Buongiorno a tutti, eccomi a proporvi una serie di piccole interviste fatte a fotografi più o meno giovani e conosciuti, italiani. Ho pensato fosse un buon momento per riflettere e capire la fotografia e i suoi utilizzi.
Alla domanda:
-Cosa sta significando, per te, fare il fotografo/a, poterti esprimere con la fotografia, in questo periodo così complicato?
-Che vantaggi, quali frustrazioni (se ci sono), a che scoperte ha portato?
Ognuno di loro ha risposto differentemente e ha mosso dubbi e consapevolezze che possono essere interessanti da capire.
Cercherò di farveli conoscere e apprezzare per il loro lavoro e per quello che hanno detto nelle interviste!
Ringrazio i fotografi e tutti quelli che vorranno seguirci in questa piccola avventura.
Mi chiamo Umberto Verdoliva, ho 59 anni, vivo a Treviso e lavoro a Napoli come tecnico di una impresa di costruzioni. Non sono un fotografo professionista e la fotografia da anni mi accompagna alla scoperta delle piccole cose del quotidiano, è come una passeggiata in riva al mare dove per rilassarmi raccolgo conchiglie colorate da tenere in un cassetto, quelle conchiglie sono attimi di vita che vale la pena, per me, conservare. Attraverso il cogliere momenti penso alla bellezza del mondo e a ciò che può elevarci nel flusso della vita. Anche un modo per lasciare tracce di me e per raccogliere quelle di altri, una fotografia che non cambierà mai le cose ma che forse, lo spero, potrà contribuire a dare valore alla nostra esistenza e a dire che la vita vale la pena di essere vissuta.
Mostre fantastiche vi aspettano a giugno. Ce n’è davvero per soddisfare ogni palato. Non perdetevele!
E qua trovate anche tutte le altre mostre in corso.
Anna
Paolo Pellegrin – Confini di Umanità
La mostra fotografica, realizzata appositamente per Pistoia – Dialoghi sull’uomo, propone sessanta scatti, in parte inediti, di uno dei fotografi più apprezzati nel panorama mondiale, grazie al suo impegno e all’innovativa estetica documentaria. Realizzate in Algeria, Egitto, Kurdistan, Palestina, Iraq e Stati Uniti, le immagini sono accompagnate da un video dello stesso Paolo Pellegrin, realizzato in America per indagare le linee razziali che ancora dividono il Paese, confini invisibili ma ancor più insormontabili di quelli fisici. Le immagini coprono un arco temporale di quasi trent’anni, sviluppando, per sottrazione e opposizione, l’impervio percorso della convivenza, ostacolata da muri, guerre, mari in tempesta e deserti, ovvero tutte le frontiere, naturali e artificiali, visibili e invisibili, che dividono, imprigionano e isolano gli esseri umani. La mostra ci conduce dunque lungo i confini dell’umanità, per mostrare lo sforzo continuo, ma necessario, alla base della convivenza. Catalogo edito da Contrasto.
dal 24 maggio al 30 giugno – Palazzo Comunale Pistoia
La mostra è una
grande monografica di David LaChapelle, uno dei più noti fotografi e registi
contemporanei a livello mondiale.
I suoi soggetti
sono celebrities (i fratelli Michael e Janet Jackson, Hillary Clinton e Muhammad
Ali, Jeff Koons e Madonna, Uma Thurman e David Bowie…), insieme agli scatti
delle sue recentissime ricerche che lo hanno portato a sviluppare una
dimensione più privata e filosofica, i valori assoluti.
La religione, la sensualità e la sessualità, il passare del tempo, il rispetto per la natura: il tutto è svolto nella maniera onirica, linguaggio tipico del fotografo americano, ma che sempre fa i conti con la dimensione reale perché, al contrario delle apparenze, tutto ciò che compare in queste immagini è il frutto di una ricostruzione reale, molto lontana dalle ricostruzioni digitali.
Dal 14 giugno al 6 gennaio 2020 – Citroniera delle Scuiderie Juvarriane – Reggia di Venaria (TO)
Completamente dedicata alla fantasiosa iconografia delle giostre, questa mostra, sfaccettata e divertente, è anche pensosa, e vuole suscitare nel pubblico un vero e proprio effetto-giostra, tra il gioco più semplice e genuino che rimanda all’infanzia e la riflessione sulla vita, sul tempo che passa, sul mondo che gira, sul destino.
A proporla (Palazzo Roverella, dal 23 marzo al 30 giugno 2019) è la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo insieme al Comune di Rovigo e all’ Accademia dei Concordi, per la cura di Roberta Valtorta, con la collaborazione di Mario Finazzi per il percorso riservato alla pittura.
“Il Polesine, anticipa il Presidente della Fondazione, prof. Gilberto Muraro, è da sempre terra di giostre e giostrai. Qui, e in particolare nel territorio di Bergantino, vengono realizzate giostre destinate ai parchi di divertimento e agli spettacoli viaggianti di tutto il mondo. Ed è con il Museo della Giostra e dello Spettacolo Popolare di Bergantino che questa nostra mostra idealmente si coniuga. In una unione complementare: il Museo indaga il passato di una grande tradizione. La mostra legge il tema della giostra in chiave soprattutto sociale, affidandosi a grandi fotografi e a grandi artisti che l’hanno declinato nelle loro opere”. In mostra, infatti, vengono proposte immagini di giostre grandi e piccole, così come sono state raffigurate soprattutto in fotografia, ma anche in pittura, grafica, nei numerosissimi giocattoli, nei modellini, fino ai carillon. Presenti in mostra anche “pezzi” di antiche giostre come organi e cavalli di legno. La struttura della giostra è stata infatti ampiamente rappresentata in mille forme di straordinari giocattoli meccanici per bambini ma anche per adulti, dalle forme articolate e varie, talvolta carillon, talvolta orologi e soprammobili, divenuti nel tempo oggetto di collezionismo.
L’ampia sezione di fotografie comprende opere di più di sessanta importanti fotografi dall’Ottocento a oggi. Tra questi, le immagini ottocentesche di Celestino Degoix e di Arnoux; quella della Parigi dell’inizio del Novecento di Eugène Atget e dei Frères Seeberger; le fotografie degli anni Quaranta-Sessanta di Henri Cartier Bresson, Mario Cattaneo, Cesare Colombo, Bruce Davidson, Robert Doisneau, Eliot Erwitt, Izis, Mario Giacomelli, Paolo Monti, Willy Ronis, Lamberto Vitali, David Seymour; per l’epoca contemporanea, le immagini di Bruno Barbey, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, John Batho, René Burri, Stefano Cerio, Raymond Depardon, Luigi Ghirri, Paolo Gioli, Guido Guidi, Jitka Hanzlovà, Guy Le Querrec, Raffaela Mariniello, Bernard Plossu, Pietro Privitera, Francesco Radino, Ferdinando Scianna.
La mostra è arricchita da una selezione di importanti opere pittoriche e da manifesti di fiere di paese e sagre popolari. Importante l’installazione dell’artista contemporanea Stephen Wilks “Donkey Roundabout” e il film di Adriano Sforza “Jodi delle giostre”, vincitore del David di Donatello 2011.
dal 23 marzo al 30 giugno 2019 – Palazzo Roverella – Rovigo
Mutty, in collaborazione con Micamera presenta la mostra A Trilogy di Jessica Backhaus. Una mostra che investiga i temi universali delle origini, dei desideri, dell’identità e del destino. Basandosi sulla sua storia personale, l’autrice si fa domande sull’importanza di conoscere le radici della propria esistenza e su quanto sia possibile rielaborarle.
Jessica Backhaus è nata nel 1970 a Cuxhaven, in Germania, in una famiglia di artisti. A sedici anni si trasferisce a Parigi dove studia fotografia e comunicazione visiva. Qui nel 1992 incontra Gisèle Freund, fotografa della Magnum e grande personaggio della cultura, che diventa sua grande amica e affezionata maestra. Nel 1995, la passione per la fotografia la porta a New York, dove lavora come assistente di diversi fotografi, sviluppa i propri progetti personali e vive fino al 2009. E’ considerata una delle voci più originali nel panorama della fotografia contemporanea.
