Giulia Bianchi ORDINATION: I THINK JESUS WAS A FEMINIST

Fotografia di Giulia Bianchi


Giulia Bianchi è una fotografa documentarista e insegnante di fotografia.
Nel 2010 ha frequentato il programma PJ dell’International Center Of Photography di New
York City si è iscritta all’Art Students League per studiare pittura a olio e ha iniziato a
frequentare corsi di filosofia, femminismo, arte ed estetica a Brooklyn.
Insegna fotografia in diverse scuole e associazioni tra cui Officine Fotografiche e Mohole a
Milano, Camera Torino, Nessuno Press a Brescia, Verona Fotografia, etc. Ha anche creato
un percorso formativo indipendente che si chiama IDA Fotografia.
La sua ricerca fotografica prende origine da una formazione umanista, indaga temi della
disobbedienza civile e del femminismo.

Fotografia di Giulia Bianchi


ORDINATION: I THINK JESUS WAS A FEMINIST
Progetto multimediale incentrato sulla disobbedienza religiosa, Giulia Bianchi lavora al
progetto dal 2012.
Nella Chiesa cattolica romana basata sul patriarcato, il sacerdozio è vietato alle donne,
l’articolo 1024 del codice del codice di diritto canonico prevede che solo un uomo battezzato
possa accedere al sacerdozio. Dal 2002, centinaia di suore e teologhe si sono fatte avanti e
sono state ordinate, costruendo un movimento mondiale chiamato RCWP (Roman catholic
women priests ). Nel 2010, la chiesa ha stabilito che il sacerdozio femminile è un crimine
grave quanto l’abuso sessuale nei confronti di minorenni;
la fotografa ha visitato 35 comunità negli Stati Uniti, in Canada e in Colombia con l’obiettivo
di creare un archivio storico di questo movimento; La documentazione offre una
contro-narrazione agli stereotipi religiosi e indaga la complessità della vita dei soggetti
scomunicati.

Fotografia di Giulia Bianchi


Le foto del progetto ci mostrano una realtà proibita che potrebbe però diventare il futuro
della Chiesa; ciò a cui si vuole porre attenzione è la spiritualità femminile e il tipo di comunità
che la leadership delle donne crea: inclusiva, non gerarchica, non dogmatica e aperta a
persone di ogni razza, genere e condizione economica.
Per realizzare il progetto Giulia ha mantenuto uno stile documentaristico, documentando la
vita delle donne con cui ha stabilito un accordo che proponeva di essere ospitata e vivere a
stretto contatto per almeno 2-3 settimane, avere quindi il permesso di fotografare ogni
momento della loro vita privata oltre che poter catalogare ogni oggetto, documento che
reputasse utile per creare un archivio di dati relativo a queste donne.
Questa tipo di fotografia, porta la fotografa ad immergersi completamente nello stile di vita
della persona fotografata, aiutandole a svolgere anche le mansioni quotidiane.
Nausicaa Giulia Bianchi, nel lavorare con queste donne ha cercato di immortalare il loro
modo di vivere il divino e la comunità, il loro modo di contribuire a rendere il mondo un posto
migliore lottando per raggiungere diritti paritari.

Fotografia di Giulia Bianchi


Per Diane Dougherty (persona fotografata da Giulia Bianchi), che ha dedicato la sua vita a
essere una donna sacerdote e attivista cattolica, la sua lotta non è solo per l’inclusione delle
donne e delle persone LGBTQ nella Chiesa, ma anche contro l’ingiustizia sociale, il
razzismo e le leggi anti-immigrazione al di fuori della religione.

Fotografia di Giulia Bianchi


In merito all’obbiettivo del progetto la fotografa dice:
“Questo progetto vuole davvero abbattere gli stereotipi sulle donne nella Chiesa e ascoltare
ciò che hanno da dire”… “Sfidiamo ciò che la Chiesa dice essere sacro, ciò che la Chiesa
dice essere puro. Ascoltiamoci l’un l’altro e riconosciamo che l’idea che le donne non siano
abbastanza brave per essere in una posizione di potere nella Chiesa, o che il loro corpo sia
vergognoso, o che non possano definire il cattolicesimo nei loro termini, è una stronzata”.

