Kensuke Koike, quasi fotografia!

Di Anna Brenna

La prima volta che ho visto questa immagine, ne sono stata immediatamente attratta. Intanto, non so come, ho capito subito che si trattava di un autore giapponese, e poi ho sentito il forte desiderio di approfondirne la conoscenza e le motivazioni. Ormai sapete quanto mi piacciono gli artisti giapponesi… 😀

Si tratta di Kensuke Koike. E non è un fotografo, ma un artista visuale, che utilizza la fotografia, tra gli altri mezzi, per raccontare e raccontarsi.

E’ nato nel 1980 a Nagoya e ha studiato all’Accademia di Belle Arti a Venezia e in seguito, sempre a Venezia, allo IUAV, facolta’ di design e arti.

Quindi immagino abbia anche un certo legame con il nostro paese, avendo anche esposto i suoi lavori in numerosi posti in Italia.

Mentre scrivo questo articolo, il suo progetto “Tutte le immagini dormono”, da cui è tratta l’immagine che vedete qua sopra, è in mostra a Padova in occasione di Photo Open Up, Festival Internazionale di Fotografia. Spero proprio di riuscire a farci un salto per vederlo dal vivo.

Tutte le immagini dormono è composto da oltre 30 opere, realizzate, per riprendere le parole del curatore della mostra Carlo Sala, ‘manipolando fotografie vintage come ritratti d’epoca, cartoline di paesaggi e immagini di famiglia. Il risultato è a parer mio davvero interessante e a tratti destabilizzante. L’autore con un intervento minimale sovverte il senso originario delle fotografie rendendole surreali, ironiche e talvolta inquietanti.  Il processo dell’artista è mosso – per citare le sue parole – dalla volontà di «scoprire dove nasce l’immaginazione e quando si manifesta». L’autore, attraverso la sua ricerca, rivela come ogni immagine «nasconde la potenzialità di diventare qualcosa d’altro, basta che ci si confronti con essa. Fino a quel momento tutte le immagini dormono attendendo l’occasione per rivivere modificate»’.
Qui sotto alcune delle sue immaginifiche opere.

Sul suo sito trovate tutte le sue opere, alcune non strettamente legate alla fotografia, date un’occhiata! Spero vi piaccia

Anna

Izumi Miyazaki, fantastici “selfies”

Ciao,

Si lo so che non sono selfies…. 🙂

Oggi vi voglio presentare questa giovanissima fotografa giapponese. Io la trovo davvero molto “giapponese”, forse per questo mi piace tantissimo. 😉

Dalla prima volta in cui mi ci sono imbattuta, le sue immagini mi hanno catturato e molto incuriosito. Non smetterei mai di guardarle. Un mix di serietà e umorismo che mi affascina molto.

Non ho trovato una vera e propria biografia, forse perché è ancora molto giovane, quindi ho raccolto un po’ di informazioni qua e là sul web e una selezione dei suoi divertenti autoritratti.

Spero piaccia anche a voi

Ciao

Anna

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Masahisa Fukase

Ciao,

oggi vi voglio presentare questo grande maestro della fotografia giapponese,  purtroppo venuto a mancare 5 anni fa. Il suo meraviglioso libro Ravens è stato ri-pubblicato proprio quest’anno da Mack. Io naturalmente non me lo sono fatto scappare. 😛

Proprio in questo periodo lo trovate anche in mostra a Les Rencontres d’Arles. Se avete la possibilità di andarci, non perdetelo.

Io lo trovo davvero fantastico, voi?

Buona visione

Anna
P.S. scusate i differenti formati delle immagini, ma non è facilissimo trovarne di libere in rete

 

Masahisa Fukase (25 Febbraio 1934 – 9 Giugno 2012) è stato un fotografo giapponese, celebrato per le sue opere in cui ha rappresentato la sua vita domestica con la moglie Yōko Wanibe e le visite regolati allo studio di fotografia che i suoi genitori gestivano in una piccola città dell’Hokkaido. Il suo lavoro più famoso è però il libro pubblicato nel 1986 dal titolo Karasu (Ravens o The solitude of Ravens), che nel 2010 è stato selezionato dal British Journal of Photography come il miglior libro fotografico pubblicato tra il 1986 e il 2009. Dalla sua morte nel 2012, l’interesse per la fotografia di Fukase si è rinnovato, con nuovi libri e mostre che enfatizzano l’ampiezza e l’originalità del suo lavoro.

Masahisa Fukase è nato il 25 febbraio 1934 a Bifuka, Hokkaido. La sua famiglia gestiva uno studio fotografico di successo nel nord della piccola cittadina. Nonostante il trasferimento definitivo a Tokyo nel 1950, per la sua istruzione e successivamente la sua carriera, Fukase mantenne dei legami emotivi molto forti con il suo luogo natale e la sua famiglia. Negli anni 70 e 80 torno regolarmente a Bifuka per scattare dei ritratto di famiglia in grande formato, un progetto che venne poi pubblicato nel libro Kazoku (Family) nel 1991. Questo è il più raro dei libri di Fukase.

Il lavoro Karasu (Ravens) di Fukase fu realizzato tra il 1976 e il 1982 sulla scia del divorzio da Yōko Wanibe, e nei primi periodi del suo matrimonio con la scrittrice Rika Mikanagi. In questo lavoro Fukasa riprende ed amplia le sperimentazioni dei lavori degli anni 70, specialmente Natsu no nikki (Summer Journal) del dicembre 1972 e Fuyu no nikki (Winter journal) del giugno 1973. In effetti, il ttolo originale di Fukase per la serie era Tonpokuki o “Winter Journal”. LE fotografie dei corvi e degli altri soggetti tetri che costituiscono Karasu sono state scattate in Hokkaido, a Kanazawa e a Tokyo.

Il progetto è nato come una serie di otto parti per la rivista Camera Mainichi (1976–82), e queste opere rivelano che Fukase sperimentava con la pellicola a colori, stampe con esposizioni multiple e testi narrativi come parte integrante del concetto di Karasu. A cominciare dal 1976, le mostre basate su questo lavoro portarono a Fukase un ampio riconoscimento in Giappone e di seguito in Europa e negli USA. Il libro venne pubblicato nel 1986 (da Sōkyūsha) e questa edizione originale di Ravens presto divenne uno dei più prestigiosi e ricercati libri fotografici giapponese del dopoguerra- Ulteriori edizioni vennero pubblicate nel 1991 (Bedford Arts), nel 2008 (Rat Hole Gallery), e nel 2017 da Mack.

L’approccio pesantemente autobiografico di Karasu trova el sue origini nel lavoro di fondazione di Fukase “Hyōten” [Freezing Point], del 1961, ma spingendo i temi centrali dell’isolamento e della tragedia a nuovi livelli di profondità ed astrazione. Tecnicamente, le fotografie di Ravens erano molto difficili da realizzare, con Fukasa che doveva mettere a fuoco su piccoli soggetti neri in movimento nel buio pressoché totale. Fissare la corretta esposizione fu parimenti una vera sfida. Nel 1976, all’avvio del progetto Fukase affermò su Camera Mainichi: “Vorrei poter fermare questo mondo. Questo atto (del fotografare) può rappresentare la mia vendetta contro la vita e forse questo è quello che mi diverte di più”. Alla fine del progetto, nel 1982, Fukase scrisse enigmaticamente che era “diventato un corvo”

Nel 2010, una giuria di 5 esperti, riunita dal British Journal of Photography scelse Karasu come il miglior libro fotografico del periodo 1986-2009.