Gli ultimi due libri di Jessica Backhaus segnano due momenti fondamentali nella carriera dell’autrice. Six Degrees of Freedom è l’espressione della ricerca delle proprie radici. Dopo il rientro in Europa dagli Stati Uniti, Backhaus decide di scoprire l’identità del padre biologico. Ne ha origine un lavoro particolarmente intenso: l’uso del colore carico di sentimenti, tipico di tutta la sua produzione, vero e proprio segno distintivo, assume qui una valenza particolarmente drammatica, seguendo l’autrice nel percorso di ricostruzione delle proprie origini.
Avviene in questo lavoro un passaggio fondamentale: Backhaus (che usa solo luce naturale) inizia a intervenire spostando gli oggetti nello spazio. Ricollocando gli oggetti, sembra voler riprendere in mano il proprio destino.
E’ l’inizio di una trasformazione che A Trilogy conferma, procedendo verso una sempre maggiore astrazione. Il volume contiene tre serie differenti: Beyond Blue, Shifting Clouds e New Horizon che saranno in mostra nello spazio espositivo di Mutty.
L’artista sarà presente all’inaugurazione della mostra venerdì 24 maggio alle ore 19.30
25 maggio – 21 giugno – Mutty – Castiglione delle Stiviere (MN)
In occasione di Milano Photoweek la Fondazione Sozzani dedica una grande mostra alla fotografia di Roger Ballen, uno tra i fotografi contemporanei più originali che indaga l’invisibile. Roger Ballen sarà presente all’inaugurazione della sua mostra
dal 9 giugno 2019 al 8 settembre 2019 – Fondazione Sozzani – Milano
USA. New York. American actress Marlene DIETRICH at Columbia records’s studios. Part of a sequence showing Marlene Dietrich during a recording session when she was 51 years old, with her famous World War II songs including Lilli Marlene. 1952 Images for use only in connection with direct publicity for the exhibition “Women” by Eve Arnold presented at Abano Terme, Italy, from May 17th to December 8th 2019.
Che si tratti delle donne afroamericane del ghetto di Harlem, dell’iconica Marylin Monroe, di Marlene Dietrich o delle donne nell’Afghanistan del 1969, poco cambia. L’intensità e la potenza espressiva degli scatti di Eve Arnold raggiungono sempre livelli di straordinarietà. La fotografa americana ha sempre messo la sua sensibilità femminile al servizio di un mestiere troppo a lungo precluso alle donne e al quale ha saputo dare un valore aggiunto del tutto personale.
A questa intensa interprete dell’arte della fotografia, la Casa-Museo Villa Bassi, nel cuore di Abano Terme, dedica un’a ampia retrospettiva, interamente centrata sui suoi celebri ed originali ritratti femminili. Quella proposta in Villa Bassi dal Comune di Abano Terme e da Suasez, con la curatela di Marco Minuz, è la prima retrospettiva italiana su questo tema dedicata alla grande fotografa statunitense.
Eve Arnold, nata Cohen, figlia di un rabbino emigrato dalla Russia in America, contende ad Inge Morath il primato di prima fotografa donna ad essere entrata a far parte della Magnum. Furono infatti loro due le prime fotografe ad essere ammesse a pieno titolo nell’agenzia parigina fondata da Robert Capa nel 1947. Un’agenzia prima di loro, riservata a solo grandi fotografi uomini come Henri Cartier Bresson o Werner Bischof.
Ed è un caso fortunato che le due prime donne di Magnum siano protagoniste di altrettante retrospettive parallele in Italia entrambe promosse per iniziativa di Suazes: la Morath a Treviso, in Casa dei Carraresi, e ora la Arnold ad Abano Terme in questa mostra.
A chiamare Eve Arnold In Magnum fu, nel 1951, Henri Cartier -Bresson, colpito dagli scatti newyorkesi della fotografa. Erano le immagini di sfilate nel quartiere afroamericano di Harlem, a New York. Quelle stesse immagini rifiutate in America per essere troppo “scandalose”, vennero pubblicate dalla rivista inglese Picture Post.
Nel 1952 insieme alla famiglia Eve Arnold si trasferisce a Long Island, dove realizza uno dei reportage più toccanti della sua carriera: “A baby’s first five minutes”, raccontando i primi cinque minuti di vita dei piccoli nati al Mother Hospital di Port Jefferson. Nel 1956 si reca con un amica psicologa ad Haiti per documentare i segreti delle pratiche Woodoo.
Chiamata a sostituire il fotografo Ernst Haas per un reportage su Marlene Dietrich, inizia la frequentazione con le celebreties di Hollywood e con lo star system americano. Nel 1950 l’incontro con Marylin Monroe, inizio di un profondo sodalizio che fu interrotto solo dalla morte dell’attrice. Per il suo obiettivo Joan Crawford svela i segreti della sua magica bellezza. Nel 1960 documenta le riprese del celebre film ”The Misfits”, “Gli spostati”, con Marylin Monroe e Clark Gable, alla regia John Houston e alla sceneggiatura il marito dell’epoca di Marylin Arthur Miller.
Trasferitasi a Londra nel 1962, Eve Arnold continua a lavorare con e per le stelle del cinema, ma si dedica anche ai reportage di viaggio: in molti Paesi del Medio ed Estremo Oriente tra cui Afghanistan, Cina e Mongolia.
Fra il 1969 e il 1971 realizza il progetto “Dietro al velo”, che diventa anche un documentario, testimonianza della condizione della donna in Medio Oriente.
«Paradossalmente penso che il fotografo debba essere un dilettante nel cuore, qualcuno che ama il mestiere. Deve avere una costituzione sana, uno stomaco forte, una volontà distinta, riflessi pronti e un senso di avventura. Ed essere pronto a correre dei rischi.» Così Eve Arnold definisce la figura del fotografo. Benché il suo lavoro sia testimonianza di una lotta per uscire dalla definizione limitante di “fotografa donna”, la sua fortuna fu proprio quella capacità di farsi interprete della femminilità, come “donna fra le donne”.
17 Maggio 2019 – 08 Dicembre 2019 – Abano Terme (Pd), Casa Museo Villa Bassi
MAGNUM’S FIRST. LA PRIMA MOSTRA DI MAGNUM
La mostra Gesicht der Zeit (Il volto del tempo) venne presentata tra il giugno 1955 e il febbraio 1956 in cinque città austriache ed è la prima mostra indipendente organizzata dal gruppo Magnum. Se ne era persa completamente la memoria sino al 2006, quando nella cantina dell’Istituto Francese di Innsbruck vennero ritrovate due vecchie casse, contenenti i pannelli colorati della mostra su cui erano montate ottantatre fotografie in bianco e nero di alcuni fotografi della Magnum, insieme al testo di presentazione, ai cartellini con i nomi dei fotografi, alla locandina originale e alle istruzioni dattiloscritte per il montaggio della mostra stessa. I responsabili di Magnum Photos, prontamente avvisati del ritrovamento, si sono immediatamente resi conto dell’eccezionalità della scoperta. Si trattava di una rassegna collettiva ordinata e omogenea di otto tra i più grandi maestri del fotogiornalismo. Gli autori delle foto erano tra i più celebri fotoreporter dell’agenzia: Robert Capa, Marc Riboud, Werner Bischof, Henri Cartier-Bresson, Erns Haas, Erich Lessing, Jean Marquis e Inge Morath. Gli scatti fotografici sono stati sottoposti ad un intervento di pulitura e tutti i materiali originali sono stati restaurati. Dopo oltre cinquant’anni la prima mostra Magnum è tornata così visibile al pubblico ed è stato possibile ricostruirne la storia.
