Vivian Maier – Street photographer
10 Luglio – 18 ottobre 2015
Dopo gli Stati Uniti il fascino di Vivian Maier sta incantando l’Europa.
Bambinaia per le famiglie benestanti di New York e Chicago sino dai primi anni Cinquanta del secolo scorso, per oltre cinque decadi ha fotografato la vita nelle strade delle città in cui ha vissuto senza mai far conoscere il proprio lavoro. Mai una mostra, neppure marginale, mai una pubblicazione.
Ciò che ha lasciato è un archivio sterminato, con più di 150.000 negativi, una miriade di pellicole non sviluppate, stampe, film in super 8 o 16 millimetri, registrazioni, appunti e altri documenti di vario genere che la tata “francese” (la madre era originaria delle Alpi provenzali) accumulava nelle stanze in cui si trovava a vivere, custodendo tutto con grande gelosia.
Confinato infine in un magazzino, il materiale è stato confiscato nel 2007, per il mancato pagamento dell’affitto, e quindi scoperto dal giovane John Maloof in una casa d’aste di Chicago.
La mostra al MAN di Nuoro, a cura di Anne Morin, realizzata in collaborazione con diChroma Photography, sarà la prima di Vivian Maier ospitata da un’Istituzione pubblica italiana.
Partendo dai materiali raccolti da John Maloof, il progetto espositivo fornisce una visione d’insieme dell’attività di Vivian Maier ponendo l’accento su elementi chiave della sua poetica, come l’ossessione per la documentazione e l’accumulo, fondamentali per la costruzione di un corretto profilo artistico, oltre che biografico.
Insieme a 120 fotografie tra le più importanti dell’archivio di Maloof, catturate tra i primi anni Cinquanta e la fine dei Sessanta, la mostra presenta anche una serie di dieci filmati in super 8 e una selezione di immagini a colori realizzate a partire dalla metà degli anni Sessanta. Privi di tessuto narrativo e senza movimenti di camera, i filmati fanno chiarezza sul suo modo di approcciare il soggetto, fornendo indizi utili per l’interpretazione del lavoro fotografico.
Gli scatti degli anni Settanta raccontano invece il cambiamento di visione, dettato dal passaggio dalla Rolleiflex alla Leica, che obbligò Vivian Maier a trasferire la macchina dall’altezza del ventre a quella dell’occhio, offrendole nuove possibilità di visione e di racconto.
La mostra sarà inoltre arricchita da una serie di provini a contatto, mai esposti in precedenza, utili per comprendere i processi di visione e sviluppo della fotografa americana.
A conquistare il pubblico, prima ancora delle fotografie, è la storia di “tata Vivian”, perfetta per un romanzo esistenziale o come trama di una commedia agrodolce; talmente insolita, talmente affascinante, da non sembrare vera.
Ma al di là del racconto, al di là delle note biografiche, dei piccoli grandi segreti rivelati dalle persone che l’hanno conosciuta, al di là del suo ritratto di donna eccentrica e riservata, dura e curiosa come pochi altri, custode di un mistero non ancora svelato, al di là di tutto c’è il grande lavoro fotografico di Vivian Maier, su cui molto rimane ancora da dire.
Vivian Maier ha scattato perlopiù nel tempo libero e a giudicare dai risultati si può credere che, in quel tempo, non abbia fatto altro. I suoi soggetti prediletti sono stati le strade e le persone, più raramente le architetture, gli oggetti e i paesaggi.
Fotografava ciò che improvvisamente le si presentava davanti, che fosse strano, insolito, degno di nota, o la più comune delle azioni quotidiane. Il suo mondo erano “gli altri”, gli sconosciuti, le persone anonime delle città, con cui entrava in contatto per brevi momenti, sempre mantenendo una certa distanza che le permetteva di fare dei soggetti ritratti i protagonisti inconsapevoli di piccole-grandi storie senza importanza.
Ogni tanto però, in alcune composizioni più ardite, Vivian Maier si rendeva visibile, superava la soglia della scena per divenire lei stessa parte del suo racconto. Il riflesso del volto su un vetro, la proiezione dell’ombra sul terreno, la sua silhouette compaiono nel perimetro di molte immagini, quasi sempre spezzate da ombre o riflessi, con l’insistenza un po’ ossessiva di chi, insieme a un’idea del mondo, è in cerca soprattutto di se stesso. In questa indagine senza fine talvolta coinvolgeva anche i bambini che le venivano affidati, costringendoli a seguirla in giro per la città, in zone spesso degradate di New York o di Chicago. A uno sguardo sensibile e benevolo per gli umili, gli emarginati, univa una vena sarcastica, evidente in molti scatti rubati, che colpiva un po’ tutti, dai ricchi borghesi dei quartieri alti agli sbandati delle periferie.
