Graciela Iturbide, testimone della dimensione magica e poetica dell’uomo

Articolo di Giovanna Sparapani

“Io sono una testimone della dimensione magica e poetica dell’uomo, fino ad arrivare al lato mistico della vita quotidiana, forse…” (G.I)

Graciela Iturbide, autoritratto

Nata a Città del Messico nel 1942,  figura di spicco nell’ambito della  fotografia messicana, è stata allieva del famoso Manuel Alvarez Bravo, dei cui insegnamenti conserverà per tutta la vita preziosi ricordi: “… Questo grande uomo mi ha dato la libertà di essere chi sono…”

©Graciela Graciela Iturbide

Graciela inizialmente mostrò interesse per il mondo del  cinema frequentando il Centro Universitario di studi cinematografici presso l’Università del Messico, ma fu l’incontro con Don Manuel, di cui divenne assistente, a instradarla nel mondo della fotografia. Il Maestro allora sessantenne, non ancora giunto alle vette della fama, praticava una tecnica fotografica lontana dalla mobilità delle sequenze cinematografiche, usando il cavalletto e prediligendo le Immagini statiche. Graciela al suo fianco, durante le frequenti escursioni fotografiche, percepì e assorbì la passione di Alvarez, sviluppando una visione personale con la creazione di scatti originali che oscillano tra una visione documentaria ed una magicamente lirica. La morte di sua figlia Claudia nel 1970 la indusse a riflettere sul ruolo della fotografia,  il cui scopo non può limitarsi ad una  mera documentazione  rivolta alla produzione di immagini riprese direttamente dalla realtà. Per esorcizzare la paura della morte,  ben presente quotidianamente nell’animo del popolo messicano, la fotografa attinse ispirazione per i suoi scatti dagli angelitos, bambini defunti con indosso abiti bianchi, circondati da fiori e nastri. La ricerca e lo studio accurato di questa tradizione funzionò per lei come terapia, allontanandola gradatamente da sensazioni luttuose che la attanagliavano. Nel suo ritorno alla vita vissuta, la macchina fotografica diventò la sua compagna inseparabile, fornendole uno strumento utile per uscire dal proprio mondo luttuoso attraverso la vicinanza con altre persone, soprattutto gente semplice incontrata durante le diffuse feste di paese. Nelle immagini dalle inquadrature spesso decentrate, caratterizzate da un bianconero fortemente contrastato, immortala situazioni in cui si sente immersa e partecipe senza aver concepito un vero e proprio progetto a priori, ma abbandonandosi all’istinto, coinvolta dalla gioia di vivere e dall’allegria  dei suoi conterranei. ” In definitiva, penso che la fotografia sia un rituale per me. Partire con la mia macchina fotografica, osservare, catturare la parte più mitica dell’uomo, poi andare nell’oscurità, sviluppare, scegliere il simbolismo… “ (G. I.)

©Graciela Graciela Iturbide

Nei molteplici viaggi ha fotografato le persone e anche gli oggetti che più hanno attirato la sua attenzione principalmente in paesi come il Messico, ma anche la Germania, la Spagna, l’ Ecuador, il Giappone, gli Stati Uniti, l’India, il Madagascar, l’Argentina, il Perù e Panama. Togliendosi di dosso l’etichetta di appartenenza al realismo magico o alle correnti surrealiste a cui è stata spesso associata, Graciela Iturbide  spiega che a lei interessa conferire “un tocco di poesia e immaginazione”  a ciò che incontra nel suo girovagare, ricercando “ la sorpresa nell’ordinario”.

