Ciao,
se dico Lee Miller a voi cosa viene in mente?
Immagino qualcuno penserà alla famosa immagine scattatale da David Scherman nella vasca da bagno di Hitler.
Qualcun altro all’immagine scattatale da Man Ray, in cui appare in un primo piano stretto con delle lacrime di vetro sul viso.

Paradossalmente, le immagini più conosciute di Lee Miller non sono scatti suoi. Eppure lei è stata davvero una grande fotografa e una grande donna, purtroppo spesso sottovalutata e ridotta al ruolo di musa di altri artisti.
Ho appena finito di leggere il libro “La vasca del Führer” di Serena Dandini, che ripercorre la vita di Lee Miller, partendo dalla famosa immagine (ho deciso di non pubblicare la foto di copertina, poichè fuorviante, non è un autoritratto come sembrerebbe dalla copertina del libro nda). Il libro è un romanzo, quindi non completamente e non sempre fedele alla realtà, ma è un buon modo per avvicinarsi alla conoscenza di questa fotografa. Credo che in ogni modo la Dandini abbia svolto un ottimo lavoro di ricerca e riportato anche degli aneddoti molto interessanti.
Nata nel 1907 nello stato di New York, gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza furono molto travagliati. A soli 7 anni infatti fu violentata mentre era a casa di parenti e, in seguito allo stupro, contrasse la gonorrea. A quei tempi, nel 1914, quella malattia si curava in modo dolorosissimo e pericoloso. Lee urlava a tal punto che dovettero allontanare i suoi fratelli per non udirne le grida. Ma anche la sua adolescenza fu segnata da un altro trauma: mentre era in canoa con il suo ragazzo Brad, questi ebbe un malessere, probabilmente un problema cardiaco, cadde in acqua ed affogò. Da quel momento Lee fece moltissima fatica a innamorarsi.
Dopo quei primi burrascosi anni, Elisabeth Miller (questo era il suo vero nome) iniziò la sua carriera come modella per Vogue, ma la fotografia era un’arte che fin da piccola aveva esercitato un particolare fascino su di lei. Il padre infatti era un ingegnere che nel tempo libero si dilettava con la nuova arte della fotografia, emergente ad inizio 900 e fin da piccola ritraeva Lee ossessivamente, anche in pose che oggi darebbero scandalo.
Ben presto quindi si stancò della vita da modella newyorchese e si trasferì a Parigi. Disse di sé: “Preferisco fare una foto, che essere una foto”.
La vita culturale parigina negli anni 20 era in pieno fermento, il movimento surrealista stava nascendo e la maggior parte degli artisti confluiva in questa città. Picasso, ma anche Claude Cahun, Andrè Breton, Paul Eluard, Max Ernst e tutti quelli del circolo surrealista di Montparnasse. Era una città sessualmente libera, ben diversa da New York, molto più aperta e accogliente, in particolare per le donne.
Nella città degli artisti, incontrò uno dei più famosi fotografi dell’epoca, Man Ray, con grande faccia tosta gli di poter essere la sua assistente. Lui prima si rifiutò, poi fu sorpreso dalla sua bravura. Fu l’inizio di un sodalizio artistico ed umano che segnò per sempre la vita di entrambi: in breve tempo, la stima artistica reciproca si trasformò in un amore passionale e tormentato.
Lee divenne la protagonista di alcuni dei più famosi scatti di Man Ray, alimentando il suo percorso di maturazione e ossessione per i dettagli del corpo. Per altro, non le fu mai riconosciuto il merito di aver scoperto la tecnica della solarizzazione, erroneamente attribuita proprio a Man Ray. La Dandini nel libro così ricostruisce questa scoperta “Di nuovo entra in scena il caso, e questa volta ha le sembianze di un topo che nel buio della camera oscura cammina sui piedi di Lee, o almeno lei ne è convinta. Terrorizzata da quel contatto, caccia un urlo e accende la luce mettendo a repentaglio il lavoro. È soltanto un attimo, ma è sicura di aver rovinato il prezioso materiale di Ray. Invece ha appena scoperto un nuovo procedimento di sviluppo che dona alle immagini una suggestione pittorica. Grazie all’esposizione accidentale, il nero di fondo sfuma nel grigio lasciando un profilo piú marcato intorno ai soggetti, i quali acquistano un effetto tridimensionale che richiama gli antichi bassorilievi. Quel risultato stupefacente entusiasma la coppia, che si lancia nella sperimentazione e realizza una serie di fotografie che passeranno alla storia.“
Dopo tre anni di convivenza, Lee si sentì imprigionata nel ruolo di assistente e musa di Ray e forse anche il ruolo di amante le stava un po’ stretto, i due si separarono e Lee tornò a New York.