Sitografia:
https://www.giuliabianchi.com/bio
https://www.ulilearn.com/costruire-uno-sguardo-r
http://www.womenpriestsproject.org/preview
https://www.nationalgeographic.com/photography/article/portraits-from-the-forbidden-priesth
ood-of-women
https://www.vice.com/en/article/3dx3xb/giulia-bianchi-women-priests-interview
https://www.vogue.com/projects/13543313/roman-catholic-women-priest-movement-giulia-bi
anch

Articolo di Eric De marchi

Le fotografie sono di proprietà dell’autrice e sono condivise a solo scopo didattico culturale.

Primi avvistamenti di extraterrestri sulla terra

Primi avvistamenti di extraterrestri sulla terra

Ciao a tutti!

Ultimamente (negli ultimi quattro anni) mi sono concentrata molto sul far funzionare la mia scuola e questo mi ha allontanata dalle persone come autrice.

Volevo quindi raccontare un pochino meglio quello che sto facendo!

Non ho abbandonato il mio percorso autoriale che, di fatto sta andando benone! 

Dopo essere stata ferma, in termini di esposizioni, per gli anni del Covid, il lavoro è ripartito e il mio progetto Don’t le my mother know, sta girando molto. 

Il lavoro è in finale al Premio Paolo VI per l’arte contemporanea e volerà all’Istituto Italiana di Cultura a Belgrado durante il mese della fotografia, successivamente verrà proiettato ad Arles durante uno dei festival di fotografia più grandi del mondo, Les Rencontres de la photographie d’Arles. 

Per vedere il progetto qui 

Il 29 Aprile alle 17 avrò una visita guidata alla Collezione Paolo VI sul progetto Don’t let my mother knowIl

Primo contatto con X23

Il 5/6/7 Maggio terrò un workshop ad Ancona sullo stile fotografico, per informazioni

Successivamente, nello stesso Festival verrà esposta una mostra inedita su un lavoro scattato in Finlandia che parla di felicità.

Dal 14 Giugno sarò a Lanzarote a tenere un workshop sul racconto fotografico, tutte le informazioni qui

A luglio vi aspetto ad Arles l’8 luglio 2023 a La nuit de l’anee (the Night of the Year) Per ora basta, vi mando un abbraccio, grazie per avermi seguita fin qui!

Sara 

Il Pianeta Musa 23

Inge Morath: nel mio cuore voglio restare una dilettante.

 “Nel mio cuore voglio restare una dilettante, nel senso di essere innamorata di quello che sto facendo, sempre stupita dalle infinite possibilità di vedere e usare la macchina fotografica come strumento di registrazione”.

Nata a Graz in Austria nel 1923, cresce in una famiglia dell’alta società: entrambi i genitori, scienziati di fama, spesso costretti a trasferirsi in varie città d’Europa, crescono i loro due figli in modo libero e indipendente.  Laureata in  lingue romanze e linguistica generale, si mostra da sempre  poco interessata alla politica e ai problemi sociali, quindi tarda a comprendere la pericolosità del regime hitleriano. Quando la loro casa viene bombardata, la famiglia finalmente si rende conto di ciò che sta succedendo e decide di trasferirsi a Salisburgo: Inge li raggiunge insieme ad altri compagni sfollati, in un viaggio irto di difficoltà e complicazioni. Trasferitasi a Vienna, la giovane trova lavoro per i servizi di informazione statunitensi per poi entrare nella redazione della rivista Heute, dove svolge le mansioni a lei congeniali di giornalista e traduttrice: l’ambiente viennese,  ricco di curiosità e fervido di stimoli intellettuali contribuirà molto alla sua formazione. In seguito, con l’amico fotografo Ernst Haas, si recherà  a Parigi per assumere  il ruolo di redattrice all’interno dell’agenzia Magnum, senza impegnarsi minimamente a produrre lavori fotografici personali. L’approccio alla fotografia da parte di Inge Morath non è stato repentino, ma graduale: il suo innamoramento ha preso vita attraverso diverse esperienze che l’hanno formata e arricchita, ma una volta compresa la sua vera passione, le è rimasta fedele per tutta la vita.

SPAIN. Sevilla. 1987. Dancer’s skirt.