 I lavori incentrati sulla condizione delle donne nelle loro mansioni quotidiane, messe a fuoco al’interno di comunità messicane ricche di tradizioni legate ad un mondo prevalentemente arcaico, si impongono con una forza e talvolta con una crudezza che le rende emblematiche del loro stile di vita.  Di grande valore anche dal punto di vista sociale, la sua indagine sulle donne del Mozambico che pone l’accento in modo magistrale sulla lotta alle malattie che travagliano l’universo femminile. Anche il mondo animale affascina la Iturbide e famose sono le immagini inquietanti dei neri uccelli che solcano cieli biancastri in campagna o in zone urbane oppure le foto delle selvagge iguane di cui circa una dozzina albergano in precario equilibrio sopra i capelli corvini di una imponente signora fotografata in Juchitàn (Messico) nel 1979.

©Graciela Iturbide

Mujer Angel, Sonora Desert  ( 1979 ) è un’immagine paradigmatica della sua originale visione, costituendo un’estrema sintesi del suo lavoro: protagonista è  una donna indigena ripresa di schiena che si allontana di corsa da un paesaggio roccioso per lanciarsi verso una pianura desertica dall’aspetto quasi lunare con indosso un abito dalla foggia antica; a sorpresa, tiene nella mano destra una radio portatile, indicando le contraddizioni  e gli insanabili contrasti tra un mondo tradizionale arcaico ed un futuro tecnologico.

Graciela ci consegna una visione originale della società messicanam visione che, grazie alla profondità di analisi e al suo sguardo lirico e poetico, assume una rilevanza universale.

Bibliografia

Alfredo Lopez Austin e Roberto Tejada, Graciela Iturbide Image of the spirit, New York, 1996

Elena Poniatowska, Jughitán de las mujeres, Toledo, Mexico 1989

Graciela Iturbide, El baño de Frida Kahlo, galeria Quiroga, Messico 2009

Michel Frizot, Graciela Iturbide, Photo Poche – Actes Sud, 2011

  1. Graciela Iturbide – Italia | Profilo dell’artista | NMWA
  2. Mexico Photography: Graciela Iturbide | digitalartteacher
  3. La fotografa Graciela Iturbide: “Noto il dolore e la bellezza” | Fotografia | Il Guardiano (theguardian.com)
  4. Graciela Iturbide la più famosa fotografa messicana vivente (fotografaremag.it)

5. Graciela Iturbide: in Messico nella casa della fotografa progettata da suo figlio | Architectural Digest Italia (ad-italia.it)

Graciela Iturbide, autoritratto

Antonia Mulas, la gloria si fa inquieta.

La fotografa lombarda Antonia Buongiorno Mulas ( Barbianello 1939 – Milano 2014),

studente negli anni cinquanta  presso l’Accademia d’ Arte di Brera, nel famoso bar Giamaica – ritrovo ala moda  di intellettuali, scrittori, artisti e politici dell’epoca -, incontrò il fotografo Ugo Mulas che sposò nel 1958. Collaborando con lui  in modo proficuo e costante, il  loro studio/laboratorio divenne un fondamentale punto di riferimento per molti fotografi milanesi, fino alla prematura scomparsa di Ugo nel 1973. Dopo la morte del marito, Antonia si dedicò a riordinare il corpus fotografico che giaceva affastellato nel loro studio, organizzando un importante archivio, pubblicizzato su scala nazionale e internazionale.

Nonostante l’influenza di Ugo Mulas, Antonia seppe sviluppare in modo del  tutto autonomo una cifra stilistica tutta sua, di cui troviamo ampia dimostrazione nei reportage dai frequenti viaggi in vari paesi dell’Europa, Stati Uniti, Russia, Medio Oriente, Africa, Indocina. Al 1976 risale la sua prima opera di ricerca, dedicata al muro di Berlino che la fotografa ha sempre considerato come il suo più importante lavoro di documentazione:”. Dietro a questa parte di case c‘erano altre case, che poi, nel tempo, sono state cancellate e ricoperte dal muro di cemento… E dietro c’era questa misteriosa linea di morte. Se qualcuno passava, le armi automatiche si mettevano in funzione e sparavano…” (A.M)

 Al 1979 risale il libro San Pietro, pubblicato da Einaudi con la prefazione del critico e storico dell’arte Federico Zeri.

