Intervista a Luca Campigotto, eccezionale, visionaria, esplorazione del mondo.

Perito Moreno glacier, 2000

Cosa lega il film Blade Runner di Ridley Scott, una tesi in storia sull’epoca delle grandi scoperte geografiche e le fotografie dei primi dell’800? La risposta è nell’immaginario di Luca Campigotto. Fotografo veneziano, classe 1962, da venticinque anni ha portato in giro per il mondo, da Parigi a Miami, da New York a Montreal, il suo concetto di ‘viaggio fotografico’. La sua sfida è quella di rendere ancora interessanti i luoghi che sono stati fotografati da chiunque, abusati dal facile clic del turista di massa. Nei suoi scatti, quegli stessi spazi, vivono una seconda possibilità, quella di essere riscoperti, come se fossero visti per la prima volta, con lo stesso stupore che provavano i primi esploratori. Dal gusto cinematografico del suo filone sulle metropoli fino alle esperienze nei paesaggi più selvaggi, Campigotto è rimasto fedele al proprio concetto di viaggio, nel senso più ampio del termine, da quello mentale a quello del ricordo dei posti vissuti, in un percorso di rimandi che rispecchia le sue fotografie, sempre sospese in un mondo senza tempo.

A 5579

Luca Campigotto

Gli studi storici quanto hanno influenzato il tuo approccio alla fotografia?

Ho studiato alcuni racconti di mercanti tra ‘400 e ‘500, e la cosa che mi ha affascinato di più in quelle carte è stata l’idea del grande viaggio. Anche per questo ho sempre associato il viaggio alla fotografia. Gli studi di storia hanno influito come tante altre cose, inclusi i fumetti di Corto Maltese. M’interessa da sempre l’esotico, andare a scoprire qualcosa di lontano da quello che sono abituato a vedere, che sia un paesaggio o un’architettura. La fotografia mi è sempre servita per entrare in contatto con una dimensione avventurosa.

Quali sono le caratteristiche che ricerchi in un paesaggio per dare il via a una serie di foto? Cosa accende la miccia del tuo processo creativo?

La mia ricerca si è sempre divisa in due filoni: uno di visioni legate al paesaggio, con tutte le implicazioni letterarie del caso, e uno di visioni metropolitane notturne che ha invece più a che fare con il cinema. Anche se può sembrare banale, credo di essere stato uno tra i primi a vedere Blade Runner nell’82 quando l’hanno proiettato di notte a Venezia. Quando ho guardato quel film non facevo ancora il fotografo ma ho sentito che la mia idea del vedere era cambiata. Sono vicino a quella visione del cinema americano, anche quello di serie B. Da lì ho preso molta ispirazione sull’uso delle luci di notte, sui controluce, in esterni e interni. Prima di partire per un posto, devo avere un contatto diretto con questo mio immaginario, tanto da spingermi a raggiungere un luogo e, come farebbe qualunque turista, impossessarmene senza farmi mai sfuggire la sua peculiarità. Se vado a New York fotografo i grattacieli e se vado a Venezia fotografo anche le gondole. È molto pericoloso perché il rischio della cartolina è dietro l’angolo, però esiste anche una cartolina evocativa, come nell’800. Devo essere emozionato quando parto e deve esserci uno stimolo che mi faccia venir voglia di fotografare. Ad esempio, amo Parigi, ci vado spesso, ma non mi è mai venuta voglia di fotografarla perché il mio immaginario non ha punti in comune con quella città.

Le tue fotografia sono un ‘qui’ ma anche un ‘altrove’, sono un luogo geografico ma anche immaginario.

Mi ritengo un suggeritore, ti indico qualcosa che vale la pena guardare, anche se qualche volta mi è capitato di fotografare paesaggi dove non c’era assolutamente nulla, però per me era un nulla molto poetico, carico di significato. Non lavoro quasi mai sulle foto subito, scatto e poi le riprendo in mano dopo molto tempo, per far sedimentare l’esperienza del viaggio e rivivere le sensazioni di quello che ho visto.

Roma 2014

Guardare le foto è quindi un modo per ricordare?

È anche un po’ una condanna, come essere un ancorati sempre a un passato. A volte è anche difficile riguardare delle foto che hai magari in archivio. Tornando a Blade Runner, l’aspetto geniale del film è che per renderli più umani i replicanti sono stati dotati di ricordi falsi: siamo quello che ricordiamo. Anche se fotografo paesaggi e architetture, ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare il fotografo guardando le fotografie della mia famiglia. L’aspetto della memoria e dei ricordi è per me fondamentale anche se non fotografo fatti o persone.