Probabilmente la mostra fu organizzata dopo che il gruppo Magnum, nel maggio 1955, aveva preso parte alla Biennale Photo Cinéma Optique al Grand Palais a Parigi, che aveva suscitato un notevole gradimento. Dopo quel primo successo, l’agenzia decise di collaborare con l’Università di Parigi per organizzare una mostra indipendente. Nacque forse così l’idea di Gesichte der Zeit (Il volto del tempo). La mostra divenne itinerante: dopo la prima tappa tenutasi all’Istituto Francese di Innsbruck si è spostata a Vienna, a Bregenz e poi a Graz. Tappa finale è stata probabilmente la Neue Galerie a Linz. Da qui le foto della mostra sono state restituite a Innsbruck nel febbraio del 1956, forse in vista di una tappa ulteriore, ma li sono rimaste sino al ritrovamento nel 2006.
Insieme all’esposizione di Werner Bischof presso la Galleria St. Annahof di Zurigo del 1953 e a quella dei fotografi Magnum alla fiera Photokina di Colonia del 1956, delle quali nulla è rimasto, la mostra Gesichte der Zeit (Il volto del tempo) è la prova che, sin dall’inizio, la Magnum era diversa dalle altre agenzie fotografiche. Con il fitto programma di mostre ed eventi, la Magnum mostrò infatti chiaro l’intento di difendere sia il valore della foto come documento sia il valore artistico degli scatti dei fotografi dell’agenzia.
Dal ritrovamento del 2006 la rassegna, con il titolo Magnum’s First, è stata allestita in diverse città europee, e viene anche oggi riproposta qui nel suo allestimento originario.
L’esposizione è realizzata in collaborazione con Magnum Photos, col patrocinio del Comune di Milano e il sostegno di Rinascente.
Una mostra che risveglia le coscienze e fa riflettere: questo è il proposito di 13 storie dalla strada. Fotografi senza fissa dimora, visitabile dal 28 maggio fino al 1 settembre alle Gallerie d’Italia di Milano.
Un viaggio dalla periferia al cuore della città
Tutto nasce dai workshop di fotografia per senzatetto organizzati dalla onlus Ri-scatti in collaborazione con Fondazione Cariplo: tra di loro c’era chi teneva in mano la macchina fotografica per la prima volta e chi, dopo tanto tempo, ritornava a usarla, ne ritrovava i segreti e la potenza espressiva.
Il passo successivo è stato chiedere ai fotografi che avevano partecipato ai workshop di documentare la realtà di Fondazione Cariplo – un patrimonio di persone e di progetti in continua evoluzione – e di affidare a loro il racconto della propria identità.
Puoi vederne i risultati nel nostro museo di Milano: 52 immagini inedite scelte tra i 9.800 scatti che i 13 autori hanno realizzato nel corso di un anno, fotografando 13 progetti scelti fra i 1.500 che Fondazione Cariplo porta avanti ogni anno (la comunità allegra di un orto urbano, il volo di un acrobata, un appartamento dove vivono ragazzi disabili, il volto di una scienziata).
Qualcuno dei fotografi senza fissa dimora è arrivato fino alla fine di questo percorso, qualcuno si è perso per strada, lasciandoci solo le sue immagini: è stato un percorso emozionante che ha incrociato fragilità e speranze, paure e orizzonti.
Una prospettiva che ha unito l’atto del raccontare a quello del raccontarsi: oltre alle immagini saranno proiettate nella mostra le video-interviste ai fotografi. Una testimonianza che illumina le vite di persone che ogni giorno attraversano l’anima periferica, fragile, marginale di Milano. Vincendo la loro ritrosia, i 13 protagonisti hanno accettato di svelare chi sono, dove trascorrono la giornata, dove mangiano, come si lavano, chi hanno perso per strada, quali luoghi chiamano casa, che cosa desiderano e che cosa hanno ritrovato osservando il mondo con la macchina fotografica.
Dal 28 maggio fino al 1 settembre 2019 – Gallerie d’Italia – Milano
Il 14 giugno 2019 alle h19:00 il fotografo Magnum Photos
Chris Steele-Perkins presenta a Magazzini Fotografici il suo progetto _JAPAN_
Una mostra a cura di Laura Noble, direttrice della L A Noble Gallery.
Il forte legame che il fotografo Chris Steele-Perkins ha
con il Giappone è nato molti anni fa e si è consolidato con le sue 48 visite al
paese. In questi suoi numerosi viaggi si sono susseguite esperienze ed avvenimenti
di varia natura, tra cui il tragico tsunami del Tōhoku del 2011.
Il Giappone è un luogo di contraddizione, molto legato
alle antiche tradizioni ma allo stesso tempo artefice costante di nuove
tendenze, che vanno dalla moda alla tecnologia, adottate da tutto il paese con
un entusiasmo sfrenato.
Per noi occidentali le usanze giapponesi risultano essere
completamente estranee al nostro modo di vivere e di conseguenza assumono un
fascino particolare.
Le città e le comunità rurali regalano al paese atmosfere
e ambienti completamente diversi tra loro. Le luci al neon sempre accese di
Tokyo sono vivaci e sorprendenti ma nel frastuono della città, la silenziosa
maestà del Monte Fuji appare sempre presente, immobile e senza tempo.
Steele-Perkins, con il suo progetto Japan, celebra questa
deliziosa combinazione di bello e bizzarro e racconta i molti strati di una
cultura ricca di tradizione e nuove tendenze.
Abitudini, sport, modi di vestire diversi si alternano tra la radicata cultura conservatrice e il moderno culto della stravaganza. Questo strano e particolare equilibrio ci permette di godere della peculiare natura di una nazione molto diversa dall’Occidente e della sua immensa ricchezza culturale.
Dal 14 giugno al 13 luglio – Magazzini Fotografici – Napoli
A partire dal 2004 più di 3.500 casi di abusi su minori commessi da preti e membri della Chiesa sono stati riportati al Vaticano. Nel 2014 un report delle Nazioni Unite ha accusato il Vaticano di adottare sistematicamente azioni che hanno permesso a preti e membri della Chiesa di abusare e molestare migliaia di bambini in tutto il mondo.
Centinaia di casi sono stati registrati, e continuano ad essere registrati, in Italia, dove l’influenza del Vaticano è più forte che altrove, e pervade vari livelli della società.
Spesso gli abusi cadono nel silenzio, i casi vengono nascosti, le vittime hanno paura di far sentire la loro voce. Hanno paura della reazione delle persone, dei loro cari, dei loro amici, delle comunità nelle quali vivono. Le vittime sono barricate in un silenzio agonizzante, non vogliono far sapere nulla delle violenze subite.
Costrette a vivere con un peso che si porteranno dietro tutta la vita, incapaci di dimenticare il passato.
Le ferite sono profonde, le memorie pesanti, i silenzi assordanti.
“Confiteor (Io Confesso)” è un viaggio di due anni in queste memorie, in queste ferite, in questi silenzi.
Dal 24 maggio al 14 giugno – Officine Fotografiche Roma
Mussolinia or how Sicilians cheated Fascism – Filippo M. Nicoletti
How Sicilians cheated Fascism «Mussolinia non esistiva. O meglio, esistiva ma in fotografia» (Andrea Camilleri, Privo di Titolo).
Mussolinia è il progetto di una città che doveva nascere nei pressi di Caltagirone, ma che non venne mai realizzata se non tramite fotomontaggio per ingannare il Duce. Photo book e mostra di Filippo M. Nicoletti, a cura di Laura Davì.