Mostrando una conoscenza accurata della storia e dell’estetica del periodo barocco, con i suoi scatti in bianco/nero fortemente contrastati, mette in evidenza ed esalta la magnifica e traboccante opulenza che caratterizza le decorazioni e le sculture della maggiore chiesa della cristianità trionfante. Come sostiene Federico Zeri, ad Antonia non interessa fornire all’osservatore una rassegna fotografica esauriente ed organica: “… Sorretto da un’attenta curiosità, vivace e sempre desta, il suo occhio, per fissare le proprie impressioni si serve dell’obiettivo fotografico, disponendone con estrema disinvoltura, con abilità eccezionale. C’è da rilevare infatti che nessuna delle riprese è stata condotta con l’aiuto di fari, riflettori o altri mezzi che non siano l’apparecchio e i suoi accessori…”(F.Z).  La fotografa non si rivolge a documentare tutti i celebri capolavori di cui la Basilica è ricchissima e la mancanza di uno scatto rivolto alla Pietà giovanile di Michelangelo, la dice lunga di quanto il suo sguardo sia originale e coraggioso rispetto all’estetica dominante in fotografia. Antonia  percorre con lo sguardo rivolto in alto le ampie navate della chiesa senza cercare punti di vista privilegiati: l’intento  non è quello di fornire corrette inquadrature frontali , ma immortalare le sculture secondo la loro particolare collocazione, scelta e voluta dagli artisti che le hanno create. Nelle fotografie di grande formato scattate tra il 1977 e il 1978, tutte rigorosamente a luce naturale, vediamo  un affastellarsi di ornamenti e figure umane che si intrecciano tra loro: santi, pontefici, figure femminili allegoriche, teschi , angioli paffutelli spesso deformati dalle riprese dal basso e non ultimi gli avvolgenti panneggi che conferiscono movimento ai marmi bianchi e colorati grazie a superfici concave e convesse,  a curve e controcurve, tanto care all’estetica barocca volta a glorificare la chiesa di Roma vittoriosa dopo la Controriforma.  Antonia Mulas non rimane però abbacinata solo dalla maestosità del più grande edificio della cristianità, perché attraverso complicati giochi di luci e ombre, riesce a mettere in evidenza anche il senso di inquietudine e di mistero che sprigionano alcuni corpi straziati dal dolore o trasfigurati dall’estasi, come ben si comprende attraverso particolari pregnanti di significato.

 Al lavoro su San Pietro, seguono altri importanti progetti che vedono Antonia impegnata ad immortalare opere d’arte dell’antichità greca e romana con un’attenzione particolare su temi erotici, oppure a scattare molteplici ritratti di personaggi influenti in campo artistico e culturale. Famose sono le sue  immagini pubblicitarie per grandi marchi come Fiat, Pininfarina, Poltrona Frau, Olivetti, Rank Xerox, e  le sue collaborazioni  per importanti riviste di architettura e di moda a livello europeo . Al 1983 risale la sua collaborazione con la RAI in qualità di regista e conduttrice di programmi di arte e cultura sul terzo Canale.

 Bibliografia:

Michael Grant, Antonia Mulas, Eros a Pompei, Mondadori, 1974

Antonia Mulas,Autoritratti 1977-1980,

Antonia Mulas, San Pietro, Einaudi ed.,Torino1979

Antonia Mulas,Marco Mulazzani, Architettura per Benetton. Grandi progetti per raccontare la cultura di un’azienda, Skira 2005

Sitografia:

Antonia Mulas Biografia (zam.it)ANTONIA MULAS. SAN PIETRO: LA GLORIA SI FA INQUIETA | GALLERIA SAN FEDELE, MILANO – Themaprogetto.it

Gabriele Cecconi, elegia Lodigiana.

Oggi vi presentiamo questo bellissimo lavoro di Gabriele Cecconi, spero vi piaccia!

Eric De Marchi

Gabriele Cecconi, classe 1985 è un fotografo Umbro che si dedica alla fotografia documentaristica interessandosi a tematiche culturali, politiche e ambientali.