Nel 1992 Fukase subì una ferita traumatica al cervello, a causa di una caduta dalle ripide scale del suo bar preferito, nell’area di Shinjuku a Tokyo e questo incidente lo rese invalido. In precedenza nello stesso anno, Miyako Ishiuchi aveva fotografato Fukasea nudo per il suo libro Chromosome XY (1995). Alcune delle immagini di quella sessione vennero pubblicate nella rivista Brutus nel gennaio del 1995. Ishiuchi disse che Fukase fu praticamente l’unico fotografo giapponese maschio che accettò di posare nudo per lei. Nel 2004 il Masahisa Fukase Trust editò e pubblicò due libri: Hysteric Twelve and Bukubuku, contenenti le immagini che Fukase aveva prodotto prima dell’infortunio. Le fotografi incluse in Bukubuku, fatte in una vasca da bagno con una fotocamera subacquea, sono poi state considerate l’ultimo grande lavoro di Fukase, una partita a solitario bizzarra e macabra che traccia nuovi territori per l’autoritratto fotografico.

Fukase morì il 9 giugno 2012. Nel 2015 i Masahisa Fukase Archive organizzarono due mostre dedicate a far conoscere i suoi lavori meno famosi. Il set completo delle stampe di Bukubuku fu esposto per la prima volta dal 1992 alla Tate Modern nel febbraio 2016.

Fonte: libera traduzione da Wikipedia

Qua trovate un bell’articolo apparso sul Guardian un paio d’anni fa

 

Masahisa Fukase (25 February 1934 – 9 June 2012) was a Japanese photographer, celebrated for his work depicting his domestic life with his wife Yōko Wanibe and his regular visits to his parents’ small-town photo studio in Hokkaido. He is best known for his 1986 book Karasu (Ravens or The Solitude of Ravens), which in 2010 was selected by the British Journal of Photography as the best photobook published between 1986 and 2009. Since his death in 2012 there has been a revival of interest in Fukase’s photography, with new books and exhibitions appearing that emphasize the breadth and originality of his art.

Masahisa Fukase was born on 25 February 1934 in Bifuka, Hokkaido. His family ran a successful photo studio in the small northern town. Despite permanently moving to Tokyo in the 1950s to pursue his education and then career, Fukase retained strong emotional ties to his birthplace and family. Throughout the 1970s and 1980s he returned regularly to Bifuka to make large-format family portraits, a project that was eventually published in the book Kazoku (Family) in 1991. This is the rarest of Fukase’s photobooks.

Fukase’s Karasu (Ravens) was shot between 1976 and 1982 in the wake of his divorce from Yōko Wanibe, and during the early period of his marriage to the writer Rika Mikanagi. It extends his experimentation with oblique and metaphorical self-expression in the A Play photo essays of the early ’70s – especially Natsu no nikki [Summer Journal] of December 1972 and Fuyu no nikki [Winter Journal] of June 1973. Indeed, Fukase’s original title for the series was Tonpokuki or “Winter Journal”. The photographs of ravens and other rather bleak subjects that constitute Karasu were taken in Hokkaido, Kanazawa, and Tokyo.

The project originated as an eight-part series for the magazine Camera Mainichi (1976–82), and these photo essays reveal that Fukase experimented with colour film, multiple exposure printing, and narrative text as part of the development of the Karasu concept. Beginning in 1976, exhibitions based on this new body of work brought Fukase widespread recognition in Japan, and subsequently in Europe and the United States. The book was published in 1986 (by Sōkyūsha) and this original edition of Ravens soon became one of the most respected and sought-after Japanese photobooks of the post-war era. Subsequent editions were published in 1991 (Bedford Arts), 2008 (Rat Hole Gallery), and 2017 Mack.

The heavily autobiographical approach of Karasu has its origins in Fukase’s foundational photo essay, “Hyōten” [Freezing Point], of 1961, but it pushes the central themes of isolation and tragedy to new levels of depth and abstraction. Technically, the photographs of ravens were very difficult to achieve, with Fukase having to focus his camera on the small, moving black subjects in almost total darkness. Setting correct exposures was equally challenging. In 1976, at the outset of the project, Fukase stated in Camera Mainichi: “I’m wishing that I could stop this world. This act [of photography] may represent my own revenge play against life, and perhaps that is what I enjoy most.” By the project’s end in 1982, Fukase wrote enigmatically that he had “become a raven”.

In 2010, a panel of five experts convened by the British Journal of Photography selected Karasu as the best photobook of 1986–2009.

In 1992 Fukase suffered traumatic brain injury from a fall down the steep steps of his favourite bar in the “Golden Gai” area of Shinjuku, Tokyo, and this left him incapacitated. Earlier that year Miyako Ishiuchi had photographed Fukase nude for her book Chromosome XY (1995). Some of the images from that session were published in the magazine Brutus in January 1995. Ishiuchi has said that Fukase was almost alone among Japanese male photographers in agreeing to pose nude for her camera. In 2004 the Masahisa Fukase Trust edited and had published two photobooks Hysteric Twelve and Bukubuku, based on bodies of work Fukase had completed before his debilitating fall. The photographs contained in Bukubuku, made in a bathtub with an underwater camera, have come to be regarded as Fukase’s last great work, a whimsical if somewhat morbid game of solitaire that charts new territory for the photographic self-portrait.

Fukase died on 9 June 2012. In 2015 two exhibitions designed to highlight some of his lesser-known work were co-ordinated by the Masahisa Fukase Archives. These were From Window which formed part of the Another Language: 8 Japanese Photographers exhibition at Rencontres d’Arles, France, and The Incurable Egoist at Diesel Art Gallery, Tokyo. Fukase’s complete set of 30 Bukubuku prints was exhibited for the first time since 1992 at the Tate Modern show Performing for the Camera in February 2016.

Source: Wikipedia

Keiichi Tahara, autore davvero interessante.

Oggi vi presentiamo questo artista giapponese definito dalla critica “genio della luce”, che purtroppo ci ha lasciato molto recentemente.

Date un’occhiata e diteci cosa ne pensate.

Ciao

Anna

Keiichi Tahara, nato il 20 agosto 1951 e deceduto il 6 giugno 2017, era un fotografo giapponese.

Tahara era nato a Kyoto. Apprese le teceniche fotografiche in giovane età da suo nonno, che era un fotografo provessionista.

Nel 1972 in Francia, mentre viaggiava in Europa con il Red Buddha Theater, con cui collaborava come tencico delle luci, si imbattè in una luce tagliente, dura e intensa che non aveva mai sperimentato in Giappone. Da allora, rimase a Parigi per i successivi 30 anni e cominciò la sua carriera come fotografo.

La sua prima serie di lavori “Ville” (città ndt) (1973-1976) catturò questa luce particolare in bianco e nero. La sua serie successiva “Fenêtre (Finestra ndt) (1973-1980) gli valse il premio come miglior nuovo fotografo all’ Arles International Photography Festival nel 1977 e gli dischiuse le luci della ribalta. L’anno seguente, inizio a lavorare alla sua serie successiva “Portrait” (1978), poi “Eclat” (1979-1983) e “Polaroid” (1984) e ricevette numerosi premi, tra cui il Ihei Kimura award (1985).