Mentre lavora come redattrice a fianco dei suoi amici fotografi, non sente la curiosità di avvicinarsi alla macchina fotografica di cui ha timore, forse per paura del confronto, ma quando, accompagnata dal marito – il giornalista inglese Lionel Birch – si trova in terra veneziana, affascinata dagli angoli più nascosti e dalla luce che si riflette nell’acqua creando giochi vibratili, non può fare a meno di imbracciare la macchina fotografica che per abitudine porta con sé senza mai scattare nemmeno una foto. Sollecitata da Robert Capa, direttore della Magnum, Inge  nell’autunno del 1951 comincia a fotografare la città lagunare, con pochissime competenze tecniche, ma guidata da curiosità e raffinata sensibilità: da quel momento, con la fedele Leica, comprata di seconda mano, decide di affrontare con coraggio il difficile percorso come fotografa professionista. Istintivamente sa capire al volo come si crea una storia e scegliere le immagini per meglio rappresentarla ed anche le inquadrature e la composizione non costituiscono per lei un problema.

USA. 1962. Saul STEINBERG Mask Series. ©Inge Morath/MAGNUM PHOTOS

Uno dei suoi primi e importanti lavori riguarda un servizio sui preti operai che ha seguito per diversi mesi, mettendo in risalto la loro vita in fabbrica e dietro l’altare: il reportage è apprezzato da Robert Capa, suo mentore, che la accoglie come membro effettivo della Magnum, affidandole l’incarico di realizzare le foto di scena del film Moulin Rouge del regista John Huston che diventerà suo grande amico. La frequentazione con Henri Cartier Bresson – di cui divenne assistente nel 1953 –  contribuì molto a sviluppare le sue competenze potenziando il suo amore per la fotografia, una fotografia senza orpelli, diretta all’analisi della realtà, ma con un’impostazione del tutto diversa dal grande maestro, sempre a caccia  di momenti irripetibili: Inge è più riflessiva ed ha bisogno di tempi più lunghi per produrre immagini di persone e luoghi immortalati con sensibilità, sobrietà e grazia. “La fotografia è un fenomeno strano.

USA. 1980. Playwright Arthur MILLER.

Ti fidi del tuo occhio, ma non puoi evitare di mettere a nudo la tua anima” (I.M.). Attratta dal fotogiornalismo, nel 1954 comincia a viaggiare in vari paesi europei, tra cui la Spagna che, nonostante il repressivo regime di Franco, la incuriosisce molto. I suoi lavori vengono pubblicati su importanti riviste, tra cui la famosa “Life” e raccolte in interessanti volumi. Affascinata dai volti umani e curiosa di conoscere ed esplorare dall’interno le varie culture, si reca in Iraq, Iran, Siria,  Giordania, Messico, Tunisia, Russia, negli Stati Uniti, sempre pronta a captare con occhio analitico, ma partecipato e sensibile le precipue caratteristiche delle civiltà che incontra nel suo cammino. Nel 1960, tappa  fondamentale della sua vita, è l’incontro sul set del film Gli Spostati con il drammaturgo Arthur Miller che due anni dopo diventerà suo marito.   Ancora interessanti lavori nascono dai suoi frequenti viaggi in Russia,  in Romania lungo il Danubio e nella sua terra madre, l’Austria, dove su incarico dei Reali realizza un lavoro fotografico sulla regione al confine della Slovenia da cui provenivanoi suoi antenati. Morirà a New York nel gennaio 2002, aggredita da una grave forma tumorale.

ISRAEL. Jerusalem. 1958. Inge Morath, Austrian photographer. Self-portrait.

INGE MORATH  (1923 –2002)

 Attualmente a Venezia, al Museo di Palazzo Grimani è in corso fino al 4 giugno, la mostra dedicata a Inge Morath dal significativo titolo: “Fotografare da Venezia in poi”

  Articolo di Giovanna Sparapani

INGE MORATH, La vita, la fotografia,Silvana editoriale, CiniselloBalsamo (Mi), 2019

Inge Morath • Photographer Profile • Magnum Photos

https://www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2023/01/inge-morath.

U.PHO.S. Unidentified Photographic Subjects

Unidentified Photographic Subjects

Per oltre vent’anni Mauro Fiorese ha documentato luoghi e situazioni al limite tra reale e immaginario. Ciò che lo ha spinto in quest’indagine è stata la necessità di andare oltre le informazioni visive in cui ci imbattiamo ogni giorno per scoprire, tramite la fotografia, nuove realtà.