Si è avvicinato alla fotografia dopo la laurea in giurisprudenza, ha realizzato diversi reportage fino al 2018, dopo di che ha iniziato a lavorare su progetti a lungo termine.

Il suo lavoro è stato esposto a livello internazionale, è stato pubblicato da giornali e riviste italiane e internazionali.

Parallelamente svolge ricerche sul rapporto tra cultura, potere e rappresentazione e sugli aspetti spirituali e pedagogici delle arti visive.

Elegia Lodigiana (2023)

Gabriele Cecconi è stato incaricato dalla commissione del festival della fotografia etica di Lodi per realizzare un’indagine visiva sul territorio lodigiano attraversando la storia di questa terra partendo dall’elemento che la contraddistingue più di qualsiasi altro, l’acqua;

Il lavoro si è svolto nel 2023 ed è durato diversi mesi, le immagini realizzate entreranno a far parte dell’archivio della provincia, quindi diverrà materiale storicizzato.

Il tema principale del progetto è stato quello dell’acqua in connessione con i cambiamenti climatici attuali, partendo dalla crisi idrica del 2022 che ha colpito duramente il nord-Italia, con conseguenze drammatiche sul tessuto economico-sociale dell’area.

Il progetto ha inglobato anche il tema della vita della civiltà contadina, con il potenziale rischio della perdita di questa tradizione nelle generazioni a venire con un accentramento sempre più intenso di grandi multinazionali rispetto a pochi agricoltori locali;

tema dal carattere intimo e intenso, nel quale il fiume è il protagonista della vita di tutti.

L’approccio del fotografo è stato dapprima lo studio del territorio a livello documentale, storico, dopo di che di perlustrazione e infine di contatto con le persone per la strada, nelle cascine, nei vari luoghi in cui ha avuto modo di conoscere ed avere accesso.

La provincia di Lodi ha una rete idrica di più di 2500 km di canali, sono più di 2000 anni che l’essere umano coltiva, si prende cura di questo territorio, dagli etruschi, ai romani

la parte sud della provincia è confinata dal fiume Po che è parte della mitologia greca e infatti il termine “Elegia” è un richiamo al componimento poetico, prima greco poi latino.

Visitando la mostra a lodi per il festival della fotografia Etica 2023, ho potuto notare che il fotografo ha concluso l’esposizione con un’immagine che è un pò sia il dato di fatto ma anche il punto di domanda per un futuro incerto di una provincia che sempre più si ritroverà a fare i conti con i disagi legati al cambiamento climatico e non solo.

SITOGRAFIA:

http://www.gabrielececconi.org/

https://www.perugiatoday.it/eventi/il-fotografo-cecconi-gabriele-presenta-la-sua-opera-fotografica-a-perugia.html

Tutte le immagini sono di proprietà dell’autore e non possono essere distribuite o vendute. Qui hanno solo scopo didattico informativo.

Cos’è la fotografia vernacolare?

L’espressione “fotografia vernacolare” è nata tra accademici e curatori, aprendosi poi a un utilizzo più ampio. L’idea della fotografia vernacolare fu anticipata già negli anni Sessanta da John Szarkowski, direttore della fotografia del Museum of Modern Art di New York dal 1962 al 1991. Szarkowski propose infatti di attribuire validità a quella che chiamava “fotografia funzionale” accanto al più consueto riconoscimento legato alla fotografia d’arte. L’idea era in anticipo sui tempi e non ottenne molto successo.
A Szarkowski si deve “l’invenzione” di Jacques-Henri Lartigue, che all’età di sessant’anni, nel 1963, consacrò il suo passaggio dallo status di dilettante a quello di artista nell’ambito della mostra al Museum of Modern Art di New York.

