Buongiorno a tutti, oggi voglio farvi conoscere questa autrice che ha ricevuto una menzione d’onore al Premio Nazionale Musa per fotografe.
Il lavoro, che abbiamo trovato molto interessante, si intitola Prosféro.
Spero vi piaccia! Buona visione
Sara
Prosféro
Ai piedi delle montagne, in Basilicata, si arrocca Latronico, il piccolo paese delle
mie origini. Ho percorso le strade stret- te e quelle di campagna, attraversato i
boschi e le case che sembrano sospese
nel tempo alla ricerca di racconti e ma- nufatti. Soltanto in quel paesino lucano,
infatti, oggi ancora sopravvive un antico merletto, il Puntino ad ago. Giunta lì da
un tempo e un luogo lontani, questa tec- nica si è modificata nelle forme e negli
usi, cosicché il tessere le reti come face- vano i pescatori greci in epoche remote
è mutato nel fare minuzioso del merletto.
Prosféro, dal greco antico «tramanda- re», è l’atto di intendere e riadattare un
sapere ogni volta al tempo presente. I ritratti della serie sono i volti lucani
di ragazze che indossano gli abiti del- le merlettaie loro antenate e gli scena- ri con cui si alternano la visione oni- rica di una montagna che ha saputo
Lucana, cresciuta in Emilia, Elena Zottola è una giovane fotografa nata nel 1995. Dopo gli studi artistici all’Istituto d’Arte Paolo Toschi di Parma, si trasferisce a Napoli dove consegue una laurea in Antropologia del Patrimonio e si avvicina alla fotografia attraverso la multidisciplinarietà della Scuola Elementare del Teatro. Nel 2018 l’esperienza di studio all’estero, presso l’Estonian Academy of Arts di Tallinn, dipartimento di Fotografia e Arte Contemporanea, durante la quale lavora al progetto curatoriale Rivista e realizza l’opera-performance The Creation of the World is an ordinary day, progetto selezionato per l’ottava edizione di Giovane Fotografia Italiana. Nel 2019 torna a Napoli e frequenta il CFI, Centro di Fotografia Indipendente, producendo la sua seconda serie fotografica dal titolo Prosféro, parte dell’archivio di Futuro Arcaico e vincitore della menzione d’onore 2022 di Musa Fotografia, e che indaga il valore delle radici e dell’atto del tramandare. Nel 2022 è anche tra gli artisti invitati per A Cielo Aperto in una stanza, un progetto di arte pubblica per ripensare le pratiche artistiche nel territorio. Attualmente continua gli studi universitari in ambito antropologico con l’intento di arricchire di contenuti la sua pratica fotografica.
Elian Somers (Sprang-Capelle, NL, 1975), è una fotografa olandese che lavora a Rotterdam. Il suo background spazia dalle arti visive all’architettura avendo completato gli studi architettonici presso la Delf University ed il Master di Fotografia a St. Joost Academy di Breda nel 2007.[1] Nelle sue immagini Elian Somers indaga paesaggi utopici ed urbani ed analizza come questi siano influenzati da fondamenti ideologici e storici. I suoi ultimi lavori hanno come comune denominatore l’essere rappresentazione fotografica di realtà e verità appositamente costruite in cui storie nascoste ed esperimenti utopici vengono sapientemente intrecciati. In questi paesaggi si mescolano molteplici realtà, storie e verità.[2]
Il suo progetto a lungo termine più celebre è Border Theories realizzato tra il 2009 e il 2013. Qui, la fotografa, si interroga sull’utopia socialista e sulla scrittura e riscrittura della storia basata sui significati che vennero associati all’architettura all’interno del paesaggio urbano. Border Theories indaga sulla costruzione identitaria e sulla storia di tre esperimenti urbani nei confini remoti dell’ex Unione Sovietica: Birobidzhan, Kaliningrad e Yuzhno-Sakhalinsk. Questi esperimenti urbani hanno avuto origine da conflitti e guerre di confine, da luoghi chiusi