Dopo un lungo periodo di ricerca iconografica, condotto sia su archivi amatoriali on-line che in archivi di Stato recentemente resi pubblici, l’autore ha intrapreso innumerevoli viaggi in remote località del nostro Pianeta con l’intento di produrre il primo archivio ufficiale di Soggetti Fotografici non Identificati (U.Pho.S.).

Le fotografie di Fiorese ci parlano contemporaneamente di presenza e di assenza: il soggetto fotografato è reale, in quanto esistente dinnanzi al fotografo nel momento dello scatto, ma rimane sempre e misteriosamente difficile da identificare. Si tratta infatti spesso di oggetti lontani dal nostro quotidiano oppure di oggetti comuni che, decontestualizzati, subiscono una trasfigurazione suggerendoci sensazioni inquietanti.

L’opera finale assume il significato di “prova fotografica”, in un’accezione quasi scientifica del termine, chiamata a testimoniare un momento solo cronologicamente e geograficamente definito.

Mauro Fiorese è stato autore e docente di fotografia per oltre vent’anni, ha tenuto corsi presso l’Accademia di Belle Arti e l’Università degli Studi di Verona, allʼIstituto Europeo di Design di Milano e alla University of Illinois at Urbana-Champaign.
I suoi lavori sono stati premiati ed esposti dal 1996 negli Stati Uniti, in Giappone, Canada, ed Europa, in gallerie private, istituzioni pubbliche, festival e rassegne internazionali inclusa la 54esima Biennale di Venezia. Le sue opere fanno parte di collezioni private e pubbliche internazionali (Museum of Fine Arts di Houston, Texas, Bibliothèque nationale de France di Parigi, Museo di Fotografia Contemporanea di Milano).
Negli Stati Uniti è stato inserito nella TOP 100 World Photographers list dellʼedizione 1997 dellʼErnst Haas/Golden Light Award e, nel 2012, ha esposto presso la George Eastman House di Rochester (New York), il primo e più importante museo americano dedicato alla Fotografia e al Cinema.
Ha organizzato diversi incontri sulla fotografia dʼautore e ha curato mostre di alcuni tra i più grandi maestri della fotografia contemporanea presso il Centro Internazionale di Fotografia “Scavi Scaligeri” del Comune di Verona.
Il suo progetto U.Pho.S. Unidentified Photographic Subject, è stato incluso nel libro “Dalla Fotografia d’Arte all’Arte della Fotografia” edito da ALINARI 24Ore ed esposto nel 2014 in occasione della 3.a Quadriennale di Düsseldorf.
Nel 2015 e 2016 tre nuovi traguardi: uno scatto del progetto Treasure Rooms si aggiudica il primo premio di Codice Mia, assegnato da una giuria internazionale; mentre nell’ambito di ArtVerona la Fondazione Domus acquisce Depositi della Galleria degli Uffizi – Firenze, 2014 e la Galleria d’Arte Moderna Achille Forti, con l’istituzione del Premio “Ottella For GAM”, un lavoro dal titolo Treasure Rooms degli Scavi di Pompei – Napoli 2015.
A gennaio 2016 è stato invitato come Cultural Leader al World Economic Forum di Davos.
Si spegne per una malattia nella sua Verona a soli 46 anni nel dicembre 2016.
Sulla sua vita è in lavorazione un docu-film.

Per andare al sito dell’autore vai qui

Per conoscere chi è Mauro vai qui

Le immagini hanno solo scopo culturale e didattico, rimangono di proprietà dell’autore.

Dima Gavrysh, zona di conflitto

Inshallah © Dima Gavrysh

Dima Gavrysh, nato a Kiev, Ucraina nel 1978, è un visual artist che ha scelto come mezzo per esprimersi la fotografia. Questa grande passione che ormai coltiva da più di due decenni lo ha portato da Detroit a Kabul e dalla Crimea alla Patagonia. Attualmente risiede a Portland, Oregon.