Inauguriamo la mostra MUSSOLINIA or How Sicilians cheated Fascism e celebriamo la Festa della Repubblica italiana con un confronto fra giovani generazioni su immagini e parole. Filippo M. Nicoletti, con un lavoro molto attuale, rimette in discussione il concetto di fake news in relazione a un passato collettivo recente. L’inaugurazione di Mussolinia è fissata per domenica 2 giugno dalle 11.30 alle 13.00, quando è previsto un confronto tra giovani generazioni su un passato che non passa, sulle fake news e sul ruolo delle immagini piegate a usi utilitaristici secondo convenienza; dialogano con l’autore Filippo M. Nicoletti, Irene Guandalini, curatrice indipendente esperta di fotografia e immaginari contemporanei, e Simone Pisano di Lapsus – Laboratorio di analisi storica del mondo contemporaneo. Modera la curatrice Laura Davì.
dal 3 al 9 giugno – SGallery – Milano
ZAKHEM | FERITE | WOUNDS. LA GUERRA A CASA | WHEN WAR COMES HOME
In occasione del suo venticinquesimo compleanno, EMERGENCY organizza ‘Zakhem|Ferite|Wounds. La guerra a casa|When war comes home’, una mostra fotografica di Giulio Piscitelli, realizzata da EMERGENCY con il supporto di Contrasto.
Piscitelli (Napoli, 1981), che ha visitato i nostri Centri chirurgici per vittime di guerra a Kabul e Lashkar-gah, ha dato a quelle vittime un volto e un nome, ha scoperto le loro storie. Storie che parlano di una violenza che irrompe nella vita quotidiana, senza preavviso. Storie che mostrano la ferita – zakhem, si dice in dari – provocata dalla guerra.
Le ferite fisiche causate dai proiettili e dalle schegge sono al centro del racconto fotografico, ma si vedono anche le ferite più profonde, quelle psicologiche. I dittici diGiulio Piscitelli mostrano la forza del popolo afgano e trasportano i soggetti in un mondo quasi irreale, illuminato, in una fissità senza tempo né spazio, nella verità della guerra di sempre e ovunque. Il suo lavoro ha reso queste ferite comprensibili, semplici, potenti ed eloquenti.
La mostra sarà inaugurata mercoledì 15 maggio alle ore 19.00, con una conversazione tra Giulio Piscitelli, fotografo, Gino Strada, fondatore di Emergency, Rossella Miccio, Presidente di Emergency e Giulia Tonari, curatrice della mostra e direttrice Contrasto. L’evento sarà moderato da Fabrizio Foschini, analista Afghanistan Analyst Network.
Dal 16 maggio al 9 giugno – Casa Emergency – Milano
Nella Project Room di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, verrà inaugurata giovedì 30 maggio, alle ore 18.00, la mostra personale di Irene Kung (Berna, 1958) intitolata Monumenti, curata dal direttore dell’istituto torinese, Walter Guadagnini.
A partire dalla giustapposizione di immagini appartenenti a due serie fotografiche precedenti, Le città invisibili (2012) e Trees (2014), Kung compie una selezione visiva che ricompone un’indagine al tempo stesso introspettiva e sociale sul paesaggio, sia esso urbano, archeologico o naturale. Tali elementi sono per l’autrice svizzera come fondamenti puri della visione che, spogliati dal disturbo visivo generato dalle forme di progresso e dall’incuria umana, si presentano allo spettatore come ritratti aulici che emergono dall’oscurità. Nelle diciotto opere di grande formato esposte in questa occasione, alberi, antiche rovine e architetture contemporanee assumono un carattere salvifico, diventano monumenti contemporanei che – grazie al potere dell’estetica e alla forza dell’immagine – annullano il tempo e ordinano il caos con la loro armonia costruttiva.
Formatasi in ambito pittorico, Kung ha adottato la fotografia come medium privilegiato della propria produzione artistica da circa un decennio, sfruttando la sua formazione non solo per impreziosire la componente lirica ed emotiva della sua ricerca artistica, ma anche quella gestuale ed istintiva. L’essenzialità delle inquadrature e la capacità di far emergere i suoi soggetti dall’oscurità, infatti, esprimono una vicinanza stilistica e concettuale al Rinascimento pittorico italiano: i suoi lavori evidenziano il desiderio razionale di individuare nuove strade possibili per un futuro sostenibile e la rinnovata attenzione all’equilibrio tra umano e naturale. Allo stesso tempo le composizioni di Kung evidenziano per contrasto l’ambiguità dell’urbanizzazione e della negligenza umana, facendo emergere dalla bellezza una sottile inquietudine. Descrivere la sofferenza attraverso una rappresentazione raffinata e onirica è – dichiara la Kung – un tentativo di generare un nuovo significato a partire dalle percezioni di un’esperienza emotiva, è un’astrazione che mi conduce dalle zone più in ombra alla dimensione meditativa, fino agli spazi inconsci dell’anima.
30 maggio – 28 luglio 2019 – CAMERA Centro Italiano per la Fotografia – Torino
Inaugura
martedì 7 maggio 2019 alle 18.30 la mostra di Massimo Sestini “L’aria del
tempo” presso Forma Meravigli a Milano. In contemporanea sarà presentato
il libro a cui la mostra si ispira, edito da Contrasto. L’esposizione, a cura
di Alessandra Mauro, resterà aperta fino al 4 agosto.
Come
fotogiornalista tra i più importanti e apprezzati del nostro paese, Massimo
Sestini è in grado di realizzare sensazionali scoop da prima pagina. In tanti
anni di lavoro Sestini ha puntato molte volte l’obiettivo sulla nostra penisola
e, col tempo, ha realizzato un preciso e appassionato itinerario alla scoperta
del nostro paese. A Forma Meravigli saranno esposte circa 40 fotografie
di grande e medio formato, che l’autore ha realizzato immortalando l’Italia in
modo inusuale e accattivante. Dall’alto.
Fatti
di cronaca, bellezze naturali, drammi, avvenimenti politici, tragedie e momenti
di svago: è riuscito a raccontare tutto con la sua macchina fotografica e tutto
con un punto di vista nuovo e diverso.
Le
immagini in mostra, alcune di grande formato, permettono di vivere e di sentire
le visioni aeree ed eteree dei luoghi che l’autore ci propone. Sempre alla
ricerca della “foto diversa”, nel corso degli anni Sestini ha perfezionato il
suo metodo fino alla ripresa perpendicolare che gli permette di ottenere un
impatto dimensionale amplificato. Con la visione zenitale il fotografo gioca
nel capovolgere le nostre percezioni visive, fa navigare la Concordia
spiaggiata, ribalta cielo e terra inseguendo un Eurofighter, osa nelle
proiezioni delle ombre animate.
Dall’alto
di un elicottero o di un aereo, attraverso la visione completa di un fatto di
cronaca (il barcone dei migranti fotografato dal cielo: un’immagine che ha
fatto storia e ha vinto numerosi premi come il prestigioso World Press Photo, o
ancora l’affondamento della Costa Concordia all’isola del Giglio), di una
consuetudine (il ferragosto sulla spiaggia di Ostia), di un dramma naturale (il
terremoto del Centro-Italia), di avvenimenti storici e culturali (dalla strage
di Capaci al funerale del Papa), nelle immagini di Sestini l’Italia svela in un
modo unico le sue bellezze, le sue fragilità, la sua grandiosa complessità.
Nato a Prato nel 1963, Massimo Sestini è considerato tra i migliori fotoreporter italiani. I primi scoop arrivano a metà anni Ottanta, da Licio Gelli ripreso a Ginevra mentre è portato in carcere, all’attentato al Rapido 904 nella galleria di San Benedetto Val di Sambro. Sarà il solo a riprendere il primo, clamoroso, bikini di Lady D; ma sarà anche testimone della tragedia della Moby Prince, e autore delle foto dall’alto degli attentati a Falcone e a Borsellino. Nel 2014 è testimone delle operazioni di salvataggio “Mare Nostrum”, al largo delle coste libiche. Dopo dodici giorni di tempesta, riesce a riprendere dall’elicottero un barcone di migranti tratto in salvo. La foto vince il WPP nel 2015, nella sezione General News.