“Di Vivian Maier – afferma Lorenzo Giusti, Direttore del MAN – si parla oggi come di una grande fotografa del Novecento, da accostare ai maestri del reportage di strada, da Alfred Eisenstaedt a Robert Frank, da Diane Arbus a Lisette Model. Le grandi istituzioni museali fanno però fatica a legittimare il suo lavoro, vuoi perché, in tutta una vita, non ebbe una sola occasione per mostrarlo, vuoi per la diffusa – e legittima – diffidenza verso l’attività degli “hobbisti”. Ma i musei, si sa, arrivano sempre un po’ in ritardo.
Delle opere di Vivian Maier non colpisce soltanto la capacità di osservazione, l’occhio vigile e attento a ogni sensibile variazione dell’insieme, l’abilità di composizione e di inquadramento. Ciò che più impressiona è la facilità nel passare da un registro all’altro, dalla cronaca, alla tragedia, alla commedia dell’assurdo, sempre tendendo saldamente fede al proprio sguardo. Una voce rimasta per molto tempo fuori dal coro, ma senza dubbio ben accordata”.
Tutte le info qua
Segnaliamo alcune mostre del Ragusa Foto Festival:
Da venerdì 26 giugno a domenica 26 luglio
Iran 1970 – Gabriele Basilico
In mostra un dono che emerge dall’archivio di Gabriele Basilico. Un’esposizione inedita presenta per la prima volta al pubblico una serie d’immagini racchiuse per 45 anni dentro una scatola nello studio del grande fotografo.
Sono stampe originali baritate vintages in bianco e nero che con il loro medio formato trasmettono il tono evocativo e personale del ricordo privato di questo viaggio intrapreso verso Oriente da Gabriele Basilico nel 1970. Destinazione l’Iran e la Turchia. Gabriele ha 26 anni in quel momento e non ha ancora intrapreso la carriera di fotografo. Usa la macchina fotografica come un taccuino per raccogliere appunti visivi di paesaggi e città dense di fascino mitico e misterioso. L’Iran che appare in queste fotografie è ancora la Persia dello Scià. Al suo fianco in quest’avventura, un iniziatico viaggio alla fotografia, c’è la voglia di scoperta dell’Oriente che ha segnato una generazione. Parte alla guida di una Fiat 124, una mappa stradale da consultare e qualche amico. Al suo fianco la compagna di una vita, Giovanna Calvenzi. Grazie a lei le immagini sono presentate al Ragusa Foto Festival per la prima volta.
Basilico scatta immagini tra i Balcani, Turchia, il mar Nero, verso una destinazione da definire tra Samarcanda e l’Afghanistan. Gabriele stesso ha raccontato “abbiamo attraversato tutta la Turchia e l’Iran e la tappa più importante è stata Istanbul. Nel 1970 a Istanbul, per andare da Ovest a Est c’erano i traghetti, non c’erano ponti, un po’ come lo Stretto di Messina. Adesso ci sono due ponti enormi, come a San Francisco, con un traffico intensissimo. E tutto l’Est si estende per chilometri su una sorta di terreno collinare.(…) Un’ esposizione che permette di conoscere e comprendere inizi ed evoluzioni della carriera del grande fotografo e di vedere attraverso il suo sguardo l ‘ incantevole ricca bellezza di territori sospesi tra i fasti e le rovine della storia. Scrive Basilico nelle note a queste immagini pubblicate dalla casa editrice Humboldt “Lunghe strade dritte intersecano spazi che per noi hanno dell’incredibile: una dimensione che modifica la nostra sensibilità, dandoci un senso di maggior dilatazione di spazi e di atmosfere”. Una mostra che narra la scoperta e la nascita della vocazione di una maestro che ha segnato con la sua visione la storia della fotografia.
Diario – Letizia Battaglia
Per la prima volta un’esposizione in cui si presentano immagini inedite e stampe vintage tratte dall’archivio personale di Letizia Battaglia. Una mostra che ripercorre con la luce e i contrasti del bianco e nero, l’intero percorso della prima donna fotoreporter italiana.
“Diario” è un ritratto visivo appassionato e autentico che vuole celebrare la carriera umana e professionale della fotografa che ha documentato e testimoniato con il suo obiettivo di uno dei periodi più cruenti della storia siciliana e del nostro Paese.