Dopo essersi laureato a Kiev nel 2000 come Director of Photography in Motion Picture Imaging, Master che, come lui afferma, gli ha insegnato a vedere fotograficamente, nel 2012 ha conseguito un secondo Master of Fine Arts presso la Rhode Island School of Design che lo ha aiutato a liberarsi del confinamento bidimensionale del frame e gli ha permesso di sviluppare il suo pensiero come autore e documentarista.[1]

A partire dal 1998 ha iniziato a collaborare con diverse testate ed agenzie in tutto il mondo. Inoltre ha lavorato a molti progetti in collaborazione con Medici Senza Frontiere ed il Fondo delle Nazioni Unite in Uganda, Senegal e Niger. Dal 2009 ha iniziato a lavorare ad un progetto che si proponeva di documentare la Guerra americana in Afghanistan per mezzo di video-installazioni, fotografie e dati concreti. Questo lavoro, Inshallah, prese la forma di un libro fotografico e venne pubblicato nel 2015 da Kehrer Verlag.[2]

In Inshallah, che in arabo significa “Se dio vuole”, Dima Gavrysh documenta l’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’esercito Sovietico ed Americano. L’autore, cresciuto nell’ex Unione Sovietica, è sempre stato esposto ad una presentazione idealizzata ed eroica della guerra, ideologia che trovava conferma nei numerosi ricordi della Seconda Guerra Mondiale che poteva osservare in film eroici, monumenti e celebrazioni annuali della vittoria. Una volta trasferitosi nel 2004 negli Stati Uniti ebbe modo di ritrovare in questa nuova terra un paese che aveva un complesso rapporto culturale con la guerra, così come lo aveva il suo paese nativo. Questo lavoro, Inshallah, si forma per mezzo di una visione molto personale dell’autore per quanto riguarda la guerra: qui intreccia tra di loro scene del fronte con ricordi dell’infanzia, fantasmi, sogni ed esperienze interculturali.[3]

Nel 2009, Dima Gavrysh, fu mandato per conto della Associated Press in Afghanistan al fianco dell’esercito degli Stati Uniti. Il lavoro è stato realizzato con immagini scattate con il suo iPhone, prediligendo il bianco e nero. La decisione di non usare la sua macchina fotografica lo ha aiutato nel prendere le distanze dalla sua routine di fotografia documentarista e a trovare il giusto modo per unire il reportage diretto della guerra cruda e la sua interpretazione personale. Molte immagini fanno capire come il fotografo abbia preferito immortalare frammenti di vita che normalmente non assoceremmo a una zona di conflitto. Grazie al sapiente uso di schemi, di ombre e di fughe di luce Dima Gavrysh costruisce un racconto sensibile ed introspettivo.

“I create a dark fairytale filled with my fears and dreams, based on my fascination with the army’s strength and order, set on the front lines of what has become America’s longest running war in history. Mesmerized by the complexity of the Afghan chaos, I strive to better comprehend my personal relationship to these wars: two empires, two mentalities, same battlefield, twelve years apart.”[4]

www.vimeo.com/121453786

TUTTE LE FOTO PRESE DA https://www.dimagavrysh.com/Inshallah

SITOGRAFIA

https://www.dimagavrysh.com


[1] https://www.dimagavrysh.com/Bio

[2] https://www.dimagavrysh.com/Bio

[3] https://collectordaily.com/dima-gavrysh-inshallah/

[4] Creo una favola oscura piena delle mie paure e dei miei sogni, basata sul mio fascino per la forza e l’ordine dell’esercito, in prima linea in quella che è diventata la guerra più lunga d’America nella storia. Ipnotizzato dalla complessità del caos afghano, mi sforzo di comprendere meglio il mio rapporto personale con queste guerre: due imperi, due mentalità, stesso campo di battaglia, a dodici anni di distanza.

https://www.dimagavrysh.com/Inshallah

Articolo di Ylenia Bonacina

Sonja Braas, la fotografa che ricostruisce scenari possibili

Sonja Braas è una fotografa tedesca, nata nel 1968 a Siegen. Dopo aver studiato Comunicazione Visiva, Fotografia e Design presso l’Università delle Scienze Applicate di Dortmund, si trasferì a New York per continuare gli studi presso la School of Visual Arts.

La fotografa tedesca ricostruisce scenari idealizzati all’interno di uno studio fotografico rifacendosi alla tradizione della pittura di paesaggio del XVIII secolo che posponeva la realtà della natura alla sua rappresentazione ideale.