e da forzati a spopolamento e successivo ripopolamento. Le storie di questi tre diversi luoghi sono aperte a molteplici interpretazioni: in particolare modo la storia ebraica, prussiana e giapponese nonché la narrativa storica sovietica. Quello che Elian Somers cerca di fare in questo lavoro è quello di capire come la pianificazione urbana e l’architettura possano essere impiegate come mezzi politici utili a scrivere e manipolare la storia del paesaggio. Nell’osservazione di questi paesaggi e nell’indagine storica le domande continuano a susseguirsi. Quale è la verità? Cosa è successo e cosa sta accadendo in queste zone? Quale è la realtà dei fatti? Il progetto di Elian Somers è composto da fotografie, materiale d’archivio e frammenti di articoli di giornale. I testi inseriti supportano la storia portando alla luce la varie diverse interpretazioni e le molte verità nascoste tra Birobidzhan, Kaliningrad e Yuzhno-Sakhalinsk.[3]
Border theories Kaliningrad – Elian Somers
Oltre a Border Theories Elian Somers ha realizzato diversi progetti che indagano la natura di paesaggi prettamente urbani: A Stone from the Moon (2015-ongoing), One and Another State of Yellow (2013-2017), California City (2010-2012) e Droom als er ooit een was / A Dream if Ever There Was One (2006-2008).[4]
Around 1200 km west of Moscow the city of Kaliningrad was founded on the ruins of the Prussian City of Köningsberg. Kaliningrad became the capital of the Kaliningrad Region along the Soviet-Polish border. In 1943, the Soviet regime defined East Prussia as being ‘original Slavic soil’ which had been the victim of German occupation for 700 years. In 1945, the Soviet Union liberated the Prussian city of Köningsberg. The architect Dmitrii Navalikhin envisioned the new city of Kaliningrad, as the embodiment of pre-war Russian history. The city was to become a reconstruction of Moscow, based on Moscow’s ring roads, skyscrapers and mediaval monuments. As the ‘native city’ for the new Soviet settler Kaliningrad was to be deeply rooted in Russian history.[5]
La collezione Sergei Mikhailovich Prokudin-Gorskii contiene fotografie a colori dell’impero russo realizzate tra ca. 1905 e 1915. Il fotografo Prokudin-Gorskii (1863-1944) con il sostegno dello zar Nicola II ha scattato queste immagini in tutta la regione. Utilizzava una fotocamera alla quale aggiungeva filtri rosso, verde e blu, che ricombinati in un secondo momento e proiettati con lanterne mostravano immagini a colori quasi reali. Sembra impossibile che queste fotografie abbiano 100 anni. Dal 1905, Prokudin-Gorsky utilizzò tutti i progressi tecnologici a disposizione.
I permessi forniti dallo zar Nicola II gli garantivano l’accesso alle aree riservate e la cooperazione con la burocrazia dell’impero.
Le sue fotografie offrono un ritratto vivido di un mondo perduto: l’impero russo alla vigilia della prima guerra mondiale e della prossima rivoluzione russa.
Immagine di Prokudin-Gorsky (Photo credit: Library of Congress).
Prokudin-Gorsky, prima di lasciare la Russia, collezionò circa 3500 negativi. Quandò lasciò il paese portò con sé tutto il suo materiale fotografico, ma circametà delle foto vennero confiscate dalle autorità russe.
Le scatole con album di foto e fragili lastre di vetro furono conservate nel seminterrato di un condominio parigino. La Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti acquistò il materiale dagli eredi di Prokudin-Gorsky nel 1948 per $ 3500- $ 5000 su iniziativa di un ricercatore che indagava sulla loro ubicazione. La libreria contava 1.902 negativi e 710 stampe senza i corrispondenti negativi nella collezione.
Quello che mi colpisce è la modernità del suo lavoro, sebbene sia stato ripreso più di cento anni fa!