JACQUES-HENRI LARTIGUE (1894-1986) | Suzanne Lenglen, Nizza 1921 | Stampa alla gelatina d’argento, stampata verso il 1970, carta semiopaca a doppio peso. La tennista francese Suzanne Lenglen ha dominato tutte le competizioni del suo tempo, vincendo 25 titoli del Grande Slam tra il 1919 e il 1926. Il suo outfit, disegnato appositamente per Wimbledon, mostrava per la prima volta una sportiva con le braccia scoperte e con una gonna lunga solo fino al ginocchio.

Il direttore lo propose come un talento passato inosservato, presentandolo come un “vero primitivo”, un dilettante che non aveva “né tradizione né formazione”. Da questa vicenda, vediamo come l’analisi critica e la legittimazione varino a seconda del contesto in cui vengono presentate le opere, in base a chi decide di mostrarle e come.
Nel 2000, lo storico dell’arte Geoffrey Batchen ha usato l’espressione “fotografia vernacolare” per riferirsi a ciò che resta fuori dalla storia della fotografia: le fotografie ordinarie, della gente comune (dal 1839 a oggi), le fotografie che riguardano la famiglia, la casa e il cuore; raramente i musei e le gallerie d’arte.
Per Batchen, la fotografia vernacolare può anche essere affrontata da autori/fotografi professionisti. Con ciò, il suo intento era quello di attribuire un valore artistico anche a questo tipo di immagini, evitando di distinguerle da quelle che potremmo definire “fotografie d’arte”.
L’espressione “fotografia vernacolare” serve anche a porre l’accento sui contesti sociali che nella maggior parte dei casi non rivendicano alcun valore estetico o artistico, ma semplicemente riprendono aspetti ancora parzialmente trascurati della storia sociale della fotografia.
Volendo prendere in considerazione un possibile uso artistico della fotografia social, non possiamo non analizzare questa immensa quantità di immagini che costituisce un archivio infinito di spunti e di usi da parte di autori e fotografi che, per realizzare i propri progetti, attingono a fotografie pescate in internet. Basti pensare a Joachim Schmid, che si è appropriato di fotografie anonime, trovate nei mercatini, in archivi, per strada, utilizzandole nel suo lavoro Bilder von der Straße (1982 – 2012).

Joachim Schmid – No 217 Los Angeles March 1994 from Pictures from the Street 1982-2012

Altre immagini “rubate” in rete sono finite nel suo Other People’s Photographs (2008-2011), per quanto riproposte con modalità narrative differenti per attribuire un significato diverso al proprio progetto. Ho utilizzato il termine “rubate” in maniera volutamente impropria, visto che le immagini sono ancora esattamente nel medesimo luogo da cui sono state prelevate, ovvero internet. Forse sarebbe meglio dire che queste immagini sono prese “in affido” dagli artisti che le utilizzano.
Un altro esempio in questo senso è rappresentato da Erik Kessels, che in Useful Photography (la rivista che dirige dall’inizio del secolo) ricontestualizza immagini anonime utilizzate in manuali di istruzioni, cataloghi e libri di testo, mentre in Almost Every Picture induce a una riflessione sul modo in cui usiamo la fotografia nella vita quotidiana, nonché sulla natura ossessiva e ripetitiva delle fotografie che scattiamo.
Dal punto di vista dell’uso sociologico, questi lavori costituiscono un archivio meraviglioso sulla rappresentazione di se stessi e del rapporto con gli altri.

Erik-Kessels – Almost every picture -Friends-esposto a Duesseldorf- Fotografia di B.Babic

Se proviamo, infine, ad analizzare queste fotografie per provare a decodificare il costituirsi di un immaginario collettivo, esse sicuramente offrono un’idea più precisa di cosa sia oggi la cultura visuale, con una specificità molto più rilevante di quella messa in atto dalle poche fotografie considerate “artistiche” e “consapevoli” scattate anche da autori riconosciuti.