Letizia è la fotografa militante le cui immagini di cronaca sono diventate icone in tutto il mondo degli anni bui delle guerre di mafia. Tra le esistenze oscurate dai delitti mafiosi, come l’esecuzione con una raffica di mitra del magistrato Cesare Terranova; l’omicidio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella… emergono dalla selezione la solidarietà verso la povertà, la rabbia verso la corruzione e la forza della lotta per la giustizia.
Diario è una mostra e una biografia per immagini raccolta nell’omonimo libro dell’artista, in cui lei stessa ha scelto di raccontarsi. Tra le fotografie presentate, alcune preziose e inedite, rimaste custodite e separate delle immagini della cronaca per oktre trent’ anni. La selezione ripercorre l’intera esperienza artistica di Letizia Battaglia a partire dalla sua prima foto scattata a Milano all’inizio della sua collaborazione come corrispondente del giornale L’Ora di Palermo. Tra i ritratti PierPaolo Pasolini, i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, il magistrato Roberto Scarpinato. Tra le stampe emergono e conquistano gli sguardi delle bambine. L’innocenza in bilico di queste piccole donne è la presenza più forte dell’archivio dell’ autrice. Osservandole in sequenza si percepisce e si vede come insieme si siano reciprocamente rincorse e capite, dalle strade dei quartieri di Palermo, per i piccoli paesi siciliani, in un interno americano durante un assegnato per “A day in the life of America” etc… Con le loro espressioni implacabili e serene, senza indugio guardano dritto in camera e conducono una danza con l’ obiettivo di Letizia. Si sprofonda in questi sguardi, abissi di vulnerabilità innocente fatta di forza e sogni. E’ lei stessa a dichiarare
“Credo che il sogno importante e definitivo sia la ricerca di libertà, di poter scegliere, di poter essere rispettata, riconosciuta, libera di essere determinante nella vita, di essere parte di una società non ingiusta.” Una mostra in cui si celebra il sogno, la passione e la vita di una grande donna ed artista.
Abbandoni” di Davide Monteleone e Francesco Zizola
La bellissima isola di Lampedusa sembra diventata un torrido purgatorio, un lembo di salvezza tra Africa ed Europa disperatamente agognato dalle centinaia di disgraziati che saranno lasciati annegare – da scafisti disumani o dalla complice inattività delle autorità competenti.
Come il simile attrae il simile, l’isola raccoglie tutto ciò che viene lasciato indietro in questo transito di uomini e cose: oggetti abbandonati a bordo dei barconi – indumenti, teiere, fotografie, amuleti, libri di preghiera, banconote, ecc. – persino le carcasse stesse delle imbarcazioni. Ogni immagine sembra evocare una qualità della persona che ha portato con sé quell’oggetto. Un papillon – così stonato nel contesto di un barcone che traversa il mare – parla di eleganza, dignità. Uno spazzolino – quando a bordo persino l’acqua da bere scarseggia – parla di igiene, cura. Un’audiocassetta evoca l’idea di familiarità, casa. Un rosario quella di fede, speranza.
Poi l’ultima immagine, quella definitiva: il relitto in fondo al mare. Un doppio abbandono, in cui sono rimaste incagliate tutte le qualità umane e le speranze che furono condotte a bordo per essere trasportate nella vita immaginata oltre il viaggio.
Attraverso questa collaborazione, Davide Monteleone e Francesco Zizola fanno confluire due progetti indipendenti verso una comune meditazione sulla condizione dei migranti che cercano di raggiungere le coste d’Europa via mare, un tema oggi urgente, una realtà inarrestabile.
Ciò che rimane in mare, gli oggetti lasciati a Lampedusa, appaiono come una metafora della vita che aspetta i migranti che riescono a raggiungere l’Europa. Un ennesimo abbandono alle loro sorti, di cui pochi sembrano volersi fare carico.
Tutte le info ed altre mostre qua
Josef Koudelka – Vestiges
3 luglio – 31 ottobre 2015
La Bégude, 400 Route du Pont du Gard, 30210 Vers-Pont-du-Gard (France).
Josef Koudelka ha passato più di 20 a fotografare anni siti archeologici greco-romani: in Libia, in Algeria, in Albania, in Francia. Il celebre fotografo franco-ceco, oggi settantacinquenne, da 1991 ha visitato 19 paesi del Mediterraneo.