Dall’8 maggio al 4 agosto – Forma Meravigli – Milano
Dal 10 maggio al 27 luglio 2019, 29 ARTS IN PROGRESS gallery di Milano (Via San Vittore 13) presenta in prima assoluta la più vasta retrospettiva sulla fotografia istantanea di Gian Paolo Barbieri intitolata “Polaroids and more”, a pochi mesi dal premio ricevuto ai Lucie Awards 2018 di New York come miglior Fotografo di Moda Internazionale.
La mostra, curata da Giovanni Pelloso, riunisce una selezione di oltre 120 Polaroid inedite e traccia per la prima volta l’uso della fotografia istantanea di Gian Paolo Barbieri negli ultimi trent’anni; un percorso articolato che abbraccia i ritratti e gli studi di figura, la moda e i suoi protagonisti, svelandone i segreti e i retroscena. Per quanto aderente alla realtà possa essere, la fotografia di moda per Barbieri è scenario, spettacolo, teatro, bellezza, metafora e realtà. Al centro di questa scena, animata spesso da una ludica e irriverente ironia, c’è la donna. Non mitizzata, la sua immagine rispecchia la profonda convinzione dell’autore che il mistero dell’universo femminile non debba mai essere completamente rivelato. In questo atteggiamento vi sono il rispetto e l’ammirazione per l’eterna e, nello stesso tempo, mutevole bellezza, ma anche la consapevolezza della ricchezza della sua personalità e delle sue innumerevoli metamorfosi. Le immagini risultano fantastiche e magiche, oniriche e ludiche, ironiche e teatrali. Sono istantanee seducenti. La superficie bidimensionale della stampa fotografica diventa, grazie alla sensibilità del fotografo milanese, un “oggetto di fascino”, uno stimolante invito all’immaginazione e alla fantasia, un territorio che cattura lo sguardo e che richiama il lettore a decifrarne i misteri.
Le Polaroid di Gian Paolo Barbieri non solo raccontano il making of della fotografia di moda per le più grandi maison di sempre, ma lasciano trasparire sguardi intimistici rivolti a soggetti diversi, dalla più iconica top model all’autoctono polinesiano. Un secondo corpo di opere è dedicato, infatti, agli indigeni colti nel loro habitat naturale, a nudi audaci concepiti spesso come lavori preparatori, e ai fiori, grande passione dell’artista.
Molte di queste piccole icone trasferiscono tenerezza e vulnerabilità, altre, durezza e immediatezza. A differenza delle immagini rigorosamente ideate e concepite in studio e per le quali Barbieri è diventato famoso nel mondo, queste disarmanti fotografie sono contrassegnate dalla spontaneità e dall’invenzione, offrendo nell’insieme un’inedita visione della sua straordinaria carriera.
Un’altra anteprima assoluta in mostra sarà una selezione di nuovi lavoriispirati all’opera di William Shakespeare, a cui Barbieri lavora da circa tre anni, nel quarto centenario della sua scomparsa: «Come mi è sempre piaciuto fare – ricorda l’autore – attingo dal passato per guardare al futuro».
Dal 10 maggio al 27 luglio 2019 – 29 ARTS IN PROGRESS gallery – Milano
Luigi Ghirri ci ricorda che il non vedere nitidamente crea una incertezza e distrugge ogni presunzione dello sguardo. Un vetro, una superficie opaca trasparente, un velo, le ombre chiuse, offrono anche la possibilità di non vedere, ed è grazie a questo diaframma che l’occhio può ritrovare quella veggenza negata dall’eccesso di visibilità. Uno schermo trasparente che separa creando dubbi così come i volti nascosti nella oscurità delle ombre, possono restituire senso alle immagini con il vantaggio di alludere ed illudere lasciando immaginare. Le fotografie esposte portano con sé tale ricerca. L’intento è quello di far soffermare l’osservatore sul mistero e sul fascino ambiguo che le immagini trasmettono già al primo sguardo, suggerendo, attraverso una stratificazione visuale, una sorte di incanto.
J’AI PLUS DE SOUVENIRS QUE SI J’AVAIS MILLE ANS – Pietro Baroni
La Mostra Fotografica “J’AI PLUS DE SOUVENIRS QUE SI J’AVAIS MILLE ANS” di Pietro Baroni, dopo essere stata a New York, Firenze e Bologna, viene presentata da Leica Camera Italia per la prima volta anche a Roma.
Emozioni, pensieri e desideri nascosti di persone comuni messe a nudo davanti all’obiettivo.
“Ho dentro più ricordi che se avessi mille anni” scrisse Baudelaire né “I Fiori del Male”. Il titolo della mostra vuole indicare che nella vita si provano emozioni così intense, che ci sembra di aver vissuto più della nostra vera età.
Grazie a questa ispirazione, Baroni è riuscito a far emergere i pensieri inconfessabili, le paure e le insicurezze più profonde che ci portiamo dentro tutti i giorni, senza rendercene conto. Tutti abbiamo paure e insicurezze che non abbiamo voglia che gli altri vedano. O che ci piacerebbe possano vedere per poter essere aiutati. Sono così profondamente intime che non sono visibili al mondo esterno. Ma ce le portiamo dietro tutti i giorni, addosso, sulla pelle.
Con questo lavoro Pietro Baroni ha reso leggibile ciò che ci è tatuato addosso ma che solitamente non viene visto. Ha chiesto alle persone che ha ritratto di entrare in empatia con queste paure, insicurezze e pensieri per catturarli in un instante.
Con questo lavoro Baroni ha vinto numerosi premi e menzioni internazionali tra cui si segnalano IPOTY – International Photographer of the Year, PX3 Prix de la Photographie Paris, Black&White International Award Rome, MonoVision Photography Awards. Lens Culture lo ha eletto nel 2017 come Emerging Photographer of the Year premiando questo progetto.
Dal 5 giugno al 7 luglio – Leica Store Roma
London Street Photography
In esposizione una collezione di immagini, inedite in Italia, opera di giovani street photographer internazionali selezionati nel 2018 nell’ambito dell’importante rassegna londinese. In collaborazione con Camera Work London. La mostra resterà aperta fino al 19 giugno e sarà visitabile durante gli eventi del calendario di Spazio Lomellini 17, il mercoledì alle ore 18 su prenotazione a lasettimanale@gmail.com e per gruppi di almeno 10 persone in orario da definirsi su prenotazione a lasettimanale@gmail.com
Dal 30 maggio al 19 giugno 2019 – Spazio Lomellini 17, Genova
C’è chi vede il notturno nella cometa di Giotto, o chi ne la Liberazione di San Pietro di Raffaello, oppure chi quasi in tutta l’opera di Tintoretto, o anche nei Due uomini che contemplano la luna di David Caspar Friedrich o poeticamente in Alla Luna di Giacomo Leopardi, quando non nella cromia blu dorata di Whistler, oppure chi nelle stelle solari di Van Gogh, o nelle opere dei futuristi Balla e Boccioni. Potremmo andare ancora avanti e indietro dall’alba al tramonto e da lì nella notte di nuovo verso l’alba nello stendere la lista delle opere d’arte che hanno come soggetto o ambientazione la notte dall’alba dell’umanità a oggi. Certamente la notte è stata molto corteggiata dai romantici, epoca in cui nasce il notturno (nocturne en français), come opera per prima musicale, una forma di musica libera, dolce e moderata che si riallacciava alla serenata: Chopin ne scrisse 21, Beetohoven ci allieta con la sonata Chiaro di luna, anche Satie e Debussy non si sottrassero all’impresa. Ma anche la letteratura non si è fatta mancare la notte e il notturno come Theodor Amadeus Hoffmann oppure ancora Leopardi con il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e, per chi non lo sa, l’invito della presente mostra Notturno Più è mutuato dalla prima copertina del libro Notturno una raccolta di pizzini intimistici scritti a mano con gli occhi bendati a causa di ferite dal Vate Gabriele D’Annunzio. È in questa grafica evocativa che abbiamo inscritto informazioni e nomi degli artisti della mostra Notturno Più. Sono sulle cui opere poter tornare con l’immaginazione e il ricordo nella notte, in quello spazio tempo di confine in cui l’immaginazione si allarga confidenzialmente con le poetiche di Mario Airò, Atelier Biagetti, Laura Baldassari, Bertozzi & Casoni, Michel Courtemanche, Meriella Bettineschi, Tommaso Binga, Stefano Cerio, CTRL ZAK, Eteri Chkadua, Jan Fabre, Patrick Jacobs, Ugo La Pietra, Lorenzo Marini, Maria Teresa Meloni, Alessandro Mendini, Aldo Mondino, Francesca Montinaro. Fabio Novembre, Maurizio Orrico, OVO, Paola Pivi, Sarah Revoltella, Jonathan Rider, Andrea Salvatori, Denis Santachiara, Federico Solmi, Giuseppe Stampone, Patrick Tuttofuoco, Vedovamazzei, Alice Visentin.