Da Troppa fotografia, poca fotografia | Riflessioni sui linguaggi contemporanei di Sara Munari

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Matt Black: American Geography

Nel 2015, il fotografo Matt Black è partito dalla sua casa nella Central Valley in California per scoprire e registrare la realtà della vita americana nelle comunità al di sotto della soglia di povertà. Nei sei anni successivi, ha attraversato il paese da costa a costa, visitando tutte le centinaia di luoghi al di sotto di quella divisione definita a livello federale in cui più di un americano su cinque vive in povertà. Nessuno di questi luoghi era separato da più di due ore di macchina.

Black ha percorso più di 100.000 miglia senza mai visitare tenere in considerazione la parte di paese dove l’aspettativa di vita era di 20 anni più lunga e il reddito più alto.

Parte della sua ispirazione per questo viaggio è nata dalle fotografie dell’era della Depressione di Dorothea Lange e dalle scritture di John Steinbeck. Quasi un secolo dopo, Black ha trovato innumerevoli storie che avevano i lineamenti di quella stessa disperazione. I giovani nelle anonime baracche polverose e nei parcheggi per roulotte che sputano sangue per vivere; le famiglie impossibilitate ad avere acqua pulita, sostentate dai buoni pasto. Parlando con l’Observer, all’inizio del suo viaggio, Black ha detto: “Tutte queste diverse comunità sono collegate, non da ultimo nella loro impotenza. Nei media mainstream, la povertà non è considerata come un problema legato all’America del nord, ma la situazione effettiva è differente. Non si considera perché non si adatta al modo in cui l’America vede se stessa.

L’epico libro di Black sulle fotografie del suo viaggio, American Geography, è un umiliante e potente correttivo di quella miopia.

Matt Black viene dalla Central Valley della California, un’area rurale e agricola nel cuore dello stato americano.

Altri suoi lavori sono: The Dry Land, sull’impatto della siccità sulle comunità agricole della California, e The Monster in the Mountains, sulla scomparsa di 43 studenti nello stato messicano meridionale di Guerrero. Entrambi questi progetti, accompagnati da cortometraggi, sono stati pubblicati da The New Yorker

Il suo lavoro è apparso regolarmente sulla stampa statunitense e internazionale, tra cui Time magazine, The New Yorker, Le Monde e Internazionale. È stato premiato tre volte dal Robert F. Kennedy Memorial Prize. Ha ricevuto il W. Eugene Smith Memorial Award nel 2015 ed è stato nominato senior fellow presso l’Emerson Collective. È stato nominato a Magnum Photos nel 2015 ed è diventato un membro a pieno titolo nel 2019.

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Per approfondire https://time.com/3958729/matt-black-geography-of-poverty/

Tutte le fotografie sono di proprietà dell’autore, l’articolo ha scopo didattico culturale.

Enrico Cattaneo, grande interprete della fotografia italiana

Articolo di Eric De Marchi

Enrico Cattaneo nasce a Milano nel 1933,

dopo gli studi scientifici, grazie alla madre che gli regala la prima fotocamera, si avvicina alla fotografia nel 1955, portando avanti una personale documentazione della città; i suoi scatti esaminano le case e le fabbriche, i mezzi di trasporto, l’accettazione e la rivolta, i momenti di solitudine e quelli di aggregazione dei lavoratori.

Professionista dal 1963, si dedica quasi esclusivamente alla riproduzione di opere d’arte lavorando per pittori, scultori, architetti, gallerie ed editori d’arte contemporanea; alcuni nomi con cui ha collaborato sono Tino Vaglieri, Gianfranco Ferroni, Sandro Leporini, Alik Cavaliere, Mauro Stacciali, Franco Somaini.

Enrico Cattaneo si trasforma in un vero e proprio interprete di quanto succede nel mondo artistico lavorando per  inaugurazioni, incontri, manifestazioni.

L’esplosione delle avanguardie dei gruppi di Fluxus e del Nouveau Réalisme lo vede come protagonista capace di trasformare il momento della documentazione in una reale testimonianza militante di quello che accade.