Tutto, nelle sue fotografie, appare perfetto: in Tornado, ad esempio, la tromba di un uragano occupa il centro dell’immagine e ne divide il campo secondo le regole di composizione della sezione aurea; il colore scuro del cielo fa sì che il vortice d’aria risalti contro lo sfondo, esaltandone la plasticità. In Lava flow, il campo dell’immagine è suddiviso dalle colate di lava; si direbbero pennellate di giallo oro sullo sfondo nero di una tela.

Sonja Braas si è occupata fin dai suoi primi lavori di immagini artificiali della natura. Per la serie “You are here” ha presentato una serie di fotografie di paesaggi naturali “confezionati”, scattate in giardini zoologici o musei di scienze naturali e, accanto ad esse, ha posto delle foto di paesaggi “veri”: l’osservatore che si trova a confrontare queste immagini distingue con difficoltà la natura “vera” da quella “falsa”.  Le sue opere rimandano così alla concezione della natura tipica dell’uomo moderno, una concezione influenzata e profondamente caratterizzata delle immagini mediatiche. L’onnipresenza dei mass-media pone allora l’esigenza di una rappresentazione “autentica” delle catastrofi naturali. Con le sue fotografie, Sonja Braas si sottrae a questa richiesta e presenta provocatoriamente all’osservatore la rappresentazione di una rappresentazione.

Nella serie “The Quiet of Dissolution” Sonja Braas affronta la tematica della preoccupazione per la conservazione dei nostri ecosistemi e delle catastrofi naturali : una catastrofe si verifica quando si rompe un equilibrio e ciò può accadere o perché entra in gioco una nuova grande forza che causa la catastrofe nel sistema oppure perché una piccola causa interviene in una situazione di equilibrio instabile.

Le fotografie dell’artista non hanno niente in comune con le consuete immagini di terremoti, incendi, tornadi e inondazioni che ci vengono regolarmente proposte dai media. Siamo abituati a immagini in bassa definizione, spesso scattate con telefoni cellulari, oppure filmati vacillanti e quasi amatoriali. Al contrario, le immagini di catastrofi naturali create da Sonja Braas rinunciano a qualsiasi intenzione narrativa e trasmettono un senso di serenità; del tutto prive di contatto e contaminazione con il destino umano, appaiono colte in un tempo immobile. Il tornado non minaccia alcuna città e il fiume di lava può essere ammirato in tutta la sua maestosità poiché l’eruzione sembra assolutamente priva di conseguenze.  

Fotografate in primo piano estremo, quasi come se la fotocamera fosse proprio in mezzo a loro, le catastrofi di Sonja Braas non toccano la presenza umana, concentrandosi poco sull’effetto quanto sul fatto stesso. Immagini che rinunciano a qualsiasi intenzione narrativa, rappresentando i disastri nella loro bellezza spettacolare, come fossero immersi in un atmosfera estetica di tranquillità. 

L’osservatore è portato a chiedersi in che modo l’artista sia riuscita a scattare queste immagini e come abbia potuto spingersi così vicino al tornado e in che modo abbia posizionato la sua camera. Le immagini presentate dall’artista non provengono, infatti, da teatri di sconvolgenti catastrofi naturali, ma nascono nel suo atelier come modelli idealizzati del reale. Sonja Braas ci presenta delle fotografie di modelli di vulcani e tornado realizzati da lei stessa con straordinaria precisione, al fine di costruire immagini ideali e perfette che simulano eventi naturali.

«Le immagini, illuminate artificialmente da sorgenti luminose esistenti, sono state scattate in location in Virginia e Massachusetts. MI e MII sono immagini di set che ho costruito (fisicamente non digitalmente) nel mio studio a Brooklyn, New York».

Creare una reazione emotiva immediata è ciò che Braas immagina sulla modalità della fotografia. La parte centrale del suo lavoro è infatti generare sospetto nella percezione chi guarda.

Tutte le immagini sono di ©Sonja Braas, il post ha solo scopo didattico e divulgativo, le immagini non verranno usate per scopi commerciali.