Ci fu un tempo in cui la sperimentazione nelle arti visive visse momenti di comunanza, forse irripetibili, in cui poteva tranquillamente accadere che pittori e fotografi si mescolassero abitualmente gli uni con gli altri per trovare nuove forme espressive. Ad esempio potrebbe oggi apparire strano, ai nostri occhi, che la prima mostra di pittura impressionista sia stata allestita nel 1874 nell’atelier del noto fotografo Felix Nadar. Non fu in realtà per nulla casuale perché in quel periodo il mondo della pittura, poi definita impressionista, e quello della fotografia, poi definita pittorialista, dialogavano costantemente e a volte coabitavano anche nello stesso artista e questo perché perseguivano il medesimo interesse primario, ovvero il trattamento della luce nella creazione di immagini. Se è vero che Degàs e altri “utilizzavano” le fotografie principalmente a supporto tecnico della loro arte pittorica (uno dei suoi più celebri dipinti, nati grazie all’uso della macchina fotografica, è “Ballerine dietro le quinte” la cui base era costituita da tre lastre fotografiche poi combinate), è anche vero che molti fotografi (Arning, Misonne, Proessdorf, Perscheid, Job, Hudson White, Kaesebier) si ispiravano fortemente alla pittura impressionista per definire le inquadrature e le modalità di composizione delle immagini.
Hilaire Germain Edgar Degas – Ballerine dietro le quinte (dipinto)Robert Demachy Behind the scene (foto)
Tra di loro operò anche Alfred Stieglitz, prima della svolta che lo portò alla straight photography.
Pittori impressionisti d’altra parte produssero dipinti in cui adottarono scelte tipicamente fotografiche come ad esempio la ripresa del soggetto decentrato e non in posa, lo sguardo rivolto altrove rispetto all’osservatore, il taglio di un soggetto in primo piano.
In questo clima di fermento della ricerca, persino quello che allora era un limite insormontabile della fotografia, e cioè doversi limitare a realizzare stampe in bianco e nero, venne in certo modo superato quando il 10 giugno 1907 i fratelli Lumière introdussero le lastre Autochrome. Si trattava del primo procedimento di stampa a colori commercializzato e si basava sul principio della sintesi additiva su lastra di vetro e non su carta. La lastra veniva ricoperta con milioni di granelli di fecola di patate tinti di verde, blu-violetto oppure rosso-arancione, che fungevano da minuscoli filtri cromatici e si poteva applicare a qualsiasi fotocamera standard. Le lastre Autochrome offrivano ai fotografi, amatoriali o professionisti, una vasta gamma cromatica luminosa con potenzialità espressive ampiamente sfruttate dai pittorialisti. Il limite di questa metodica stava ovviamente nel fatto di non poter essere utilizzata su carta e soprattutto di non essere riproducibile: ogni scatto restava unico. Pertanto nella seconda metà degli anni ‘30 venne abbandonata, ma rappresenta comunque un esempio di vitalità nello sviluppo di nuove tecniche finalizzate alla produzione artistica, tipico di quei primi anni del Novecento.
Anche ai nostri tempi non mancano figure di artisti che esplorano le arti visive con instancabile entusiasmo, traendo ispirazione ora dall’una e ora dall’altra; tuttavia vi è forse una minore tendenza a lavorare “gomito a gomito”, a condividere le esperienze nella consapevolezza delle potenzialità che un approccio globale alle arti visive è in grado di offrire agli Autori.
Articolo di Lorenzo Vitali
Le immagini all’interno dell’articolo hanno solamente uno scopo didattico e divulgativo, non vengono utilizzate per scopi commerciali.
Condividi l'articolo con gli amici, ci piace condividere!
Buongiorno a tutti, vi consiglio di dare un’occhiata a queste immagini e di leggere la storia della persona che le ha scattate.