Le fotografie di Cattaneo assumono nel tempo una doppia vertenza: per un verso sono preziosa e spesso unica testimonianza dell’avvenimento e per l’altra, avendo una loro vita autonoma, a partire dai primi anni Settanta vengono esposte in gallerie e pubblicate in volumi.

Progetto GUERRIERI (1983)

Semplici attrezzi da lavoro di uso quotidiano diventano personaggi paragonati a combattivi guerrieri; una pinza, una tenaglia,un taglia capelli diventano dunque soldati mercenari, eroici Achei. Il realismo degli eventi e degli elementi lascia il posto a un simbolismo fantastico.

“Enrico Cattaneo, prima di scattare la fotografia, affronta un lento e meticoloso lavoro di scenografia e regista […]

Gli oggetti vengono reinventati dalla sua fantasia, decostruiti e rielaborati dalla sua fervida creatività. Rasoi, apriscatole, trinciapolli e tenaglie diventano antichi guerrieri […]

Gli attrezzi perdono completamente la loro logica funzionale ed entrano in un’altra dimensione, fuori dallo spazio e tempo”.

Michele Tavola  

“ Credo che la fotografia sia una forma espressiva molto vicina alla scultura. Si crea mentalmente una forma e poi ci si accanisce contro un pezzo di marmo o un sole o un viso che proprio non vogliono piegarsi al tuo racconto.

E giù col martello, con l’obbiettivo, la pellicola, il trapano cercando di andare con la propria verità a sopraffare la verità di un paesaggio, di un legno, di una faccia, di un blocco di cemento.

E non c’è mai un esultante “Eureka!” finale, ma soltanto un “va bene, così non c’è male”. ”

Enrico Cattaneo”Lo scalpello del fotografo”

ARCHIVIO ENRICO CATTANEO


Il Fondo Archivistico raccoglie complessivamente materiali relativi all’attività professionale di Enrico
Cattaneo nell’ambito della documentazione dell’arte contemporanea e della sua attività artistico-creativa
di opere fotografiche. Il fondo, in fase di organizzazione, è composto da raccoglitori contenenti fogli
provini e negativi in bianco e nero di formato principalmente 24×36 mm, buste contenenti negativi b/n
formato24x36mm, 6×6 cm, 6x9cm, lastre 10x12cm e 13x18cm, e contenitori contenenti diapositive a
colori nei diversi formati. Fanno parte del fondo anche stampe originali vintage (per lo più 30x40cm e
alcune 40x60cm) stampati a mano dall’autore, oltre a prove di stampa, cataloghi e pubblicazioni
riconducibili alle sue attività.

Sede della visita Casa Studio – Archivio Cattaneo via San Gregorio 44, Mi
Referente visita Alessia Locatelli/ Giuliano Manselli
Prenotazioni Telefonando 347 9638427

Alcune delle sue mostre basate su ricerche personali:

sperimentazioni Off Camera (Pagine 1970-73; Paesaggi/Chimifoto 1998-2002;  In Regress 1965-2009; Germinazioni 2016-17); Still Life (La foto del tubo 1980; Guerrieri 1982; Totem 1985-86; Maschere 1985-88; Attori 1985-86; La natura morta dei miei stivali 1996); archeologia industriale (La cartiera 1980; ex Magneti Marelli. Una possibile lettura 1997)

https://dromastudio.wixsite.com/arch-enrico-cattaneo/biografia

https://www.furori.it/project/enrico-cattaneo/

https://www.macn.it/it/collezione/cattaneo-enrico/

https://dromastudio.wixsite.com/arch-enrico-cattaneo

Le fotografie sono di proprietà dell’autore e sono utilizzate solo per scopo didattico informativo. Non sono state usate per scopi di lucro.

Catherine Opie, l’immagine dell’America contemporanea

Catherine Opie è nata a Sandusky, Ohio nel 1961. Opie indaga i modi in cui le fotografie documentano e danno voce ai fenomeni sociali nell’America di oggi, registrando gli atteggiamenti e le relazioni delle persone con sè stesse e con gli altri, e il modo in cui occupano il paesaggio contemporaneo. Al centro delle sue indagini ci sono domande legate alle relazioni con la comunità a livello sociale, che esplora a più livelli in tutti i suoi progetti fotografici.