Sitografia:

https://www.sonjabraas.com/

http://www.strozzina.org/manipulatingreality/braas.php

https://fotografiaartistica.it/sonja-braas-the-quiet-of-dissolution/

Articolo di Rossella Mele

Marianne Bjørnmyr, disegni, testi e culture antiche

Marianne Bjørnmyr (*1986) è un’artista norvegese che vive e lavora a Bodø, Norvegia.
Marianne ha conseguito un master in fotografia presso il London College of Communication.
Bjørnmyr si occupa di storia e culture perdute. Attraverso studi approfonditi di oggetti,
disegni e testi sulle culture antiche, ha accumulato una grande conoscenza di tracce
storiche.
La sua pratica fotografica si concentra sulla percezione dell’approccio della fotografia alla
realtà.

Quattro variazioni sugli elementi architettonici di Persepoli (522-330 a.C.), 2021, fotografia alla gelatina d’argento. Marianne Bjørnmyr


Attraverso la sua ricerca esplora i fenomeni del mito e il ruolo della fotografia nel trasmettere
la conoscenza di oggetti e ambienti, il tutto è contrapposto alla nostra comprensione,
interpretazione e percezione generata dell’immaginario;
ne è un esempio il suo ultimo progetto, Epitaph :
Partendo dal concetto, un epitaffio è una tomba commemorativa o una lapide, vista per
la prima volta nell’antico Egitto e in Grecia, successivamente trovata nelle chiese
europee dal Medioevo in poi fino ai nostri giorni.

Epitaph, Marianne Bjornmyr

Epitaph, Marianne Bjornmyr

Foto 1 Epitaph Il bellissimo scialle Sami in tessuto jacquard diventa un simbolo delle radici dell’artista a Sulitjelma. Marianne Bjørnmyr

Foto 2 Epitaph Quimbaya, 2021, calchi in gesso.Marianne Bjørnmyr


L’autrice crea oggetti inediti prima disegnati a computer, poi stampando in 3d modelli di
silicone infine riempie quest’ultimi con colate di gesso, così da arrivare al prodotto finito.
Questi oggetti, mescolano elementi di studio di manufatti, mai arrivati ai nostri tempi e un
grande sforzo immaginifico dell’autrice per far rinascere ciò che è stato perduto per
sempre.
La volontà dell’autrice è quella di portare le persone ad essere testimoni di questo
patrimonio scomparso, invita quindi alla consapevolezza di una memoria perduta.
Il medium fotografico in questo progetto acquisisce una funzione di testimonianza e di
interrogazione della realtà.
Molti degli oggetti in gesso sono stati fotografati e appesi con una cornice al muro, tra
cui una lapide ebraica distrutta durante la seconda guerra mondiale, o elementi
architettonici della città di Persepoli (522 – 486 aC).
I manufatti del progetto provengono da diverse aree geografiche e hanno un arco temporale
di oltre 2000 anni. Insieme, gli oggetti generano nuove storie, connessioni e letture delle
culture che rappresentano.
Le culture indagate spaziano fra quelle Maya e Azteche in Sud America, passando per i
Sumeri in Medio Oriente, Nok in Africa e gli ebrei europei vittime del nazismo, fino alla
radura Sami nella Norvegia settentrionale
Per l’artista, il fascino dei manufatti perduti è legato ai suoi antenati, la cui cultura,
lingua, abbigliamento e manufatti sami furono sradicati dalla politica di assimilazione del
governo norvegese nel 1800.
L’artista non mette in evidenza la drammaticità della perdita, invece presenta un lavoro
raffinato con oggetti e fotografie molto curati e di alta qualità artistica, così da rendere
l’esperienza esteticamente coinvolgente e porre attenzione più alla scoperta di questi
manufatti più che al dramma.
L’autrice è una professionista nell’utilizzo dello strumento fotografico, in questo progetto
utilizza una macchina analogica e stampa su carta alla gelatina ai sali d’argento che
restituisce immagini con tonalità di grigi morbidi.

Articolo di Eric De Marchi


Sitografia
https://www.mariannebjornmyr.com/
https://sekunst.no/kunstkritikk/Kunstkritikk-marianne-Bjornmyrhttps://www.lensculture.com/marianne-bjornmyr
https://www.melkgalleri.no/0322-marianne-bjornmyr-epitaph/
https://sekunst.no/kunstkritikk/Kunstkritikk-marianne-BjornmyrCV
https://www.mariannebjornmyr.com/filarkiv/2020/12/04/15fca33fca9f0d.pdf