Venezia 2017

Questo aspetto s’intravede nel tuo lavoro su Roma, la città eterna, fotografata di notte. Una bellezza che è sempre sotto i nostri occhi ma di cui a volte ci dimentichiamo

Lì c’è anche l’aspetto del mito, di qualcosa che resiste nonostante tutto. Lo stesso che ho visto ai templi di Angkor in Cambogia, dove esiste un corpo a corpo tra architettura e natura, tra mano dell’uomo e natura. Mito che ho ritrovato anche sui luoghi della Grande Guerra dove le trincee e i resti di quello che hanno lasciato i soldati sono diventati parte integrante della roccia e del paesaggio

Lapponia 2003

Viviamo in un mondo dove tutto è stato visto e fotografato, anche i posti più lontani, come l’isola di Pasqua. Come riesci a mantenere intatto quello stupore per i luoghi che in realtà hai già visto?

Credo sia perché il mio spirito d’avventura non viene scalfito dal turismo massificato, dal fatto che tutti siano andati ovunque. La mia meraviglia resiste indipendentemente da quello che si è già anche troppo visto. In Arizona mi sono ritrovato in questi spazi enormi praticamente da solo: lì è ancora più facile perdersi nella propria immaginazione, rendendo le foto più evocative. Il mio immaginario deve essere in presa diretta con il posto che sto fotografando.

Picture 001

Luca Campigotto

Le metropoli però sono molto diverse da quei luoghi incontaminati, lì al contrario cosa ti affascina?

Cerco sempre di alternare i due filoni. Il mio lavoro è sempre lo stesso, molto lento: tenere la macchina in mano e non metterla sul cavalletto mi dà sempre l’idea di qualcosa che sto facendo solo per gioco, quindi uso lo stesso identico approccio e la stessa macchina sia che mi stia arrampicando su una montagna o che stia fotografando una città. C’è una cerimoniosità che per me è molto importante, una procedura che è diametralmente opposta a quella del reporter. Le prime foto che avevo scattato a Venezia di notte in negativo avevano anche pose di 15 o 20 minuti, al limite della noia. È un po’ come andare a pesca, ci vuole la stessa pazienza.

Hai scelto molto le ambientazioni notturne per le tue fotografia, perché?

Ho iniziato con Venetia Obscura a cercare una chiave di lettura diversa per un luogo stravisto ma che era quello con il quale avevo deciso di iniziare a fare il fotografo e nel quale all’epoca vivevo. Al buio, con le foto di grande formato in bianco e nero, la mia città mi ha regalato quella dimensione di avventura di cui la mia ricerca aveva bisogno. Come se fosse una sorta di macchina del tempo. I risultati che ottengo di notte sono più imprevedibili di quelli che potrei ottenere, almeno ai miei occhi, di giorno. La resa dei colori e del bianco e nero non è scontata ed è la stessa ricerca che faccio poi in post produzione e nelle stampe. Per questo lavoro ancora da solo, non ho un assistente o uno stampatore, proprio perché voglio essere responsabile fino alla fine di tutto il processo. Non essendo una foto di testimonianza e di reportage potrebbe andare bene anche se stampata con un tono diverso ma poi non sarebbe la foto che avevo in mente quando l’ho scattata e quindi perderebbe molto del suo significato. Finché lo faccio io è come se continuassi a fotografare, a rivivere l’esperienza.

Picture 067

Luca Campigotto

Quale sfida ritieni sia stata più impegnativa nel tuo percorso?

All’insegna del ‘si vive una volta sola’, la mia sfida è stata quella di provare sempre cose nuove. Cambio abbastanza spesso, passo da foto desaturate, come quelle sulla Grande Guerra, ad altre cariche di colori. Si dice spesso che nell’arte l’importante sia essere riconoscibile, cioè proseguire per certi versi facendo sempre più o meno tutto allo stesso modo. A me invece interessa approcciarmi a progetti anche molto diversi ma che siano sempre fedeli al mio modo di vedere il mondo.

Sass de Stria, 2013

C’è un consiglio che daresti a chi si approccia a questo mestiere?