Il suo approccio morfologico alla luce si è poi esteso alla scultura, alle installazioni e ad altre varie forme d’arte, superando il genere della fotografia. Nel 1993, nel fossato del Castello di Angers (1993), venne allestita la prima scultura di luce in Francia, “Fighting the Dragon”.

Il suo lavoro più rappresentativo è “Garden of Light” (Eniwa, Hokkaido, 1989) dove le sculture di luce sono allestite in uno spazio pubblico che è coperto da un emtro di neve per 6 mesi dell’anno. La luce cambia in base alla musica e conferisce allo spazio una dimensione poetica. Basato sullo stesso concetto, nel 2000 venne allestito Echos du Lumières enla Canale Saint-Martin, un progetto per uno spazio pubblico commissionato dalla città di Parigi. I riflessi di colore dei prismi illuminano il muro di pietra, in sincromismo con i suoni.

Altre sono installazioni permanenti  tra cui “Niwa (Giardino ndt)” al Photography Museum di parigi ( Maison Europeenne de la Photographie) nel 2001, l’installazione“ Portrail de Lumiere” ni concomitanza con l’evento di Lille 2004, capitale della cultura e “ Light Sculpture” mostra al museo Tokyo Metropolitan nel 2004.

Nel 2008 l’edificio Ginza 888 venne costruito su sua produzione, direzione artistica del Museum of Islamic Art e Tahara pubblicà un libro fotografico.

Tahara ha poi continuato a produrre installazioni di luce in spazi urbani.

Fonte: libera traduzione da Wikipedia

Questo è il suo sito.

Qui trovate un’intervista concessa a France Fine Art

Keiichi Tahara, born 20 August 1951, died 6 June 2017, was a Japanese photographer.

Tahara was born in Kyoto. He learned photographic techniques at an early age from his grandfather, who was a professional photographer.

In 1972 in France, he encountered a sharp, harsh and piercing light that he had never experienced in Japan while he was traveling Europe with Red Buddha Theater, where he was a lighting and visual technician. Since then, he remained in Paris for next 30 years and started his career as a photographer.

His first series of work “Ville (City)” (1973–1976) captured the unique light in Paris in black-and-white photography. His next series of work “Fenêtre (Windows)” (1973–1980) awarded the best new photographer by Arles International Photography Festival in 1977 and he moved into the limelight.The following year, he started the new series “Portrait” (1978), then “Eclat” (1979–1983) and ”Polaroid” (1984) and received number of awards such as Ihei Kimura award (1985).

His morphological approach to light has extended to sculpture, installations, and other various method crossing over the genre of photography. In 1993, in moat of the Castle of Angers (1993), the first light sculpture in France, “Fighting the Dragon” (1993) was installed.

His representative work is Garden of Light (Eniwa, Hokkaido, 1989) where light sculptures are installed in a public space that is covered by a meter of snow six months of the year. The light changes in response to music and presents a space of poetic dimensions. Based on the same concept, in the year 2000, Echos du Lumières was installed in the Canal Saint-Martin, commissioned as a public space project by the City of Paris. The spectacle colors from the prisms illuminate the stone wall synchronizing with the sounds.

Others are permanent outdoor installation “Niwa (Garden)” at the Photography Museum in Paris ( Maison Europeenne de la Photographie) in 2001, “ Portrail de Lumiere” installation as a part of European Capital of culture event “ Lille 2004” in 2004, and “ Light Sculpture” exhibition at Tokyo Metropolitan Teien Art museum in 2004.

In 2008, Ginza 888 building was built by his total produce, art direction of the Museum of Islamic Art and he published a photography book.

Tahara continues to produce a number of light installation projects in urban spaces.

Source: Wikipedia

Here is his webiste

Hiroshi Sugimoto

Ciao,

pur essendo molto distanti dalla nostra cultura e dal nostro modo di vedere, gli artisti giapponesi mi hanno sempre molto affascinata, non solo in fotografia, anche in pittura ed in architettura.

Eccomi ora di ritorno dalla mia vacanza in Giappone, dove ho avuto modo di ammirare – tra le altre cose – una mostra di Hiroshi Sugimoto, il fotografo che vi voglio presentare oggi.

Spero vi piaccia. Ciao

Anna

 

Hiroshi Sugimoto è nato in Giappone nel 1948. Fotografo dal 1970, il suo lavoro tratta della storia e dell’esistemnza temporale, investigando su temi quali il tempo, l’empirismo e la metafisica. Le sue serie più conosciute includono: Seascapes, Theaters, Dioramas, Portraits (di statue di cera di Madame Tussaud), Architecture, Colors of Shadow, Conceptual Forms and Lightning Fields.

Sugimoto ha ricevuto numerosi grant e borse di studio e il suo lavoro è esposto nelle collezioni della Tate Gallery, del Museum of Contemporary Art, Chicago, e del Metropolitan Museum di New York, tra molti altri. Portraits, inizialmente creato per il Deutsche Guggenheim Berlin, è stato trasferito al Guggenheim New York  nel Marzo 2001. Nel 2001, Sugimoto si è inoltre aggiudicato l’Hasselblad Foundation International Award per la fotografia.

Nel 2006,  l’Hirshhorn Museum di Washington, D.C. e il Mori Art Museum di Tokyo hanno allestito una retrospettiva di metà carriera, in occasione della quale è stata prodotta una monografia intitolata Hiroshi Sugimoto. Sempre nel 2006, ha ricevuto il premio Photo España e nel 2009 il Praemium Imperiale, Painting Award dalla Japan Arts Association.

Durante la Biennale di Venezia del 2014, Sugimoto ha svelato la sua “Glass Tea House Mondiran” presso Le Stanze del Vetro sull’isola di San Giorgio Maggiore.

Questo è il suo sito personale

Qua trovate un’intervista rilasciata nel 2014, in occasione della Biennale di Venezia

Hiroshi Sugimoto was born in Japan in 1948. A photographer since the 1970s, his work deals with history and temporal existence by investigating themes of time, empiricism, and metaphysics. His primary series include: Seascapes, Theaters, Dioramas, Portraits (of Madame Tussaud’s wax figures), Architecture, Colors of Shadow, Conceptual Forms and Lightning Fields. Sugimoto has received a number of grants and fellowships, and his work is held in the collections of the Tate Gallery, the Museum of Contemporary Art, Chicago, and the Metropolitan Museum of New York, among many others. Portraits, initially created for the Deutsche Guggenheim Berlin, traveled to the Guggenheim New York in March 2001. Sugimoto received the Hasselblad Foundation International Award in Photography in 2001. In 2006, a mid career retrospective was organized by the Hirshhorn Museum in Washington, D.C. and the Mori Art Museum in Tokyo. A monograph entitled Hiroshi Sugimoto was produced in conjunction with the exhibition. He received the Photo España prize, also in 2006, and in 2009 was the recipient of the Praemium Imperiale, Painting Award from the Japan Arts Association. During the 2014 Venice Biennale, Sugimoto unveiled his “Glass Tea House Mondrian” at Le Stanze del Vetro on the island of San Giorgio Maggiore.

His personal website

Here a recent interview published on The Huffington Post

Alla scoperta del Giappone, Felice Beato.

ALLA SCOPERTA DEL GIAPPONE

Felice Beato e la scuola fotografica di Yokohama 1860-1910

Per mia fortuna sono riuscito a vedere in tempo la mostra sul Giappone di Felice Beato, installata presso la Fondazione Luciana Matalon di Milano, terminata lo scorso 30 giugno.