Autoritratto con tagli autoinflitti


Lavorando tra approcci concettuali e documentaristici alla creazione di immagini, Opie esamina generi che variano tra foto scattate in famiglia – ritrattistica, paesaggio e fotografia in studio. Esegue spesso sorprendenti di immagini seriali con composizioni inaspettate. La sua ricerca riguarda argomenti anche radicalmente diversi che riesce però a trattare in parallelo. Molte delle sue opere catturano l’espressione dell’identità individuale attraverso gruppi (coppie, squadre, folle) e rivelano una connessione sottintesa con la sua storia personale che rispecchia nei suoi soggetti.

A 60 anni, Catherine Opie parla con grazia e forza che derivano da una vita trascorsa a forgiare il proprio percorso attraverso l’arte e a entrare in contatto con persone di ogni estrazione sociale, sia dietro la telecamera che davanti ad una classe. Come una delle principali fotografe della sua generazione, Opie ha raccontato le persone, i luoghi e la politica di Stati Uniti profondamente radicati nell’intersezione tra casa e identità, creando un ritratto intimo della vita americana contemporanea.

All’età di 13 anni, Opie si è trasferita dall’Ohio alla California ed è entrata al liceo come la “nuova ragazza”, piuttosto timida e incerta su come entrare in contatto con i ragazzi che sono cresciuti insieme. “Non ero brava a capire come fare amicizia”, ​​dice Opie.

Poi l’ispirazione l’ha colpita. Opie, che ha sperimentato la fotografia dall’età di nove anni, ha costruito una camera oscura e ha iniziato a fotografare i suoi amici durante le recite scolastiche. “Andavo a casa, stampavo le fotografie di notte e poi davo loro delle stampe”, ricorda Opie della sua esperienza formativa nel creare legami con nuovi gruppi. Le cose andarono a posto quando Opie trovò il suo ruolo di osservatore impegnato che poteva muoversi senza problemi tra i diversi gruppi.
Che si tratti di documentare movimenti politici, sottoculture queer o trasformazioni urbane, le immagini della vita contemporanea di Opie sono un ritratto dell’America contemporanea. l’autrice vorrebbe trasmettere idee che testimoniano l’importanza di “dell’apparenza in società”.

Nella sua città natale, Sandusky, Ohio, Catherine Opie vaga per le strade con la macchina fotografica, alla ricerca di quella che lei chiama “l’immagine artistica americana”. Visitando i siti della sua infanzia, Opie riflette su come le sue prime esperienze a Sandusky abbiano influenzato il suo approccio alla fotografia.

“È curioso che anche ora finisca per passare così tanto tempo da sola a fotografare”, dice Opie, “perché è ciò che ho sempre fatto anche da bambina”.


Catherine Opie ha ricevuto un BFA dal San Francisco Art Institute (1985), un MFA da CalArts (1988) e dal 2001 insegna all’Università della California, Los Angeles. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il President’s Award for Lifetime Achievement dal Women’s Caucus for Art (2009); Borsa di studio per artisti degli Stati Uniti (2006); Premio Larry Aldrich (2004); e il CalArts Alpert Award nelle arti (2003). Il suo lavoro è apparso in importanti mostre presso l’Institute of Contemporary Art, Boston (2011); Museo d’arte della contea di Los Angeles (2010); Museo Guggenheim, New York (2008); MCA Chicago (2006); e il Walker Art Center, Minneapolis (2002). Catherine Opie vive e lavora a Los Angeles, California.

Per approfondire: https://www.guggenheim.org/artwork/artist/catherine-opie

Tutte le immagini presenti nell’articolo sono e rimangono di proprietà di Catherine Opie e qui hanno solo scopo didattico informativo.