Non gli consiglierei di fare il fotografo (ride, ndr). Scherzi a parte, gli consiglierei di seguire quella che a Venezia chiamiamo la “magagna”, cioè la sua fissa, di non far finta di essere qualcun altro o qualcos’altro. Ispirarsi sì, ma sopire la molla che fa scattare il tuo entusiasmo e la tua curiosità non è la strada giusta. Io all’inizio ci sono cascato: credevo che la mia fotografia fosse sciocca e dovesse diventare più intellettuale, minimalista o concettuale. Dopo un po’ mi sono invece abbandonato ai miei veri fantasmi e alle mie vere manie e lì ho trovato la mia misura. Consiglio anche di non scoraggiarsi mai: quando gli altri guardano le tue fotografie c’è sempre chi ha qualcosa da criticare, è normale sia così. Quando facevo fotografie in bianco e nero mi dicevano “eh però se facessi foto a colori”, quando ho cominciato a scattare a colori dicevano “eh però le tue foto in bianco e nero”: bisogna insistere, ricordandosi di essere molto sinceri con se stessi.

Hong Kong 2016

Intervista di Simona Buscaglia per Musa

Tutte le immagini presenti nell’articolo sono di Luca Campigotto, vietata la riproduzione.

Intervista a Davide Monteleone.

DUSHADavide Monteleone da Dusha

Viene considerato uno dei fotografi contemporanei che ha indagato con un occhio più attento di altri i paesi post sovietici, attraverso progetti a lungo termine che gli hanno permesso di entrare in contatto con la relazione onnipresente tra individui e potere. Davide Monteleone, classe 1974, per i suoi lavori ha vinto diversi World Press Photo, l’Aftermath Grant, l’European Publishers Award e il Carmignac Photojournalism Award. Lo abbiamo incontrato alla presentazione della mostra “Vento dell’Est”, curata da Francesca Alfano Miglietti, nelle meravigliose stanze milanesi di NonostanteMarras. L’allestimento ha riassunto lo sguardo di Monteleone, attento agli spazi, ma soprattutto alle relazioni tra questi e i soggetti che ritrae. Con questi infatti, nella maggior parte dei casi, ha instaurato un rapporto che gli ha permesso di superare quella coltre di superficialità che spesso riassume il ‘diverso da noi’ semplicemente come esotico. Nelle sue fotografie chi guarda si sente sempre parte di una storia, di un luogo, di un vivere, mai un semplice estraneo.

SpasiboDavide Monteleone da Spasibo

Davide Monteleone doveva essere un ingegnere, almeno quello era il percorso che aveva iniziato. Come spesso accade, quello che prima era solo un interesse, quello per il fotogiornalismo, si è trasformato in studio e poi in un lavoro. Dopo alcune pubblicazioni per quotidiani e magazine è diventato corrispondente in Russia per l’agenzia Contrasto. Da lì è cominciato un cammino che gli permetterà di pubblicare Dusha, Russian Soul (2007), La Linea Inesistente (2009), un viaggio lungo la ex cortina di ferro, il Cardo Rosso (2012), sulle regioni del Caucaso del Nord, Spasibo (2013), sulla Cecenia, e Le Tesi di Aprile (2017), un viaggio immaginario e documentaristico allo stesso tempo, sul cammino di Lenin prima del suo destino di leader della rivoluzione. Sembra quindi che la via dell’Est, per riprendere il titolo dell’esibizione milanese, sia un tutt’uno con il percorso professionale del fotografo, ma cosa lo affascina in particolare di questi luoghi? “Mi affascina tutto – ammette – Dopo tutti questi anni è evidente che il mio interesse stia lì. La Russia ad esempio è un paese molto grande, dove ci sono tante storie molto diverse tra loro da raccontare. È sempre stato considerato un paese che si conosceva poco, anche un po’ nemico in qualche modo, che ormai è diventato un pezzo della mia vita da cui è difficile allontanarsi, almeno per ora”.

Nella sua carriera, Monteleone ha spaziato tra diversi stili, passando dal colore, acceso e parte del messaggio fotografico, al bianco e nero, ma anche dalla pellicola al digitale, mantenendo però uno stile riconoscibile. La sperimentazione è un lusso per pochi o è il dovere di un fotografo contemporaneo? “Non penso che sia un dovere di chi fotografa – risponde – penso che sia naturale perché nella vita si cambia e così cambiano le tue produzioni. Il risultato finale si vedrà quando avrò 70 anni, solo allora forse si capirà cosa significa tutto questo processo, come in tutte le retrospettive nel mondo dell’arte. Allo stesso modo si scoprì che ad esempio Magritte non faceva solo uomini con la bombetta prima di diventare Magritte. Penso che sia il percorso naturale di evoluzione di un discorso artistico anche perché mi annoia ripetere me stesso”

