennino reggiano/modenese e la Pianura Padana, nel dopoguerra, colse favorevoli impulsi per lo sviluppo dell’industria ceramica destinata all’abitare, complice il crescente boom economico.
L’aumento della domanda incrementò l’offerta con una rilevante fioritura di imprese che adottarono un modello di industrializzazione adeguato.
La loro localizzazione era giustificata da un’agevole connessione con la rete stradale e lo sfruttamento delle risorse naturali appenniniche.
Dagli anni ‘90 l’estrazione delle terre iniziò a calare in concomitanza con l’importazione di materiali esteri, in quanto con l’evoluzione del prodotto finale, la tipologia di argilla locale non possedeva più le idonee caratteristiche.
Oggi l’attività delle cave è ridotta o cessata, lasciando insanabili ferite sul territorio creando le premesse per ampi smottamenti e favorendo la formazione di calanchi.
Il mio lavoro è la testimonianza di come nel 2021 in questo territorio siano ancora presenti i segni di quel passato sfruttamento.

Emanuela Torelli

e-mail:  emanuela.torelli@cheapnet.it

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