Ma il nostro non è solo notturno è Notturno Più, in quanto la notte e il notturno sono intesi anche nella forma del Blues e del Jazz; non soltanto perché musica dell’anima, ma per la possibilità di jam session che offre soprattutto la seconda. Dunque, si tratta di una mostra che è di forma libera e dolcemente moderata, intesa come uno spartito musicale e allestita in modalità di scrittura di scena come amava dire Carmelo Bene. Una scrittura – mostra in cui ogni artista entra ed è mostrato con la sua e per la sua opera differente e diversa per componimento di una visione collettivamente diversificata con le proprie poetiche uniche e complesse come quelle originarie di Mario Airò, del lusso ospitale dell’Atelier Biagetti, o i ritratti dalla fisiognomica nascosta della pittura lisergica di Laura Baldassari, il realismo ceramico di Bertozzi & Casoni, l’abilità plastica di Michel Courtemanche, il doppio sguardo femminile di Mariella Bettineschi, l’alfabeto femminista di Tomaso Binga, i non luoghi fotografici di Stefano Cerio, il progetto rovesciato di CTRL ZAK, la pittura testimonianza dei miti e della quotidianità della Georgia di Eteri Chkadua, la malinconica metamorfica ora blu di Jan Fabre, i minuziosi e silenti diorami lillipuziani di Patrick Jacobs, le critiche riflessioni architettoniche paesaggistiche di Ugo La Pietra, gli alfabeti cromaticamente e futuristicamente mobili di Lorenzo Marini, i dettagliati e studiati all’antica ritratti fotografici di Maria Teresa Meloni, i segni-decoro astratto-futuristi di Alessandro Mendini, le illuminanti ironiche sculture di Aldo Mondino, le piante in vaso che nascondono sculture di ambienti migranti di Francesca Montinaro. La progettualità tirata verso l’inutile di Fabio Novembre, i dipinti astratto-informali di Maurizio Orrico, il progetto precariamente cartonato di OVO, l’energia espansivamente segnica di Paola Pivi, i ritratti scultorei delle famiglie polarizzate di Sarah Revoltella, le discrete e quasi invisibili sculture ambientali di Jonathan Rider, i vasi cosmici di Andrea Salvatori, il progetto animato-figurato di Denis Santachiara, le esuberanti, chiassose e ironiche opere di Federico Solmi, i disegni responsabilmente etici di Giuseppe Stampone, la rilettura dei codici visivi quotidiani alla luce della multidisciplinarità di Patrick Tuttofuoco, gli ironici e strafottenti paesaggi di Vedovamazzei, le pitture giocosamente sciamaniche di Alice Visentin.
Con queste diversità di trentuno artisti la mostra è una coralità espressiva di poetiche, tecniche, materiali che formano quel Notturno Più, dove quel più che non è più solo quello della notte, ma del giorno e della notte insieme che, come la nostra vita, non possono essere più solo solitari, anche perché questo è un group show, una pratica espositiva in cui bisogna essere almeno in due, l’uno e l’altro, per dirsi tale, iniziando quella comunità dell’arte che qui conta 31 altri, 31 artisti dalle innumerevoli opere a noi, come a loro, necessarie sia di giorno che di notte da trovare nel Notturno Più.
8 Maggio-15 Giugno 2019 – THE POOL NYC a PALAZZO CESARI MARCHESI – Venezia
Inaugura martedì 4 giugno 2019 alla Galleria Anna Maria Consadori la mostra “Milano – Arte Pubblica” inserita all’interno della terza edizione di Milano Photo Week, la rassegna interamente dedicata alla fotografia che coinvolgerà tutta la città.
Coerentemente all’indirizzo artistico della galleria, che promuove l’arte e il design del XX secolo, l’esposizione presenta il lavoro di Matteo Cirenei, fotografo di architettura e paesaggio urbano, che negli ultimi quattro anni si è dedicato a un progetto che indaga la costituzione dell’immaginario culturale rispetto a ciò che è “spazio pubblico”, e cos’è “arte pubblica”.
L’ambito in cui sono collocate le opere è parte della città, per questo motivo Il progetto vuole porre in risalto il dialogo con l’ambiente che le circonda: le opere d’arte infatti aggiungono qualità visiva a un ambiente costruito, e un’attenta strategia di progettazione urbana promuove un più alto livello di integrazione tra arte, architettura e paesaggio. Milano negli ultimi anni sta riqualificando molto il proprio tessuto urbano, migliorando notevolmente gli spazi pubblici promuovendo la mobilità alternativa e come conseguenza valorizzando le aree verdi e quelle pedonali.
dal 4 al 8 giugno 2019 – Galleria Anna Maria Consadori – Milano
Giovane artista tra le più interessanti del panorama italiano, Alessandra Calò porta alla galleria Artesì una mostra in cui i suoi tre progetti più recenti si ricollegano uno all’altro in un unico racconto intorno alla ricerca dell’identità e al recupero delle memorie del passato.
Parlare di fotografia per definire il lavoro di Alessandra Calò è sempre un po’ riduttivo, perché se dalla fotografia parte, il risultato va molto oltre, attingendo agli ambiti della scultura e dell’installazione. Come accade nel progetto Secret garden, presentato al pubblico come un paesaggio di scatole nere illuminate: una serie di lightbox dedicati a figure femminili del passato. Per la realizzazione, l’artista parte da lastre negative originali, recuperate nei mercatini, raffiguranti donne, bambine e ragazze. Persone sconosciute e consegnate all’oblio a cui Alessandra decide di restituire una storia anche grazie alla collaborazione di poetesse e scrittrici che dedicano a ogni figura un breve scritto. L’abbinamento con l’elemento vegetale (da cui l’ispirazione per il titolo), posto all’interno dei lightbox e visibile solo in trasparenza, dona nuove letture all’immagine, spezzando la continuità della visione ed enfatizzando la tridimensionalità di quei piccoli solidi scuri che si trasformano in vere e proprie “scatole nere” delle memorie perdute.
Ancora al passato – e in particolare a due pioniere della fotografia come Constance Talbot e Anna Atkins – fa riferimento il progetto Les inconnues. Qui, però, il percorso dell’artista è a ritroso. Partendo da volti femminili vintage trovati sul web, Alessandra costruisce lei stessa delle lastre in negativo, per poi stamparle su cristallo. L’elemento vegetale torna qui sotto una forma diversa, e duplice. Da un lato, isolato, va a sovrapporsi al viso; dall’altro, enormemente ingrandito, funge da pattern su cui la figura si appoggia, una figura che ingaggia con lo spettatore un suggestivo gioco di sguardi.