The April ThesesDavide Monteleone da The April Theses

La pellicola è stata per diverso tempo una delle caratteristiche dei lavori del fotografo e il passaggio al digitale non è stato immediato. Il mezzo, oggi, è ancora importante e se sì in cosa? Quali sono state le resistenze verso il digitale? “Queste mie reticenze le avevo all’inizio quando la qualità del digitale era molto bassa rispetto alla pellicola. Ormai molto del mio lavoro è fatto in digitale di grandi dimensioni, ho una macchina che amo molto, anche fisicamente, con la quale ho un rapporto un po’ feticista, ma rimane una relazione di strumento dove la qualità è assolutamente appagante. Il mezzo rimane importante per ottenere il risultato che stai cercando”

In the Russian EastDavide Monteleone da In The Russian East

Un consiglio per chi si approccia a questo lavoro?

“Di farlo da amatori. Molto spesso i prodotti migliori vengono quando non si è alla ricerca di un risultato economico e concreto. La libertà di pensare in maniera amatoriale è efficace perché è qualcosa che ti appassiona davvero. Quando un lavoro diventa un lavoro diventa anche noioso”.

Intervista di Simona Buscaglia per Musa

 

Intervista a Francesco Malavolta, fotogiornalista da vent’anni.

Francesco Malavolta è in prima linea da 20 anni, sempre lì dove l’uomo si scontra con i confini geografici, barriere  che sono sconosciute alla disperazione. Non è un fotogiornalista che arriva per un servizio e abbandona la tragedia per passare a un altro tema. Si occupa di flussi migratori dal 1994, collabora con agenzie fotografiche nazionali, internazionali e organizzazioni umanitarie come l’UNHCR. Dal 2011 racconta le frontiere europee per l’Agenzia Frontex. Via mare o via terra, i suoi lavori partono dall’Albania negli anni Novanta, passando per i Balcani e la Libia, coprendo gran parte del Mediterraneo. Francesco Malavolta si sposta in questa porzione di mondo con una sensibilità che riesce a far comprendere a tutti più da vicino la complessità delle migrazioni, dove definizioni ed etichette sono labili come i confini che l’uomo ha costruito nel tempo, così lontani dalla mappa delle necessità di chi spera in un futuro migliore.

Tutte le fotografie presenti nell’articolo sono di proprietà dell’autore, Francesco Malavolta, vietato scaricarle o riprodurle.

Una delle priorità nel tuo lavoro sembra essere quella di dare un volto al fenomeno della migrazione. Qual è il tuo approccio, su quale aspetto ti concentri?

Bisogna restituire la dignità e l’umanità ai soggetti che si fotografano, per allontanarsi dal semplice conteggio di vittime e superstiti, distruggendo anche alcuni stereotipi. Esistono assolutamente i casi di persone che sono tristi per i familiari che hanno lasciato nei loro paesi d’origine, ma ho assistito anche a dei pianti di gioia, ho fotografato anche la felicità di essere arrivati in Europa, di aver raggiunto quello che per alcuni è stato un traguardo dopo un viaggio di mesi, se non addirittura anni. In questo senso, una foto emblematica è quella che ho realizzato sette anni fa, in uno sbarco a Lampedusa, dove un ragazzo su un barcone aveva un vestito da uomo, in giacca e cravatta. Partito dalla Libia con due lauree e quattro lingue voleva lanciare un messaggio forte e chiaro, ovvero che esiste molto di più dietro un abito e il colore della pelle. Siamo immersi in una realtà che ci ha riempito d’immagini sempre uguali mentre io cerco di rappresentare anche altro. Questa foto ad esempio non è stata pubblicata inizialmente in Italia ma solo anni dopo in uno speciale sulla dignità dell’immigrazione. Non sempre le immagini che vengono veicolate rappresentano tutta la realtà. Ci sono delle logiche editoriali: l’uomo che annega con la mano alzata fa sempre più notizia. Penso però che la gente sia stanca di questo tipo di foto. C’è bisogno di un approccio diverso.

malavolta

Lavori con delle Ong per documentare i flussi migratori ai confini, questo particolare ti ha aiutato ad entrare in contatto con le storie che racconti?

Lavorare per Ong mi ha dato accesso ad alcuni luoghi ma esiste tutt’ora, in alcuni posti in Europa, molta diffidenza verso i fotografi, spesso non vogliono che certe situazioni vengano allo scoperto, che siano documentate con delle immagini. C’è la tendenza a voler tenere sempre un profilo basso. Il fenomeno quindi è cambiato ma non possiamo pensare che si fermerà: il flusso migratorio delle persone è sempre esistito e ne abbiamo fatto parte anche noi italiani. Ho realizzato una mostra, esposta anche in Senato, dove, grazie all’archivio fotografico della Fondazione Cresci di Lucca, abbiamo mostrato i punti di contatto tra il vecchio fenomeno e il nuovo. Chi ha necessità di fuggire intraprende il viaggio, è sempre stato così e lo sarà sempre.