L’esposizione era composta da 110 fotografie originali d’epoca, oltre a tre preziosi album con copertine in lacca, madreperla e avorio, provenienti dalle collezioni del Museo di Storia della Fotografia, Fratelli Alinari di Firenze.

In ogni stanza e corridoio della Fondazione vi erano fotografie del Giappone – suddivise per tema – raffiguranti panorami, vedute cittadine, ritratti e scene di vita, tutte colorate a mano e di una straordinaria qualità.

Felice Beato fu un pioniere delle tecniche di colorazione a mano delle fotografie. Combinò lo stile della fotografia europea con le raffinate tecniche giapponesi dell’acquerello e della xilografia.

Alcune immagini della mostra

Vedere dal “vivo” queste foto del XIX secolo stampe all’albumina e dipinte a mano, è stato per me qualcosa di magico. I panorami Giapponesi colorati sono delicati e naturali e i suoi ritratti davvero travolgenti.

Oggi mi sento un po’ più “ricco” e per chi si fosse perso questa mostra, vi consiglio di dare un’occhiata alle foto di Felice Beato direttamente dal sito Archivi Alinari a questo link
www.alinariarchives.it
Dal sito si possono inoltre acquistare stampe e libri dell’autore.

Metto il link a Wikipedia per chi desidera sapere di più su Felice Beato wiki/Felice_Beato

Gianluca M.

Nuove mostre per maggio

 

EADWEARD MUYBRIDGE (1830 – 1904). Tra scienza e arte

Milano, Galleria Gruppo Credito Valtellinese
Dal 19 maggio al 31 luglio 2016
Mostra a cura di Leo guerra e Cristina Quadrio Curzio

Per la prima volta in Italia  una mostra su Eadweard Muybridge.
Le sue fotografie influenzarono gli Impressionisti.
Finalmente un grande mostra italiana su Eadweard Muybridge (1830 – 1904), il fotografo che “inventò” il movimento, influenzando con le sue immagini Degas e gli artisti del suo tempo e anticipando la nascita del cinema.
A proporla a Milano dal 19 maggio al 31 luglio è la Galleria Gruppo Credito Valtellinese, con la curatela di Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzio.

Il primo approccio professionale con la fotografia, Muybridge, inglese emigrato negli States, lo ebbe documentando la potente bellezza del Parco Nazionale di Yosemite.

Poi la curiosità di un uomo d’affari lo spinse a verificare l’ipotesi se, nel galoppo, tutte e quattro le zampe del cavallo risultino contemporaneamente alzate rispetto al suolo, come le dipingeva Gericault e con lui i grandi artisti del momento.
Utilizzando 24 fotocamere collegate ad altrettanti fili lungo il percorso, Muybridge ottenne una sequenza di immagini che documentavano con assoluta precisione il movimento dei cavalli, confermando che per alcuni istanti effettivamente nel galoppo l’intero loro corpo risulta sollevato dal suolo, ma indicando anche che l’estensione delle zampe risultata affatto diversa da quella immaginata agli artisti.
Paul Valéry riconobbe che “Le fotografie di Muybridge rivelano chiaramente gli errori in cui sono incorsi tutti gli scultori e i pittori quando hanno voluto rappresentare le diverse andature del cavallo”.

Queste immagini divennero celebri. Molti artisti, e tra loro Degas, capirono l’importanza della fotografia come fonte di documentazione oltre la capacità visiva. Divenne comune trasporre dalle foto non solo il movimento invisibile all’occhio umano ma anche altri aspetti della realtà, giungendo ad dipingere direttamente sull’immagine fotografica.

Dopo i cavalli, gli uccelli in volo e il movimento degli animali dello Zoo di Philadelfia, il soggetto diventa l’uomo. Divennero presto celebri i suoi nudi in movimento, fotografati su uno sfondo con una griglia disegnata, mentre correvano, salivano le scale o portavano secchi d’acqua.

Con la collaborazione dell’Università di Pensylvania, Muybridge mette a punto lo Zoopraxiscopio, uno strumento simile allo Zoetropio, che consentiva di proiettare le immagini, rendendole così contemporaneamente visibili ad un piccolo pubblico. Come al cinema.

La mostra non si limita a presentare un focus sulla storica produzione di Muybridge. Verrà anche ricomposto, in chiave contemporanea, il set che egli usava per gli scatti in piano sequenza.
Che si animerà con una performance, durante la serata inaugurale, nella quale due o più personaggi e attori attraverseranno il ricostruito piano sequenza, generando degli scatti per un’attuale interpretazione “alla Muybridge”.
Del percorso di visita faranno parte anche “L’assassino nudo” e un “film stenopeico”, docu-films originali realizzati da Paolo Gioli.

Il catalogo propone un saggio a carattere storico del prof. Italo Zannier, un secondo che approfondisce lo sperimentalismo di Muybridge, a cura di Paolo Gioli, e un terzo di analisi della mostra a cura di Cristina Quadrio Curzio e Lo Guerra.

La mostra, a carattere educativo, è prodotta e organizzata da Fondazione Gruppo Credito Valtellinese

Altre info qua

XI comandamento: non dimenticare – Mustafa Sabbagh

ZAC ai cantieri culturali alla zisa, palermo _ dal 21.05 al 17.07.2016

Sarà il grande spazio di archeologia industriale ZAC ai Cantieri Culturali alla Zisa ad ospitare la prima mostra antologica di Mustafa Sabbagh, la cui inaugurazione è prevista per Sabato 21 Maggio 2016.

La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura della Città di Palermo, costella la nuova programmazione, avviata lo scorso anno, che ha presto portato all’attenzione nazionale ed internazionale lo spazio ZAC come «luogo di riferimento per il contemporaneo nel sud d’Europa e nel cuore del Mediterraneo », nelle parole dell’Assessore alla Cultura Andrea Cusumano; «un polo espositivo che sempre più va assumendo un potente connotato caratteriale, attraverso i grandi maestri dell’arte contemporanea ».

Una stagione di mostre inaugurata con la personale di Mauro d’Agati curata da Gerhard Steidl, seguita dalla suggestiva antologica dedicata a Regina José Galindo, per proseguire con le grandi retrospettive di Hermann Nitsch e di Letizia Battaglia. Programmazione che si arricchirà di altri importanti progetti nell’anno in corso, e che precede l’avvenimento-clou che farà di Palermo capitale dell’arte contemporanea nel 2018, con la celeberrima biennale d’arte internazionale Manifesta 12.

L’invito rivolto a Mustafa Sabbagh conferma, da parte dell’Amministrazione, il forte e coerente impegno a costruire una programmazione culturale attenta ai diritti della persona ed alle grandi sfide dell’inizio di questo millennio, riportando in prima linea imperiture domande dell’umanità attraverso i grandi nomi dell’arte contemporanea internazionale.

«La città di Palermo accoglie Mustafa Sabbagh a ZAC, riconoscendo in lui un comune codice genetico: », afferma il Sindaco Leoluca Orlando: «quello di un funambolo che, non dimenticando il rischio della caduta, vuole imparare a volare – e farlo attraverso il linguaggio a lui più congeniale, l’arte. Oggi più che mai abbiamo bisogno di ricollegare le nostre radici alle ali. Tenere ferma la consapevolezza della nostra storia, delle nostre tradizioni e della nostra cultura, pur coltivando l’ambizione a volare attraverso l’accoglienza ed il coraggio di scegliere la propria identità, atto supremo di libertà ».