Albert Eckstein
La Cambridge Digital Library ha recentemente caricato una maestosa raccolta di immagini del fotografo Albert Eckstein, degli anni ’30. Eckstein, medico ebreo tedesco, fu esiliato da Hitler e dal partito nazista nel 1935 e scelse di trascorrere il suo esilio in Turchia, contribuendo a combattere il flagello della mortalità infantile nelle comunità più povere del paese.
Albert Eckstein
Le foto sono state donate all’università dalla famiglia Eckstein, che si trasferì a Cambridge dopo la morte di Albert nel 1950. Gli album sono stati consegnati allo Skilliter Center for Ottoman Studies — che “sostiene la ricerca nella storia, nella letteratura e nella cultura dell’Impero ottomano e della prima Repubblica turca ”.
Albert Eckstein
Nell’ultimo anno sono stati scrupolosamente digitalizzati 15 album che sono organizzati in ordine cronologico, a partire dai suoi anni in Turchia e fino alle foto dei suoi viaggi in Israele, Italia, Grecia ed Egitto.
Ora si può accedere per sfogliare l’intera collezione online, io le ho trovate meravigliose.
Da quando Baudelaire nel 1859, agli albori della fotografia, espresse una critica ferocissima e velenosa contro la fotografia: “Bisogna dunque che essa torni al suo vero compito, quello di essere la serva delle scienze e delle arti, ma la serva umilissima, come la stampa e la stenografìa, che non hanno né creato né sostituito la letteratura”, sono passati più di 150 anni.
Ormai, a mio avviso, non ha più senso porre in contrapposizione queste due forme di arte, ma può essere invece più interessante soffermarsi su quanto profondamente esse possano integrarsi.
E non dobbiamo pensare che ciò sia avvenuto solo in un certo periodo storico o con limitate modalità. Se in un primo tempo il “pittorialismo” fu, almeno in certi casi, espressione di una sorta di sudditanza della fotografia nei confronti della pittura, non dobbiamo ignorare per converso l’importante corrente “iperrealista” in pittura, che giunse sino a produrre dipinti monocromatici non facilmente distinguibili da fotografie in bianco e nero (pensiamo allo spagnolo Bernardo Torrens ad esempio).
Nei prossimi appuntamenti vorrei di volta in volta proporre, attraverso l’osservazione di fotografie realizzate da Artisti visivi differenti fra loro per caratteristiche, l’incredibile varietà di commistioni che fin dal XIX secolo si sono verificate fra fotografia e pittura e che hanno sinergicamente contribuito alla realizzazione di varie opere di arte visiva.
Questo mese possiamo provare a confrontare le immagini di due Autori che appartengono ad epoche estremamente diverse, che hanno quindi operato con mezzi ovviamente molto differenti, e che hanno in comune solo il Paese in cui le immagini sono state scattate.
Takamastu Mika san copyright Chloé JaféFacchino, collezione Giglioli Muciv, Roma Felice Beato (1832/4-1909)
Felice Beato, italiano ed europeo (nato a Corfù, poi naturalizzato britannico), uno dei primissimi Autori di reportage di guerra molto crudi in cui erano anche presenti cadaveri, ma qui dedito a tutt’altro e cioè alla rappresentazione ad uso degli Occidentali del mondo nipponico in un periodo peculiare (quello in cui il Giappone usciva dall’isolamento legato alla dominazione degli Shogun). Beato rimase in Giappone a lungo: fra il 1863 e il 1877. Ne diede, verosimilmente anche con finalità commerciali, una visione volutamente vicina all’immaginario europeo dell’epoca più che alla realtà giapponese: in aggiunta agli aspetti estetici, i lunghi tempi di esposizione allora necessari furono verosimilmente di stimolo per inquadrare e posizionare accuratamente i soggetti delle sue fotografie. Eseguiva stampe all’albumina da lastre in vetro al collodio umido e fu un pioniere delle tecniche di colorazione a mano delle fotografie, che eseguiva sistematicamente. Le sue opere, di ottima fattura, sono raccolte in vari Musei italiani.