Com’è cambiato il fenomeno migratorio in questi anni?

È cambiato molto. Fino al 2011/2012 la Libia poteva essere anche la meta finale del viaggio di chi proveniva dall’Africa più profonda. Non si viveva benissimo, ma si lavorava e si mandavano i soldi a casa. Dopo Gheddafi,l’instabilità l’ha resa invivibile e la rotta del mediterraneo vede coinvolti ogni anno 150-200mila persone, trasformando il tutto in una vera emergenza operativa, perché non si riesce a risolvere il problema in maniera veloce con una giusta ridistribuzione delle persone all’interno dei paesi.

La fotografia è anche una questione d’includere ed escludere dall’inquadratura, quali sono i tuoi punti cardinali in queste situazioni estreme, ci sono situazioni e momenti che decidi di non fotografare?

Mi sono trovato davanti alla morte e quella in assoluto è qualcosa di davvero difficile da fotografare. Se decidi di farlo, devi sempre avere rispetto, e ti devi chiedere “Serve a cambiare qualcosa?”. In quel momento puoi decidere di abbassare o meno l’obiettivo perché devi comunque tenere presente il tuo compito, quello di documentare un fenomeno. Siamo invasi da immagini raccapriccianti tutti i giorni ma dobbiamo cercare di capire se queste foto saranno quelle che tra 100 anni avranno raccontato qualcosa. Quando si arriva in questi luoghi di transito dobbiamo dare indietro qualcosa, non possiamo solo prendere scatti di persone che si fidano di noi mostrandosi alla nostra macchina. Purtroppo molti fotografi, in zone anche molto delicate, sono andati solo in posti accessibili, prendendo soltanto senza dare indietro nulla. In un vero processo di comunicazione non si tratta solo della ricerca del bello a tutti i costi. Ho abbandonato da tempo l’idea della bella foto fine a se stessa, ho cercato invece di dare un senso di facile lettura, emozionando lo stesso lo spettatore.

La nuova società delle immagini, anche attraverso i social, ha permesso a tanti fotografi freelance di farsi conoscere. È stato così anche per te?

Una volta le tue foto venivano distribuite da un editore, che le corredava spesso a un pezzo giornalistico su un fatto d’attualità. Ora sei tu fotografo che puoi interagire in maniera diretta, rendendo anche il tuo profilo Facebook una specie di personale agenzia, dove le persone che sono interessate al tuo lavoro possono conoscere anche fatti che magari non vengono riportati dai canali tradizionali. Grazie alla mia pagina ho incontrato circa ventimila ragazzi perché sono riuscito a mettermi in contatto con delle scuole dove vado a parlare del mio lavoro e del fenomeno migratorio, dialogando con gli studenti senza filtri.

Francesco Malavolta (22)

C’è stato un momento in cui hai pensato “ora basta mi ritiro su un eremo”? E se sì, cos’è che ti ha trattenuto?

Tantissime volte, anzi ogni volta, torni a casa svuotato dalla tragedia. Vivi il dramma di tutte quelle persone che non sono riuscite ad arrivare sulle coste, morendo in mare. Poi quando leggi certe cattiverie e falsità che vengono dette, capisci che il tuo dovere è quello di documentare in un certo modo quello che c’è e quello che hai visto. Basta anche solo un grazie di quelle persone che hai conosciuto ai confini per tornare più carichi di prima sul campo.

Tutte le fotografie presenti nell’articolo sono di proprietà dell’autore, Francesco Malavolta, vietato scaricarle o riprodurle.

Intervista di Simona Buscaglia

 

Intervista a Francesco Faraci

Intervista di Simona Buscaglia

10

Tutte le immagini presenti nell’articolo sono di Francesco Faraci, vietata la riproduzione

Ragazzi di strada, prostitute, gente dei quartieri popolari palermitani e siciliani. Queste sono le coordinate del lavoro fotografico di Francesco Faraci, classe ‘83, che con il suo ultimo progetto ‘Malacarne’ ha raggiunto riconoscimenti importanti, dal PX3 – Prix de la photographie Paris al Mifa (Moscow International Foto Awards).