2000 mq di un ex hangar industriale dell’inizio del Novecento all’interno del quale saranno esposte oltre 75 opere fotografiche tra le più famose di Sabbagh, 10 opere video e tre nuove video-installazioni site-specific, oltre all’installazione fotografica acquisita dalla collezione permanente di arte contemporanea del MAXXI – Museo delle Arti del XXI secolo (Roma), che verrà presentata in anteprima assoluta, come molte delle opere inedite che l’artista ha scelto di battezzare a Palermo.

Nell’idea dell’artista, che firma anche la curatela della mostra, ZAC sarà concepito come un contenitore della schizofrenia contemporanea, un grande armadio che vive del suo disordine e della psicosi di chi lo possiede; metafora di un’umanità disorientata, schizofrenica nell’occultamento delle sue paure, che vengono qui catalogate da Sabbagh. Un’umanità dimentica della sua stessa umanità, dell’urgenza di integrazione – individuale e sociale – a partire da Palermo, cui Mustafa Sabbagh richiede un dovere sociale come un comandamento laico: non dimenticare.

Non dimenticare  in Onore al Nero, serie fotografica che lo ha reso celebre nel mondo, riflessione personale e sfida sociale a partire dal lato oscuro individuale, che sovverte le convenzioni attraverso la multidimensionalità di uno #000, e richiama la storia dell’arte reinterpretandola.

Non dimenticare in Candido, progetto inedito, assoluzione laica concessa da chi sa condividere le colpe attraverso gli occhi incontaminati – e le mani insanguinate – di un bambino, come in Das Unheimliche, di freudiana memoria, in cui viene insanguinata l’aspettativa adulta rispetto al c.d. “diverso”.

Non dimenticare in Chat Room, lettera d’amore/sinfonia del dolore tra un povero Cristo e un povero Diavolo, e in Dark Room, riscoperta dell’innocenza attraverso un atto voyeuristico.

Non dimenticare in anthro_pop_gonia, videoinstallazione anch’essa inedita in Italia, filo d’Arianna dalla storia della mitologia greca alla storia del vizio contemporaneo.

Non dimenticare in Made in Italy© – Handle with care, schiaffo cinico a domande urlate, non sussurrate, come dovrebbero essere quelle foriere di rivoluzione. Che cos’è davvero un corpo estraneo, in una società infetta dall’ottusità? Inutile cercare di dimenticarlo, davanti alla serialità di un delitto perpetrato dall’uomo verso l’uomo, nel mare nero dell’installazione – concepita appositamente dall’artista per Palermo – 09.2015: 3944.

Così come per Palermo, e per rimarcarne l’anima profondamente intrisa di arte e contaminazione, è concepita la collaborazione con le prestigiose gallerie FPAC Francesco Pantaleone Arte Contemporanea e Rizzuto Gallery, realtà palermitane internazionalmente apprezzate per la loro riconoscibilissima ricerca – differente nella semantica artistica, comune nella qualità propositiva. All’interno di esse saranno esposte – come sinapsi connettivali da scoprire nell’articolato sistema nervoso della città – due opere inedite dell’artista, pensate in relazione alle specificità dello spazio espositivo che le accoglie. Una triangolazione per non dimenticare  che ‘diversità’ è un altro modo di definire la ricchezza.

«Uno schizofrenico non dimentica; uno schizofrenico accumula » scrive Sabbagh, «come in un disturbo da personalità multipla, come in uno zapping impazzito ». Nell’idea di questo nuovo allestimento, le opere d’arte di Mustafa Sabbagh si ribellano alla prevedibilità di un ordine filologico, per irrompere in contraddizioni necessarie.

Qua trovate un approfondimento su Mustafa Sabbagh.

The Mind’s Eye  HENRI CARTIER-BRESSON

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A cura di Simona Perchiazzi

PAN Palazzo delle Arti di Napoli
28 aprile 2016| 28 luglio 2016

La mostra è proposta e finanziata dall’associazione ACM Arte e Cultura in collaborazione con: Fondation Henri Cartier-Bresson Magnum Photos, promossa dal Comune di Napoli e sostenuta dal Pastificio dei Campi

Il genio della composizione, la sorprendente intuizione visiva, la capacità di catturare momenti fugaci e significativi fanno di Henri Cartier- Bresson, 1908_2004, uno dei più grandi fotografi del Ventesimo secolo.

La sua ricerca lo ha spinto in ogni luogo del mondo, lui è stato testimone dei momenti più significativi della storia, Cartier-Bresson ha fuso la poesia alla potenza della testimonianza generando una nuova grammatica visiva.
Ha attraversato: surrealismo, Guerra Fredda, Guerra Civile Spagnola, seconda Guerra Mondiale con uno sguardo lucido attento e mai retorico.
Dal 1926 al 1935, Cartier-Bresson frequenta i surrealisti, compie i primi passi nella fotografia e intraprende i suoi primi viaggi; dal 1936 al 1946, si assume un grande impegno politico lavorando per la stampa comunista e affrontando grandi esperienze nel cinema. Dal 1947 al 1970, apre la prestigiosa agenzia Magnum Photos allontanandosi dal fotoreportage.

Al PAN una mostra delle sue opere fotografiche, una selezione dell’immenso corpus di immagini che Cartier-Bresson ci ha lasciato: l’esposizione coprirà l’intero percorso professionale del grande fotografo.
Saranno esposte 54 opere fotografiche tra le più importanti icone del grande maestro.
Questa un’occasione imperdibile per ammirare alcuni tra i capolavori più toccanti e realistici del famoso fotografo francese, considerato un pioniere del foto-giornalismo.

Il PAN è in via dei Mille 60 a Napoli, è aperto tutti i giorni dalle ore 9.30 alle ore 19.30 – la domenica dalle ore 9.30 alle 14.30. Il martedì le sale espositive sono chiuse

ALLA SCOPERTA DEL GIAPPONE. Felice Beato e la scuola fotografica di Yokohama 1860-1910

Milano, Fondazione Luciana Matalon, Foro Buonaparte 67
27 aprile – 30 giugno 2016

La mostra presenta una documentazione fotografica, delle prime immagini scattate in Giappone, tra cui spicca il lavoro di uno dei maggiori fotografi dell’Ottocento: l’italiano Felice Beato.

Questo prezioso materiale, proveniente dalle collezioni del Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, contribuisce ad esemplificare l’interesse e il fascino esercitato dal mondo orientale alla fine dell’Ottocento nella cultura europea.

L’esposizione raccoglie 110 fotografie originali d’epoca (vintage-prints) colorate a mano con prodotti all’anilina, che ne caratterizzano inconfondibilmente la provenienza dall’atelier di Beato, oltre a tre preziosi album-souvenir con copertine originali, in lacca, madreperla e avorio, che testimoniano la moda orientalista largamente diffusa nell’Europa del XIX secolo.

L’iniziativa, curata da Emanuela Sesti, responsabile scientifica della Fratelli Alinari Fondazione, è organizzata e prodotta da Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia e Fondazione Luciana Matalon, con il patrocinio della Regione Lombardia, del Comune di Milano, dell’Ambasciata del Giappone, del Consolato Generale del Giappone, della Camera di Commercio e Industria Giapponese in Italia e fa parte del programma ufficiale delle celebrazioni del 150° anniversario della firma del Trattato di amicizia e commercio tra Italia e Giappone.