Negli USA continuò la sua collaborazione con Vogue, ma stavolta dall’altro lato della fotocamera, cominciò infatti a lavorare come fotografa di moda e ritrattista su commissione.
Ma Lee era una donna inquieta, il suo inferno dentro ben presto tornò a bruciare. Lee perse ben presto interesse per i lavori piú commerciali. Era soprattutto la routine ad annoiarla. Stanca di limitarsi a semplici ritratti, chiese di essere mandata al fronte: fu una delle prime fotoreporter donna della storia. Aggregata all’esercito americano in Europa, con una divisa su misura, che indosserà ininterrottamente per un anno e un elmetto disegnato appositamente per utilizzare una fotocamera (come si vede dall’immagine qua sotto), sperimenterà in prima persona gli orrori della guerra insieme all’amico David Scherman.

In una notte d’agosto del 1944, Lee attraversò la Manica a bordo di un tank della marina militare carico di carri armati; arrivò a Omaha Beach con l’alta marea e un marinaio si offrì di portarla a riva in braccio per evitarle
il bagno gelato nell’oceano. D’improvviso venne catapultata nel pieno dei combattimenti, e invece di cercare un rifugio sicuro abbraccia la Rolleiflex e cominciò a scattare fra lo stupore dei militari, che non avevano mai visto una fotografa in azione sul fronte. Lee immortalò in decine di scatti le esplosioni nel cielo, fiamme alte come grattacieli. Ma le immagini, una volta arrivate in patria, vennero subito sequestrate dalla censura britannica r rimasero top secret per anni, perché documentavano l’utilizzo di un’arma segreta che divenne tristemente famosa nelle guerre a venire.
Mentre era a Norimberga, dopo lo sbarco, il generale Patton la informò che sarebbero entrati a Dachau. Con una divisa su misura e non protocollare, che indosserà ininterrottamente per un anno, sarà la sola delle sei donne fotoreporter di guerra a raggiungere il fronte, seguendo l’avanzata alleata da Omaha Beach sino ai campi di sterminio. Lee fu dunque tra le prime persone a entrarvi. C’erano ancora tutti i prigionieri, le cataste di morti, i forni fumanti. Lee restò incredula. Era sconvolta. Scrisse un cablogramma alla sua redazione con queste parole: “Vi prego di credere che tutto questo è vero.” E inviò le foto.
Lee, al contrario di altri reporter, scelse di riprendere la realtà disumana dei lager «con un occhio surrealista», e grazie alla tecnica della frammentazione sperimentata negli anni parigini ritaglia inquadrature insolite che prediligono i particolari piuttosto che la visione d’insieme.
Da Dachau e Buchenwald non ne uscì più mentalmente. Dopo aver fotografato i cumuli di morti e ossa, i sopravvissuti ridotti a scheletri, i cadaveri dei kapò massacrati per vendetta, come avrebbe potuto non tenerne conto per sempre? Il suo archivio online è imperdibile: https://www.leemiller.co.uk/
Ma quei volti consunti, il pallore della neve che riempì l’Europa in quei mesi, quelle vite interrotte, quei cadaveri bianchi che fotografò, non le diedero più tregua: negli anni successivi, la depressione e l’alcol furono le costanti della sua vita. Visse gli ultimi anni in ritiro, continuando a ricevere visite dei suoi amici artisti e a pubblicare occasionalmente fotografie per Vogue. Si dedicò alla cucina, cercando di sfuggire alla depressione e dandosi un nuovo volto di madre e casalinga perfetta. Morì di cancro a settant’anni, nel silenzio di una città di provincia.
Spero di avervi fatto appassionare un po’ a questa grande donna, prima ancora che grande fotografa.
Se volete approfondire la conoscenza della Miller, vi consiglio il libro scritto dal figlio, Antony Penrose, Le vite di Lee Miller.
Anna
sono commosso, grazie