L’esposizione comprende 21 foto panoramiche, 37 foto installate su plinti, disposte qua e là come delle rovine e 180 cliché proiettati in una camera nera.
Qua tutte le info
Failing Leviathan: Magnum Photographers and Civil War
The exhibition features the work of eleven Magnum photographers encompassing eleven conflicts: from Robert Capa’s coverage of the Spanish Civil War in 1936 to Thomas Dworzak’s ‘Magnum Instagram Scrapbooks’ probing recent events in Ukraine. Shown here for the first time and made specifically for this exhibition, Dworzak’s project charts images that have run out of control – the pictures that of atrocities that soldiers have long taken and kept to themselves are now thrown into the digital realm and made public.
The works on display provide the means of exploring complex historical and contemporary conflicts and the role of the photographer within these. The overarching theme of the exhibition, uniting the images from disparate conflicts, is the ways in which civil war and photojournalism have changed in tandem. The exhibition further explores the subjects of siege and occupation, exemplary violence, old and new media, and routes to peace through the juxtaposition of photographs from different conflicts and disparate ages.
The exhibition title is drawn from philosopher Thomas Hobbes’ work Leviathan, the famous cover illustration of which by Abraham Bosse shows the state as a giant composed of many people. This visual metaphor illustrates the theory that the collected strength of many allows a state to gain a monopoly of violence, which in turn ensures peace for those content to be governed by the colossus. Failing Leviathan examines the connection between failing states and the weakened news media, which are part of the same political and economic ecology, and photography’s role within this.
The following photographers are featured in the exhibition:
Ian Berry | Werner Bishof | Michael Christopher Brown | Robert Capa | Thomas Dworzak | Philip Jones Griffiths | Tim Hetherington |Susan Meiselas |Moises Saman | Jerome Sessini | David Seymour
National Civil War Centre – Newark Museum – Nottinghamshire
June 20 – November 5 2015
More info here
UNA STORIA DELLA FOTOGRAFIA ITALIANA 1841-1941
dalle collezioni Alinari
Sala Ipogea dell’Archivio di Stato
via Piave 21, Torino
Dal 28 maggio al 26 luglio
L’internazionalità dell’Italia in campo fotografico si afferma ben presto: a partire dalla presenza di numerosi dagherrotipisti, che hanno recepito la nuova tecnica francese. Per proseguire con molti fotografi stranieri, che hanno trovato in Italia, terra del Grand Tour, dell’arte e del paesaggio, fonte di ispirazione per le loro fotografie. Ed a ragione si può dire che questi fotografi siano diventati “patrimonio” della storia della fotografia italiana, così come quelli operanti sul territorio nazionale.
La creazione dello Stato Italiano nel 1861 si accompagna ad una volontà di unificazione culturale che si traduce nella produzione di una importante documentazione fotografica relativa al patrimonio regionale, il folklore e le tradizioni popolari, la cui produzione continuerà fino al 1910.
Il primo Novecento italiano è celebrato con alcuni tra i più noti autori esponenti di quelle correnti artistiche di ricerca, come il Pittorialismo e di avanguardia, come il nostro Futurismo, fino a richiamare gli autori del Neorealismo.
Le fotografie raccontano quindi due storie: quella della fotografia in Italia (anche a cura di autori stranieri) e quella dei fotografi italiani (anche con scatti realizzati all’estero). Altro punto di forza della selezione delle immagini è costituito dalle tecniche fotografiche: si va dal dagherrotipo, prezioso sia per il supporto su lastra d’argento, sia per il fatto che rappresenta un “unicum” non riproducibile. Si prosegue con i calotipi, negativi su carta, la cui invenzione si deve a Fox Talbot nel 1841, per poi passare alle carte salate, albumine, platinotipie, gelatine bromuro d’argento, stampe colorate a mano, autochromes, ecc.
Qua tutte le info
Martin Schoeller – Identical
Known for the close-ups of people he shoots for The New Yorker, in this exhibition Martin Schoeller puts the same technique to use in a sort of spot the difference game. In his recent series Identical, Schoeller does not fix his rigorous eye on the celebrities of this world, actors, singers, politicians and so on, but rather on twins, sometimes triplets. When faced with faces that resemble each other so spectacularly, and that also display such minute differences, what arises is the question: so what is identity ? What is it that makes someone an individual when (s)he has one or more doubles? Here physical appearance becomes a source of doubt, demanding of everyone that we redefine ourselves by the measure of more inner criteria.
Martin Schoeller is represented by A. galerie, Paris.
12 June – 6 September – Vichy
More info here
Anna “*”