Felice Beato, di origini veneziane naturalizzato inglese, nato nel 1832 e morto a Firenze nel 1909, nei suoi primi anni di attività lavora insieme al fratello Antonio e al fotografo inglese James Robertson a Costantinopoli durante gli anni della guerra di Crimea, della quale riportano alcune straordinarie immagini di documentazione. Nel 1857, sempre accompagnato dal fratello e da Robertson, inizia il suo viaggio verso Oriente, raggiungendo l’India e nel 1860 la Cina.

Nel 1863 arriva da solo in Giappone, dove rimane per oltre 15 anni e fonda la sua attività fotografica insieme al pittore Charles Wirgman, specializzato nella caratteristica coloritura delle stampe fotografiche di Beato. La mancanza di colore nelle fotografie ottocentesche era avvertita come un limite e la policromia di queste stampe, unite alla loro raffinatezza e esoticità, hanno contribuito al grande successo commerciale con cui furono accolte, tanto che Beato e Wirgman crearono una vera e propria scuola a Yokohama, alla quale collaborarono molti artisti locali.

Tale scuola proseguì la produzione delle fotografie ‘alla maniera di Beato’, anche molti anni dopo la partenza del fotografo italiano, creando uno stile e una moda che perdurò fino ai primi del Novecento.

Per la colorazione di una buona fotografia occorreva quasi mezza giornata. I tempi erano così lunghi che vennero assunti sempre più artisti in un solo atelier, istituendo così una catena di montaggio che aveva una gerarchia produttiva ben precisa e che seguiva anche le inclinazioni e il grado di abilità di ciascun colorista.

La Yokohama Shashin, ovvero la fotografia in stile Yokohama, acquisì notevole importanza grazie al turismo.

 I viaggiatori compravano,  come souvenir, gli album con una cinquantina di immagini circa, affascinati dal Giappone e dalle sue più antiche tradizioni di vita sociale e di costume, ma anche dalle atmosfere e dagli irripetibili paesaggi ricchi di fascino e spiritualità, cercando fotografie che confermassero l’immagine esotica che avevano del Giappone, in antitesi alla cultura del mondo occidentale.

Attraverso le fotografie del XIX secolo realizzate in Giappone, si possono leggere i costumi, i paesaggi, la vita quotidiana giapponese: le geishe, i samurai, i lottatori, i monaci buddisti, i piccoli artigiani, i paesani, ma anche i paesaggi, i fiori e le scene di strada. Ogni immagine è una finestra aperta sul mondo orientale, su un lontano e sconosciuto Giappone che grazie alla fotografia si offriva alla curiosità del pubblico europeo del secolo scorso.

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World Press Photo 2016

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Il Premio World PressPhoto è uno dei più importanti riconoscimenti nell’ambito del fotogiornalismo. Ogni anno, da 59 anni, una giuria indipendente, formata da esperti internazionali, è chiamata ad esprimersi su migliaia di domande di partecipazione inviate alla Fondazione di Amsterdam da fotogiornalisti provenienti da tutto il mondo.

Per questa edizione le immagini sottoposte alla giuria del concorso World Press Photo sono state 82.951 immagini, inviate da 5.775 fotografi di 128 nazionalità.

La giuria, che ha suddiviso i lavori in otto categorie, ha premiato 42 fotografi provenienti da 21 paesi: Australia, Austria, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, Iran, Italia, Giappone, Messico, Portogallo, Russia, Slovenia, Sud Africa, Spagna, Svezia, Svizzera, Siria, Turchia e Stati Uniti.

La foto dell’anno, scelta nella categoria Spot News, è del fotografo australiano Warren Richardson, realizzata a Roske, in Ungheria, al confine con la Serbia, il 28 agosto del 2015. L’immagine, che si intitola Hope for new life, mostra un uomo che fa passare un bimbo attraverso il filo spinato ed è stata scelta per illustrare la situazione drammatica dei migranti che nel 2015 si è imposta sull’attualità.

Richardson è un fotografo freelance, attualmente vive a Budapest, in Ungheria. Ha spiegato così come ha scattato la foto: “Ero accampato con i rifugiati da cinque giorni sul confine. Un gruppo di circa 200 persone è arrivato, posizionandosi sotto gli alberi lungo la linea di recinzione. Prima sono passate le donne e i bambini, poi i padri e gli uomini anziani. Devo essere stato con questo gruppo per circa cinque ore, giocando al gatto e il topo con la polizia per tutta la notte. Non ho utilizzato il flash perchè altrimenti la polizia avrebbe potuto vedere quelle persone. Ho scattato la foto grazie alla luce del chiaro di luna”.

Francis Kohn, presidente della giuria, e caporedattore di fotografia dell’agenzia di Afp ha così commentato l’immagine vincitrice: “Quandoall’inizio abbiamo guardato questa foto abbiamo subito capito che era un’immagine importante. Il suo potere stava nella sua semplicità, in particolare nel simbolismo del filo spinato. Rappresentava quasi tutto quello che si può esprimere visivamente rispetto a ciò che sta accadendo con i rifugiati. Penso che sia una foto classica, ma senza tempo”.

La mostra World Press Photo non è soltanto una galleria di immagini sensazionali, ma è un documento storico che permette di rivivere gli eventi cruciali del nostro tempo. Il suo carattere internazionale, le centinaia di migliaia di persone che ogni anno nel mondo visitano la mostra, sono la dimostrazione della capacità che le immagini hanno di trascendere differenze culturali e linguistiche per raggiungere livelli altissimi e immediati di comunicazione.

La World Press Photo Foundation, nata nel 1955, è un’istituzione internazionale indipendente per il fotogiornalismo senza fini di lucro. Il World Press Photo gode del sostegno della Lotteria olandese dei Codici postali ed è sponsorizzato in tutto il mondo da Canon e Lottery.

Il 10bphotography, partner della fondazione World Press Photo, è un centro polifunzionale interamente dedicato alla fotografia professionale. Si propone di mettere a disposizione del territorio l’esperienza e le relazioni costruite nel tempo, con l’obiettivo di portare a Roma il più grande e più prestigioso concorso di fotogiornalismo mondiale.

Internazionale, Media Partner della mostra, è un settimanale italiano d’informazione fondato nel 1993 che pubblica i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo.

I Global Shapers, Media Partner della mostra, sono una community nata nel 2012 per iniziativa del World Economic Forum, per mettere in comunicazione a livello mondiale una generazione di giovani talenti e renderla protagonista nei processi di cambiamento della società

Museo di Roma in Trastevere dal 29 aprile al 29 maggio 2016

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Punto d’ombra – fotografie di Teju Cole

Teju Cole

A cura di Alessandra Mauro

27 aprile – 19 giugno 2016 – Galleria Forma Meravigli

Punto d’ombra presenta il nuovo lavoro di Teju Cole: 65 immagini e parole che, come le pagine di un diario visivo, seguono e testimoniano i suoi diversi viaggi e peregrinazioni nel mondo.