Chloé Jafé, francese ed europea, artista contemporanea, si è a sua volta stabilita in Giappone per un consistente periodo (dal 2013 al 2019) allo scopo di indagare un aspetto poco noto e difficilmente accessibile ai più (la Yakuza al femminile), un qualcosa di cui gli occidentali non sanno nulla, realizzando una fotografia documentaria (reportage), accompagnata da una personalissima estetica intimistica. A differenza di Beato in certi casi ha avuto necessità di scattare velocemente per non perdere momenti decisivi (ha ricorso a volte anche ad una pocket camera, come afferma in una recente intervista su Artribune a cura di Manuela De Leonardis), ma ha pur realizzato fotografie in bianco e nero (dal ritratto al reportage), usando diversi tipi di fotocamera e di obiettivi ed eseguendo sulle stampe in BN interventi successivi, utilizzando la pittura e i glitter. Attratta da soggetti delicati e difficili, spesso apparentemente marginali, Chloé Jafé oltrepassa decisamente i limiti della fotografia in senso stretto lavorando direttamente su stampe, in acrilico e pennello. Ciascuna delle sue serie ha dato origine a un libro in edizione limitata, rilegato e realizzato a mano dall’artista.
E’ verosimile che ambedue questi artisti conoscessero l’antica tecnica ukiyo-e (una serie di blocchi di legno veniva inchiostrata in diversi colori, che successivamente venivano impressi su carta a più riprese) di cui sembra cogliersi a tratti qualche richiamo formale, ma è evidente quanto lo stimolo che li ha portati a realizzare le loro opere fosse profondamente diverso sia dall’antica originaria finalità dell’ukiyo-e (fornire stampe a buon mercato a chi non poteva permettersi dipinti) sia dal loro personale obiettivo. Se nel caso di Beato lo scopo era quello di fornire un’immagine stereotipata di un Paese nel XIX secolo sconosciuto ai più, nel caso di Chloè Jafè è evidente che l’impegno principale è quello di far emergere un aspetto nascosto (le donne della Yakuza in teoria non esistono se non come “addette” agli uomini dell’organizzazione) di una società, come quella giapponese, che oggi nel XXI secolo globalizzato, abbiamo l’illusione di conoscere sufficientemente, ma che in realtà ancora riserva situazioni oscure.
Epoche ed intenti quindi totalmente diversi, tecniche assolutamente differenti, ma alla fine non ci si può non rendere conto che in entrambi i casi fotografia e pittura hanno contribuito a rappresentare, integrandosi, il pensiero dell’artista.
Le Interviste Immaginarie raccolgono conversazioni di fantasia con dodici artiste del passato che Laura Malaterra ha immaginato di intervistare sulla base di fatti realmente avvenuti. Domande rivolte con leggerezza per scoprire vita, passioni, progetti, segreti e umanità di queste donne, ricostruiti sulla base del nostro sogno e sulla realtà della storia, per capire veramente come e perché siano state così importanti per la nostra cultura. Geniali, coraggiose e, soprattutto, sempre un po’ controcorrente che guardavano al futuro con uno sguardo curioso e innovativo. Un viaggio nel tempo tra libri e web per rintracciare frammenti di storie vissute, ideando parole, dialoghi ed anche emozioni, perché tutte sono diventate una sorta di amiche confidenti. Durante le interviste sembra proprio di sentirne le voci raccontare episodi, curiosità ed eventi delle loro vite. Sono state fantasiosamente intervistate le fotografe Ruth Bernhard, Inge Morath, Margaret Bourke-White, Bettye Lane, Dora Maar e Lucia Moholy, la graphic designer Jacqueline Casey, la designer Annelise Fleischmann Albers, l’architetto e designer Eileen Gray, la geniale collezionista d’arte Peggy Guggenheim, gli architetti e designer Charles e Ray Eames, la pittrice Suzanne Valadon.