Sfogliando il libro Malacarne, se non si conoscesse il territorio di partenza, le immagini rappresentate potrebbero tranquillamente provenire dal Medio Oriente, o da scenari di guerra, tra paesaggi diroccati e abbandonati a se stessi. Era una precisa intenzione quella di registrare un disagio di questo tipo rendendolo simile a quello di tanti altri nel mondo?

“Il disagio è uno sfondo, è solo il contesto in cui questi ragazzi si muovono quotidianamente, non era il centro del lavoro. Al contrario, io volevo mostrare come uno spazio del genere venga in realtà vissuto da questi bambini in modo, se vogliamo, inusuale. Palermo è una città dove la vita di strada è ancora molto presente. Ho cercato di universalizzare il discorso: potrebbero essere foto di qualsiasi altra città del mondo, come Caracas, Città del Messico, Londra o Milano”

Nella descrizione del lavoro si legge: “alla fine sono solo bambini”. Ma non sono proprio bambini qualunque. Nei quartieri popolari che fanno da sfondo al progetto, spesso questi ragazzi sono infatti usati, grazie ai guadagni facili in una vita difficile, dalla criminalità organizzata. Da qui anche il riferimento al titolo, che in dialetto palermitano vuol dire ‘gente poco raccomandabile’:

“È partito come un progetto di denuncia, poi però, mano a mano che si sviluppavano i rapporti con questi ragazzi, è diventato più una forma d’amore tra me e loro. Molti di loro sono ancora troppo piccoli per essere definiti davvero ‘Malacarne’, ma il rischio che cadano nella trappola dello sfruttamento da parte della malavita c’è, è inutile nasconderlo. Io ovviamente mi auguro di no, però il rischio esiste”.

Com’è nato il progetto?

 “Con uno di questi ragazzi, per caso. Mi sono ritrovato in uno di quei quartieri e mi ha chiesto un passaggio per la stazione centrale. Durante il tragitto mi ha raccontato la sua vita e mi è venuta voglia di andare a vedere con i miei occhi”. Già, perché parliamo di quartieri dove devi andare apposta: “Poi ho dovuto far capire loro, ma anche ai parenti, e alla gente del quartiere, che ero venuto in pace, che non andavo lì per strumentalizzare. Andavo lì perché mi piaceva. Ho trovato solidarietà, persone che sono entrate in confidenza con me, facendomi spazio in quello che potrei definire un mondo nel mondo, con un suo linguaggio e i suoi modi di dire. È stato tutto un divenire, niente era prestabilito, nemmeno che io diventassi un fotografo: da un quartiere a un altro, in tre anni io sono cresciuto con loro e grazie a loro”.

Chi fa street o reportage di questo tipo, a stretto contatto con le persone e, in questo caso, anche con minori, deve fare i conti con privacy e liberatorie. Qual è stato il tuo approccio?

“Di assoluta trasparenza, anche perché io ero l’agente disturbante, esterno alla loro microsocietà. Ho cercato di pormi da palermitano a palermitano, senza atteggiamenti giudicanti, senza fare paternali a nessuno. Non sono entrato subito con la macchina fotografica, è venuta dopo, prima sono ritornato ad essere bambino con loro e in seguito la macchina fotografica è diventata invisibile”

Quale può essere una giornata tipo di questi ragazzi?

“Subito dopo la scuola stanno in strada a giocare. Io sapevo che se scendevo a tal orario, in quelle vie, li trovavo lì. Non avendo incombenze di alcun tipo, sono i più liberi di tutti: vivono per strada, perché nei quartieri popolari la vita è lì. Per il resto sono come tutti gli altri ragazzi della loro età: sognano di diventare calciatori e di fare soldi il più in fretta possibile. I quartieri sono rimasti com’erano però le aspettative sono quelle contemporanee, ricalcano la società di oggi, il telefonino d’ultima generazione e le ultime scarpe da ginnastica. L’unica differenza con gli altri ragazzi è il rischio maggiore di prendere brutte strade”

Il progetto potrebbe presto diventare una fotografia di com’era la città e di come forse fra poco non sarà più. A Palermo è in atto un restyling con interventi massicci anche nel centro storico.