Kochan, infine, è il più strettamente fotografico tra i progetti in mostra, e anche il più autobiografico, anche se il viso e il corpo dell’artista – che qui si autoritrae per dettagli – è simbolo di un corpo universale. Ispirato alla dolorosa scoperta del proprio sé più autentico condotta dal protagonista delle Confessioni di una maschera di Yukio Mishima – da cui la serie prende il nome – il progetto vede la sovrapposizione dei frammenti della figura a una serie di vecchie carte topografiche dalla collezione della Public Library di New York. Mappe, però, che l’artista parzialmente cancella, di cui rende incerte le collocazioni e i confini, comunicandoci un senso di incertezza e di spaesamento. (Alessandra Redaelli)
dal 18.05.2019 al 16.06.2019 – Galleria ArteSI – Modena
Le foto di Cig Harvey, per la prima volta in mostra in Italia presso la Galleria del Cembalo dal 30 maggio al 6 luglio, sono visioni reali, istantanee della sua vita nel Maine.
Nonostante i soggetti delle sue foto siano persone e luoghi a lei familiari, gli scatti li ritraggono nel momento in cui risultano quasi irriconoscibili all’artista. È una fotografia che guarda al reale ma crede fermamente ci sia in ‘una luce particolare o nella sfumatura di un tramonto qualcosa di nuovo da scoprire’. In questi scatti predomina la convinzione che il medium fotografico catturi già di per sé una componente magica e inaspettata e che l’uso del colore la restituisca nella realtà – per come la vediamo.
Se il marito Doug, la figlia Scout, i suoi amici, i vicini di casa e la loro vita quotidiana siano i soggetti di questi scatti o tasselli di un puzzle più grande che restituisce un autoritratto della fotografa stessa è una domanda su cui il suo lavoro pone fortemente l’accento.
Per Cig Harvey, l’immagine è una dicotomia tra forma e contenuto che non può essere scissa, e la fotografia non riproduce, ma racconta. La storia è il susseguirsi di persone della comunità a lei cara e del Maine, le sue stagioni e le ombre dei suoi rami, i quadrifogli verdeggianti e le farfalle colorate. C’è una scelta accurata e meditata di ciò che viene posto davanti l’obiettivo ma Cig Harvey lavora nell’immediatezza di quello che accade, con la consapevolezza che tutto può accadere.
L’atto del fotografare è sentito ed irripetibile, un espediente che l’artista utilizza, quasi in modo catartico, per bilanciare ciò che accade nella sua vita. Ecco il motivo per cui questi lavori, realizzati in momenti di serenità, possono risultare a tratti drammatici, come l’immagine che ritrae una donna con un cappotto rosso in un piccolo giaciglio in una distesa di neve bianchissima oppure lo sguardo compassionevole di Scout di fronte al cormorano senza vita.
I lavori presenti appartengono a progetti differenti, tra cui You Look At Me Like An Emergency (2012), Gardening at Night (2015), You an Orchestra You a Bomb (2017) e quello più recente, ancora in corso, Pink is a Touch. Red is a Stare.
dal 30 maggio al 6 luglio – Galleria del Cembalo – Roma
“Tempo e Sospensione” è il titolo della mostra che vede sei artisti presentare una decina circa di lavori ciascuno tra pittura e fotografia in un serrato dialogo e confronto tra loro e lo spazio che li ospita. La mostra inaugura il 12 giugno e si conclude il 15 ottobre 2019 presso Annunciata galleria d’arte che, presente dal 1939 sul territorio milanese e non solo, (Milano è stata infatti un centro propulsivo di idee progettiste e artistiche e luogo privilegiato di scambi culturali fecondi a livello internazionale, oggi nuovamente in ripresa) racconta da allora il pensiero dell’arte ad opera di maestri di culture diverse, tenuti insieme dallo stesso periodo storico, quello del XX secolo. Ciò che caratterizza la migliore arte del XX secolo è essenzialmente la necessità di riflettere su se stessa e di fondare l’elaborazione dell’oggetto artistico su basi intellegibili: l’oggetto richiede allo spettatore di partecipare con la sua sensibilità, con il suo personale pensiero al gioco dell’arte e per ottenere questo risultato deve mostrare agli altri com’è fatto. Avanguardie che come tali si sono fatte tradizione, per lasciare posto a nuove leve, ad altre posizioni, capaci di consolidare il risultato ottenuto e di perpetuare quello stato di eccitazione innovatrice. La storia dell’Annunciata dunque, portavoce di un Tempo senza tempo, di una memoria continua, di uno stato di eterna Sospensione creativa, chiama a sé sei artisti emergenti che con la loro personale visione e cifra linguistica
raccontano del loro intimo sguardo sul nostro tempo, il XXI secolo. Ciascuno
esprime un interesse sincero verso quegli aspetti della condizione umana che
possiedono validità universale, contribuendo a stabilire in certa misura un
continuum con ciò che è stato nella storia dell’arte ed ognuno dando al
linguaggio un proprio peso ed incidenza. Tra loro c’è chi si sofferma
maggiormente sulla ricerca di un linguaggio inedito e fortemente personale
(Elena Santoro; Luisa Pineri), raccontando quindi più di sé, del proprio mondo
interiore, altri che, mettendo meno in risalto la questione del linguaggio, si
orientano a rivelare dimensioni della realtà che riguardano tutti (Pietro di
Girolamo; Donata Zanotti); altri, infine, che mescolano queste due componenti,
linguaggio audacemente personale e realtà (Francesca Giraudi; Francesca
Meloni). “Il percorso così proposto si apre all’ascolto. Sulla superficie,
nelle forme, è impressa la traccia di un gesto ispirato e capace di
un’istantaneità che pesca nel profondo senza l’obbligo di “dare a vedere”. Alla
memoria si guarda non come forma nostalgica rivolta a un passato da mitizzare,
ma come esperienza e vissuto, come formula, a volte ossessiva, di scoperta di
un sé molteplice. Nessuna forma esclude l’altra, anche quando, in apparenza,
risulta oppositiva. L’unica fedeltà è qui legata a una dimensione di ricerca
mai completamente esaustiva perché mai definitiva”. (G. Pelloso*:
dal testo critico “Fratture surmoderne”)
La fotografia, declinata in sperimentale, d’architettura, narrativa, la pittura informale e la performance, sono legate da un unico filo rosso: la traccia dell’Assente. Assenza di una presenza in una corrente artistica predominante e omologante; assenza di un desiderio di frapporsi fra l’opera ed il pubblico, assenza di frastuono, quanto, invece, desiderio di vivere e donare Sospensione, di un Tempo che ha a che fare con la profondità.
dal 13 Giugno al 15 Ottobre 2019 – Annunciata Galleria d’Arte – Milano Altre info qua
Le montagne del castello – Alberto Battarelli
“Questa mostra è il frutto di numerosi anni di esplorazione e osservazione delle montagne intorno al Castello. Durante le giornate passate a percorrere sentieri e creste per raggiungere valli e cime, la macchina fotografica mi ha sempre accompagnato, permettendomi di interpretare il paesaggio davanti ai miei occhi. Un paesaggio declinato in bianco e nero, per coglierne l’essenza, l’aspetto più intimo ed essenziale. L’attesa del momento e della luce giusta è stata spesso la parte più importante oltre al semplice scatto.
L’intento di questa esposizione è quello di trasmettere le stesse emozioni e gli sguardi vissuti da me nel momento dello scatto”.
L’autore, Alberto Battarelli, è nato e vissuto a Trento ed è molto legato alle zone del Livinallongo: il nonno materno, Giacomo Crepaz, maestro elementare, nato a Larzonei, ha vissuto ad Andraz.
Dal 15 giugno al 21 luglio – Castello di Andraz – Livinallongo del Col di Lana (Belluno)
MUHAMMAD ALI
HOUSTON,TX – NOVEMBER 14,1966: Muhammad Ali celebrates after knocking out Cleveland Williams during the fight at the Astrodome in Houston, Texas. Muhammad Ali won the World Heavyweight Title by a TKO 3. (Photo by: The Ring Magazine/Getty Images)
100 fotografie immortalano la carriera e la vita del “Re del Mondo” a cura di Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi
“Non c’è bisogno di stare in un ring di pugilato per essere un grande combattente.Finché si resterà fedeli a se stessi, si avrà successo nella propria lotta, per quello in cui si crede.”