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Martin Karplus fotografo: il colore degli anni ’50

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Il Grattacielo Pirelli ospita la prima mostra personale in Italia di Martin Karplus fotografo (Vienna, 1930), personalità di spicco nel panorama scientifico internazionale e vincitore del Premio Nobel per la Chimica nel 2013. Il progetto, presentato presso la sede di Regione Lombardia da Vittorio Schieroni ed Elena Amodeo – Made4Art, consiste nella mostra Martin Karplus fotografo: il colore degli anni ‘50, a cura di Sylvie Aubenas della Bibliothèque nationale de France, insieme a un concorso fotografico dedicato a giovani studenti lombardi. Il progetto è realizzato in collaborazione con Regione Lombardia e Università degli Studi di Milano.

In esposizione oltre sessanta opere in prestito dalla Bibliothèque nationale de France rappresentative della produzione artistica di Martin Karplus e delle tematiche da lui affrontate: immagini a colori dell’Europa, delle Americhe e dell’Asia degli anni ‘50 e ‘60 che mostrano le avventure della sua vita, le emozioni e i luoghi da lui visitati. Immagini della natura incontaminata del Brasile e del Perù, dove affiorano le rovine di antiche civiltà o imponenti architetture moderne, volti e persone di popolazioni balcaniche ritratte nella loro quotidianità, lo stretto legame con l’acqua che caratterizza la vita dei pescatori di Hong Kong, fino ai prorompenti e accesi colori della frutta e delle spezie che riempiono i mercati cinesi e indiani. Questi sono alcuni dei soggetti ritratti dall’obiettivo di Martin Karplus dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, in un viaggio che tocca culture, usi e costumi diversi, Paesi vicini e lontani nel tempo e nello spazio, in un fondersi di vita personale e universale, di quella delle persone e dei luoghi che ha incontrato sul proprio cammino.

Il corpus principale della produzione fotografica di Karplus è rappresentato dagli scatti realizzati tra gli anni ’50 e ’60 con oltre 4.000 diapositive che sono rimaste inedite per quarant’anni mentre lo scienziato continuava a dedicarsi alla sua attività di ricerca. Nel corso del 2000 una selezione di queste diapositive è stata scansionata, rivelando immagini che conservano intatti i colori originari. Il lavoro di Karplus, che vede il passaggio dall’analogico al digitale, dalla sua Leica IIIC alla nuova Canon EOS 20D, riesce a conciliare la bellezza estetica tipica dell’opera d’arte con la carica emozionale del reportage,

con tutte le sue valenze storiche, sociali e culturali. La mostra diventa un importante documento di oltre cinquant’anni di vita che Martin Karplus, conosciuto principalmente in ambito scientifico, vuole trasmettere alle generazioni future: una visione di quel mondo in cui ha vissuto, oggi in gran parte non più esistente.

A completare il progetto una sezione dedicata al Concorso fotografico Luoghi e colori di Lombardia indetto dall’Università Statale di Milano, che presenta il tema del viaggio e del colore attraverso la fotografia di alcuni studenti dell’Ateneo. Il Comitato di selezione, presieduto da Martin Karplus e composto dai Curatori del progetto, da Silvia Gaffurini (artista fotografa), Roberto Mutti (critico fotografico) e Giorgio Zanchetti (Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali, Università degli Studi di Milano) ha selezionato le opere che meglio hanno saputo rappresentare il tema proposto, con l’obiettivo di attrarre i giovani al mondo dell’arte e della fotografia. L’invito proposto agli studenti era quello di cimentarsi con la vitalità e l’energia cromatica tipica delle fotografie di Karplus degli anni ’50 e ’60.

Martin Karplus nasce a Vienna nel 1930. Si trasferisce coi genitori e il fratello negli Stati Uniti nel 1938. Dopo gli studi ad Harvard, consegue il dottorato di ricerca in Chimica presso il California Institute of Technology nel 1953. Trascorre due anni ad Oxford per tornare negli Stati Uniti come professore all’Università dell’Illinois prima e alla Columbia University dopo. Nel 1966 diventa professore di Chimica all’Università di Harvard, dove conduce tuttora la sua attività di ricerca. Nel 1996 diventa professore anche alla Università Louis Pasteur di Strasburgo, continuando la sua attività sia negli Stati Uniti che in Francia. È membro della National Academy of Sciences, l’American Academy of Arts & Sciences e membro straniero dell’Accademia Olandese delle Arti e delle Scienze e della Royal Society di Londra. Nel 2013 gli è stato conferito il Premio Nobel per la Chimica.

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Il mondo di Steve McCurry

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Steve McCurry è uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, punto di riferimento per un larghissimo pubblico, soprattutto di giovani, che nelle sue fotografie riconoscono un modo di guardare il nostro tempo e, in un certo senso, “si riconoscono”.

In ogni scatto di Steve McCurry è racchiuso un complesso universo di esperienze e di emozioni e molte delle sue immagini, a partire dal ritratto di Sharbat Gula, sono diventate delle vere e proprie icone, conosciute in tutto il mondo.

La nuova rassegna allestita nella grandiosa Citroniera delle Scuderie Juvarriane nella Reggia di Venaria, è la più ampia e completa tra le mostre che Civita e SudEst57 hanno dedicato fin dal 2009 al grande fotografo americano, registrando nelle varie città oltre 700.000 visitatori.

 La mostra comprende oltre 250 tra le fotografie più famose, scattate nel corso della sua trentennale carriera, ma anche alcuni dei suoi lavori più recenti e altre foto non ancora pubblicate nei suoi numerosi libri.

Il percorso espositivo, curato da Biba Giacchetti e “messo in scena” nella Citroniera da Peter Bottazzi, propone un lungo viaggio nel mondo di McCurry, dall’Afganistan all’India, dal Sudest asiatico all’Africa, da Cuba agli Stati Uniti, dal Brasile all’Italia, attraverso il suo vasto e affascinante repertorio di immagini.

A cura di Biba Giacchetti, allestimento di Peter Bottazzi

In collaborazione con Civita, con il sostegno di SudEst57 e Lavazza

DOVE
Citroniera delle Scuderie Juvarriane

QUANDO
Dal 1° aprile al 25 settembre 2016

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Betania – Valerio Bispuri

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Il 28 maggio 2016, alle ore 19:00, si inaugura la mostra “Betania” con le fotografie di Valerio Bispuri, a cura di Valeria Fornarelli, presso Église, un nuovo centro di cultura artistica, in via dei Credenzieri a Palermo. La mostra è prodotta da Perugia Social Photo Fest e Église, organizzata da Église ed è all’interno del programma del PalermoPride2016.

«Ho sempre creduto che la fotografia abbia il valore di svelare, oltre che di raccontare; di portare alla luce le profondità di un gesto, l’intensità di momenti che sfuggono allo sguardo».

È con questo in mente che il fotografo narra la storia di Betania, una donna lesbica di trentacinque anni che ha vissuto di fronte al suo obiettivo molti momenti rilevanti della sua vita privata a Buenos Aires e il rapporto con la sua attuale, amata compagna Virginia; sullo sfondo, l’Argentina, il primo paese del Sud America a legalizzare nel 2010 le unioni omosessuali.

Ritraendo Betania, Bispuri ritrae gli aspetti più profondi dell’intimità lesbica, dei sentimenti, del sesso, della vita, e ne esplora il linguaggio peculiare di atteggiamenti, gesti, aspirazioni all’autonomia e al riconoscimento; eppure di questo linguaggio mostra al contempo il carattere universale, che travalica il genere e l’orientamento sessuale per riaffermarne l’appartenenza all’erotismo generale degli umani.