“Molti palazzi sono stati acquistati da società che ne hanno fatto appartamenti, ed è tornata di moda l’idea di andare a vivere nel centro storico. Si sta popolando quindi di professionisti e architetti, e, se per qualcuno è un aspetto positivo, e in parte lo è, per il turismo magari, mi chiedo dove andranno ad abitare tutte quelle persone che nel centro storico sono state fino adesso. Verranno in qualche modo spostati, come è già successo in passato, in zone periferiche? Chi vive questi quartieri da “non residente”, non si pone spesso il problema di come e chi ci viveva prima, parlando del degrado e basta, senza chiedersi ‘perché sono venuto ad abitare qui?’ “

Ti occupi della vita di tutti i giorni della gente dei quartieri popolari, dai loro pomeriggi al mare (il quartiere Brancaccio di Padre Puglisi) alle feste tradizionali di ‘Cupe Vampe’, fino ai funerali. Perché sono il tuo soggetto preferito e perché hai scelto il bianco e nero?

“L’interesse per le zone più buie della mia terra penso che venga da tutto il mio immaginario di base, da quello che ho letto, che ho visto al cinema, che ho ascoltato, penso fra tutti a Fabrizio De Andrè. Tutto questo ha contribuito a formare la mia idea del mondo e i miei interessi. Qui, in questi quartieri, in queste storie, posso toccare la vita con mano, nella sua umanità e disumanità, qui non la sfiori, ci passi attraverso ed è il mio modo di andare dentro le cose. Prendo la macchina e cammino, non parto con l’idea di fare foto. È in sostanza il mio bisogno d’incontrare gli altri. Mi piace dare alle fotografie un aspetto atemporale, certe cose sono eterne, per questo scatto in bianco e nero già in macchina. Non è forse nemmeno una scelta stilistica o estetica, ho cominciato così istintivamente: io vedo così”.

Oltre a fotografo sei anche scrittore, quali sono le differenze che hai notato nel tuo approccio tra lo scrivere e fare foto?

“D’impatto ti direi il movimento: la scrittura la faccio sempre da seduto, è un viaggio diverso. Con la scrittura a volte dico quello che con la fotografia non riesco a esprimere e viceversa. Con la prima sai sempre dove vuoi andare, almeno parlo per me, mentre con la seconda, quando esce una buona foto è un po’ come fosse sempre un piccolo miracolo. La fotografia è più istintiva, durante non ci pensi, senti solo che quel momento deve essere immortalato”

Il contesto in cui ti muovi è e rimane la tua Sicilia. C’è una volontà precisa di raccontare la tua terra?

“C’è una voglia di ricercare dei perché: per quale motivo nasci su un’isola e non in una città? Sono probabilmente domande a cui non darò mai una risposta ma me le pongo ugualmente. Da quando ho capito che con la fotografia potevo raccontare qualcosa ho capito che ‘qua ero e qua volevo stare’. C’è già tanto materiale e voglio concentrami su quello che posso vedere aprendo le finestre di casa mia. Io mi prendo il mio spazio, il mio diritto di camminare lentamente, in contrapposizione alla velocità alla quale siamo sottoposti oggi”.
Anche nei tuoi progetti futuri rimani nella tua ‘amata/odiata’ isola

“Sì, sto facendo un viaggio nei paesi meno conosciuti della Sicilia e sto cercando di documentarli nella loro essenza, senza guardare il tipo d’umanità che troverò, vecchi o bambini; l’importante è la strada che percorro e quello che mi succede durante. Si chiamerà Atlante Umano”

Intervista a Francesco Comello. Vincitore del World Press Photo

Intervista a Francesco Comello di Simona Buscaglia.

oshevensk comello

Tutte le immagini presenti nell’articolo sono di Francesco Comello, vietata la riproduzione.

​In un mondo come quello di oggi, dove ci sono milioni d’immagini, il lavoro d’approfondimento, di ricerca, sembra essere una necessità della fotografia, un suo segno distintivo, per arrivare nel profondo, scavalcando tutta quella coltre di “già visto e già detto”. Pensi questo quando vedi le foto di Francesco Comello, classe 1963, fresco vincitore del terzo posto del World Press Photo nella categoria Vita Quotidiana e Storie, grazie alle sue immagini del progetto “l’Isola della Salvezza”, una piccola comunità fuori dal tempo, in Russia, fondata negli anni ’90 da un prete ortodosso che oggi si occupa di bambini con problemi familiari. In un mondo senza età, Comello racconta una storia che sembra uscita da un libro, con le stesse atmosfere liriche di una poesia.