Il progetto è stato esposto, per la prima volta nel marzo del 2016, presso il Museo Civico di Palazzo della Penna in occasione del Perugia Social Photo Fest, il cui fine è quello di dimostrare, attraverso la fotografia sociale e terapeutica, che la “diversità sociale sia una ricchezza che frutta maggiormente se condivisa”.

28 Maggio – 18 giugno – Église in via dei Credenzieri, Palermo

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Luigi Vegini, In…Viaggio

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PALAZZO PIROLA
Luigi Vegini, In…Viaggio
a cura di Roberto Mutti
30 aprile/15 maggio

Luigi Vegini affronta il viaggio come momento di attesa e sospensione: le persone che fotografa su treni, traghetti o banchine vengono isolate dalla meta, dalla descrizione, dalla destinazione o da qualsivoglia contesto: diventano persone presenti nel ‘qui e ora’, sospesi in un’aspettativa che esiste solo nel passaggio. I viaggiatori di Vegini sono sfuggenti apparizioni in bianco e nero che prendono forma nel silenzio dell’immaginario emotivo del fotografo. Altre info qua

Protocolli e derive veneziane – Antoni Muntadas

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La Real Academia de España en Roma è lieta di presentare PROTOCOLLI E DERIVE VENEZIANI, nuova mostra di Antoni Muntadas che avrà luogo nella città di Roma, il prossimo giovedì 14 aprile.

 Il progetto, presentato per la prima volta nel 2013 in concomitanza con la 55. Esposizione Internazionale d’Arte, La Biennale di Venezia, e successivamente all’interno della 72. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, è il risultato finale di una ricerca sulla città lagunare, che ha dato origine ad alcuni lavori realizzati in loco negli ultimi anni. La particolare configurazione di questa città storica la rende un interessante oggetto di studio e riflessione, di cui l’artista può godere in prima persona come osservatore esterno, avendovi trascorso per lavoro tre mesi all’anno dal 2004 ad oggi.

 L’esposizione è composta dalla serie di fotografie Protocolli Veneziani, che riportano particolari architettonici di Venezia, evidenziando le peculiarità dell’abitare lontano dalla terraferma. È così che tubi, aperture, tombini, finestre chiuse, sembrano possedere una logica propria e raccontano la città attraverso le tracce di un’antica attività edilizia.

Presentato e proiettato quest’estate all’interno della 72. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, il film Dérive Veneziane racconta un lato inesplorato di Venezia, sconosciuto ai più, misterioso e al contempo affascinante, caratterizzato da una quasi totale mancanza di individui, che al contrario durante il giorno affollano le calli in maniera spropositata.

 Antoni Muntadas è nato a Barcellona nel 1942. Dal 1971 vive a New York. È stato uno dei primi artisti concettuali e media artist.

Artista multidisciplinare, che spazia dalla fotografia al video, dalle installazioni agli interventi urbani, è particolarmente noto per i suoi progetti che prevedono un uso artistico dei media e new media, in funzione sociale e politica, così come la relazione fra lo spazio pubblico e privato all’interno della struttura sociale.

Nei suoi quarant’anni di carriera ha realizzato e prodotto numerosi lavori delle serie definite “Media Landscape” (1977), “Media Architecture installations” (1980 e 1990), “The File Room” – progetto il cui obiettivo è la messa in discussione dell’idea di censura culturale – (1994). Oggetti di lavoro sono state anche le serie “On Translation” (1995) e “Asian Protocols”, tutt’ora in corso.

Le sue opere sono state esposte nei più importanti e rinomati musei e gallerie: The Museum of Modern Art a New York, Berkeley Art Museum, C.A., Musée d’art contemporain de Montréal, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía a Madrid, Museo de Arte Moderno a Buenos Aires, e molti altri ancora.

Ha inoltre partecipato a diverse esposizioni internazionali, tra le quali Documenta VI e X a Kassel, le Biennali di Venezia del 1972, 1976 e 2005, Whitney Biennal of American Art, San Paolo e Lione, Taipei, Gwangju e L’Aavana. Oltre ad aver lavorato come docente, e aver diretto seminari in istituzioni accademiche europee e statunitensi, tra cui École des Beaux-Arts di Paris, la USP a San Paolo in Brasile, è stato ricercatore dal 1977 presso Center for Advanced Visual Studies al MIT, e successivamente professore alla Scuola di Architettura nello stesso MIT di Cambridge dal 1990 al 2014. In Italia collabora con la Galleria Michela Rizzo dal 2010 e insegna alla Facoltà IUAV di Venezia.

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Dana de Luca | L’ineffabile gemito

untitled, 2015

untitled, 2015

In concomitanza con l’apertura di MILANO PHOTOFESTIVAL e di MIA PHOTO FAIR, lo Studio Masiero propone per la prima volta una personale di fotografia, estendendo la proposta artistica anche a questo ambito delle arti visive.

Verranno esposte una serie di fotografie di diverse dimensioni realizzate tra il 2014 e il 2015 con tirature da 3 a 5 copie. Le opere presentate sono il risultato di un atto performativo che utilizza carta fotosensibile e agenti chimici e poiché le immagini, come spiega l’autrice stessa, “non sono immagini di qualcosa”, la sperimentazione che ne deriva, annullando il mezzo fotografico, raggiunge un‘immagine aniconica con una tecnica originale che può essere avvicinata al chimigramma.

È questo il caso in cui “l’assenza del dispositivo fotografico – come scrive Giovanna Gammarota – mette in discussione il fare fotografia come la conosciamo nella sua forma più comune. Qui l’immagine è assenza di forma. Il che impone un confronto sul senso.”

A rafforzare la tensione verso questa ricerca di senso, accanto alle opere, viene presentata anche una installazione, prodotto di un processo performativo. L’artista dopo aver distrutto con il fuoco i propri diari e sue vecchie fotografie, ne espone i resti combusti, individuati, manipolati e suddivisi i quali, catturando l’osservatore, impongono un’ulteriore riflessione sulle dinamiche del tempo.

La complessa operazione artistica di Dana de Luca viene attraversata dalla suggestione della lettura del Libro XI delle Confessioni di Sant’Agostino e dall’elaborazione del significato di tempo, di forma e di desiderio.

“Ciò che […] cogliamo nelle immagini di Dana de Luca è […] l’assenza di modello che rende il desiderio più autentico e sofferto e che conduce all’incapacità di registrare con le parole o con immagini consuete, quello che accade nell’atto tensivo che rivolgiamo all’ignoto che ci attrae.”(G.G.)

 Dana de Luca è fotografa autodidatta con una formazione artistica nel teatro di ricerca. Ha vissuto a Madrid per molti anni lavorando come fotografa freelance. Rientrata in Italia ha intrapreso una ricerca in campo filosofico e artistico inclusiva del soggettivo e del concettuale. Nel 2013 con una campagna di crowdfunding ha pubblicato il libro fotografico “La petite mort”, esposto durante il Photo Festival di Arles (Book Award Exhibition 2013), al SiFest-Savignano Immagini Festival e a LuganoPhotodays, nel 2013. Nel 2014 ha esposto alla Galleria Nobili di Milano e al Guernsey PhotoFestival, Guernsey. Il suo lavoro è stato pubblicato in numerose riviste internazionali fra cui Gatopardo Magazine (Messico), Vive Magazine (Australia), L’Oeil de la Photographie (Francia), Hyperallergic and Saint-Lucy (USA) e in Italia su Panorama e sulla storica rivista Il Verri.

Anna