L’Isola della Salvezza – © Francesco Comellocomello isola
“Una delle mie necessità è quella di raccontare una realtà diversa da quella odierna, in cui non mi trovo molto. In quella dimensione, in quel luogo, io ero sereno” usa queste parole il fotografo udinese in uno degli incontri della Photoweek alla Galleria Sozzani di Milano, nel presentare il suo lavoro: “Ho visto questi ragazzi senza quella contaminazione tipica dei nostri tempi”. Nel paese russo ritratto, che si trova vicino a una strada trafficata che da Mosca porta a Yaroslavl’, i ragazzi dell’Isola della salvezza non hanno tv, internet, cellulari o denaro, e vivono una dimensione diversa da quella che abbiamo oggi. Anche se si cerca sempre di sospendere il giudizio quando si fa una fotografia che voglia documentare la realtà, l’occhio di Comello e la sua visione di questi ragazzi traspare in ogni foto.

L’Isola della Salvezza – © Francesco ComelloIsola della Salvezza - Comello
Come si rapportava questa comunità all’uso della macchina fotografica nel documentare la loro quotidianità? Era un intralcio vista la loro estraneità alla tecnologia?

“Anche se non la utilizzano nella vita di tutti i giorni, non è che questi ragazzi non la conoscano – commenta Comello – alla fine del loro percorso scolastico usano dei computer. L’approccio della macchina fotografica non è stato quindi così traumatico, contando anche che io non utilizzo macchine appariscenti. Esiste poi un percorso di avvicinamento, abbastanza lento, che ti permette, una volta accolto, di essere quasi invisibile, avendo l’incredibile possibilità di documentare senza modificare i fatti che stanno accadendo”
Comello non è nuovo nel racconto di realtà lontane e opposte a quelle frenetiche a cui siamo abituati. Precedente al lavoro dell’Isola della salvezza, troviamo infatti quello ad Oshevensk, altro paese russo con dei ritmi e dei valori che probabilmente ci siamo dimenticati: “La difficoltà più grossa è quella di entrare in empatia, per raccontare queste cose senza doverle costruire. Poter stare in un luogo, essere accettato e poter fotografare liberamente è una grande fortuna. Ovviamente ci sono luoghi in cui questo è molto facile, ma non è questo il caso della Russia. Io sono stato invitato da una mia amica, che faceva anche da interprete, ma inizialmente c’è stata molta diffidenza anche perché non sapevano che uso avrei fatto di questo materiale. Più recentemente mi sono ritrovato in un mondo molto diverso come quello cubano, dove invece non esistono dimensioni come quelle della privacy, che sono un grosso ostacolo per chi fotografa. È capitato che anche chi inizialmente non voleva farsi fotografare alla fine abbia deciso per il contrario”.

L’Isola della Salvezza – © Francesco Comelloisola della salvezza - comello 2

Per raccontare il tipo di vita in questa comunità in Russia, il fotografo udinese ha scelto il bianco e nero, cifra stilistica di quasi tutti i suoi lavori: “È un linguaggio in cui sento di potermi esprimere nel migliore dei modi. A differenza del colore che può essere più descrittivo, il bianco e nero è più lirico. In questo, come nell’altro lavoro, raccontare questo mondo a colori non avrebbe avuto senso perché avrebbe perso tantissimo di quelle che sono le sue atmosfere, di questo senso di sospensione temporale. Il bianco e nero non è un linguaggio che ricalca la realtà, che per me è un valore aggiunto. Queste storie le racconto cercando una poetica, che fa uso della realtà ma in un modo più metaforico. Quando parto per un lavoro non decido mai a prescindere: scatto a colori, ma poi, puntualmente, quella in bianco e nero ritengo che abbia una forza maggiore, che funzioni di più in senso estetico e narrativo”.

L’Isola della Salvezza – © Francesco ComelloComello copertina immagine
Se per raccontare una storia in profondità ci vogliono dei tempi a volte molto lunghi, il primo approccio, per Comello è pura improvvisazione: “Io mi voglio far stupire, l’improvvisazione nella fotografia è una cosa bellissima. Se facciamo un paragone con la musica, è come per il jazz: improvvisi, vai in un luogo e ne sai poco e niente, così ti può prendere, e in quel momento il tuo sguardo è puro. Poi, se qualcosa la senti davvero, ti viene naturale voler approfondire, per tirare fuori qualcosa, narrare quella storia”.

Durante la messa.

L’Isola della Salvezza – © Francesco ComelloFrancesco comello
Tutte le immagini presenti nell’articolo sono di Francesco Comello, vietata la riproduzione.

Grazie a Francesco per la sua disponibilità e cortesia, essendo mio amico, gli auguro tanti successi ancora, perché se lo merita, ciao Sara

L’intervista è di Simona Buscaglia, nuova collaboratrice di Musa, per sapere chi è guarda qui