Napoli rende omaggio a Muhammad Ali, una delle icone sportive più famose e celebrate del XX secolo, con una mostra in programma dal 22 marzo al 16 giugno 2019, al PAN – Palazzo delle Arti Napoli.
La rassegna, promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, organizzata da ViDi – Visit Different, curata da Marco Pastonesi e Giorgio Terruzzi, presenta 100 immagini, provenienti dai più grandi archivi fotografici internazionali quali New York Post Archives, Sygma Photo Archives, The Life Images Collection che colgono Ali in situazioni e momenti fondamentali della sua vita non solo sportiva.
Ogni sala è dedicata a uno dei “doni” che Ali ha offerto a ogni singola persona come un tesoro senza prezzo e senza tempo: doni agli appassionati di boxe, al linguaggio, alla dignità umana, ai compagni di viaggio, ai bambini, al coraggio, alla memoria.
Nelle sale del PAN va in scena un lungo racconto per immagini di una tra le più straordinarie personalità del Novecento; il ritratto a 360° di un uomo che è stato capace di battersi con successo su ring diversi tra loro. Quelli che gli hanno dato per tre volte il titolo mondiale dei pesi massimi, quello della lotta per i diritti civili dei neri americani, quello dell’integrazione, quello della comunicazione.
Dal 22 marzo al 16 giugno – PAN Palazzo delle Arti Napoli
Se durante l’estate avete “staccato la spina” con la fotografia, eccovi delle mostre da cui ricominciare a settembre.
Ciao
Anna
RENE BURRI, UTOPIA + FERDINANDO SCIANNA, IL GHETTO DI VENEZIA 500 ANNI DOPO
VENEZIA, CASA DEI TRE OCI
DAL 26 AGOSTO 2016 ALL’8 GENNAIO 2017
Due progetti espositivi autonomi presentano, da un lato, 100 immagini di René Burri dedicate all’architettura e ai suoi protagonisti, dall’altro, 50 scatti inediti di Ferdinando Scianna in occasione dei 500 anni dalla fondazione del Ghetto ebraico a Venezia
Dopo il successo della mostra Helmut Newton. Fotografie, la Casa dei Tre Oci di Venezia riprende il proprio programma espositivo con due proposte dedicate ad altrettanti maestri della storia della fotografia: René Burri e Ferdinando Scianna.
Dal 26 agosto 2016 all’8 gennaio 2017, le sale dello spazio veneziano sull’isola della Giudecca si apriranno alle rassegne “René Burri. Utopia”, curata da Michael Koetzle, e “Ferdinando Scianna. Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo”, curata da Denis Curti. La mostra dedicata a Ferdinando Scianna è frutto del lavoro fotografico realizzato su incarico di Fondazione di Venezia e realizzato appositamente per i Tre Oci in occasione del Cinquecentenario della fondazione del Ghetto ebraico a Venezia.
I due diversi progetti si snoderanno autonomamente seguendo un percorso coerente e lineare, che si svilupperà a partire dalle 100 opere di René Burri, distribuite tra pianterreno e piano nobile, e si concluderà al secondo piano, con le oltre 50 fotografie inedite di Ferdinando Scianna.
Entrambi membri della prestigiosa agenzia fotografica Magnum, Burri (che ne diverrà presidente nel 1982) e Scianna appartengono, pur nella loro diversità, a quella categoria di autori che attraverso il mezzo fotografico esprime personali visioni, sia che si traducano nella passione di Burri di documentare grandi cambiamenti politici e sociali, sia che rispondano al tentativo, nel caso di Scianna, di carpire, all’interno del flusso caotico dell’esistenza, “istanti di senso e di forma”.
Utopia di René Burri (Zurigo, 1933-2014) riunisce, per la prima volta, oltre 100 immagini del grande artista svizzero dedicate all’architettura, con scatti di famosi edifici e ritratti di architetti.
FRANCE. Ile-de-France region. Paris. 1959. 7th arrondissement. 35, rue de Sèvres. The painter, architect and city planner LE CORBUSIER in the “Atelier 35 S”. On the left: a lithograph of his “Modulor”.
BRAZIL. Sao Paulo. 1960.
LEBANON. Beirut. 1991. Maarad Street.
BRAZIL. Brasilia. 1960. Worker from Nordeste shows his family the new city on inauguration day. In the background: the National Congress building by Oscar NIEMEYER.
CHINA. Beijing. 1989.
Chamber of Deputies.
USA. California. Los Angeles 1984.
La fotografia di Burri nasce dal bisogno di raccontare i grandi processi di trasformazione e i cambiamenti storici, politici e culturali del Novecento con una forte attenzione verso alcuni personaggi (indimenticabili i suoi ritratti di Che Guevara e Pablo Picasso) che ne hanno fatto parte.
Utopia – che si tiene in contemporanea con la Biennale di Architettura 2016 – s’inserisce all’interno di questa prospettiva, in quanto Burri concepisce l’architettura come una vera e propria operazione politica e sociale che veicola e impone una visione sul mondo, e che lo spinge a viaggiare tra Europa, Medio-Oriente, Asia e America latina sulle tracce dei grandi architetti del XX secolo, da Le Corbusier a Oscar Niemeyer, da Mario Botta a Renzo Piano, da Tadao Ando a Richard Meier.
Accanto ai loro ritratti e alle loro costruzioni, in Utopia si ritrovano anche le immagini di eventi storici particolarmente densi di contrasti e di speranze, come la caduta del muro di Berlino o le proteste di piazza Tienanmen a Pechino nella primavera del 1989.
L’ultimo piano della Casa dei Tre Oci è dedicato all’opera di uno dei più importanti fotografi italiani, Ferdinando Scianna (Bagheria, 4 luglio 1943). In occasione dei 500 anni della nascita del Ghetto ebraico di Venezia (formatosi il 29 marzo 1516), la Fondazione di Venezia ha deciso di avviare una ricognizione fotografica con l’obiettivo di raccontare la dimensione contemporanea del Ghetto. Il progetto espositivo è realizzato da Civita Tre Venezie.
Scianna ha realizzato un reportage fotografico in pieno stile Street Photography, raccogliendo immagini inerenti la vita quotidiana del Ghetto, senza tralasciare ritratti, architetture, interni di case e luoghi di preghiera. Chiese, ristoranti, campi, gondole sono i soggetti che animano il panorama visivo del progetto. Da segnalare, in questa narrazione, la compresenza di una dimensione simbolica, storica, rituale, intrinsecamente connessa a luoghi e gesti, e una semplicità nella descrizione di un tempo presente e ordinario.
“Ferdinando Scianna – osserva il curatore Denis Curti – ha saputo costruire un racconto delicato […]. Ha dato forma a una memoria collettiva elevando e distinguendo singole storie: se ne avverte la bellezza e la solennità. […] Il dolore mai urlato dell’Olocausto. Le pietre d’inciampo e i segni di una vicenda destinata a restare indelebile. […] Dentro queste fotografie ci si orienta. I punti cardinali si fanno abbraccio e segnano le linee di una confidenza visiva capace di entrare nei confini dell’intimità dei molti ritratti che compongono il complesso mosaico di questa esperienza: è il linguaggio degli affetti, è la grammatica dei corpi”.
Lu.C.C.A. – Lucca Center of Contemporary Art
2 luglio – 13 novembre 2016
a cura di Maurizio Vanni
La realtà della finzione
In tempi dove non è più la finzione a intromettersi nella realtà, ma la verità digitale a invadere i territori della fiction, la mostra degli scatti che alcuni grandi fotografi hanno dedicato al cinema ci fa riflettere sul rapporto tra realtà e finzione, tra verità e illusione, e tra quotidianità e sogno. Quello dei fotografi Magnum è un lavoro che non ha niente a che vedere con la fotografia di scena – immagini prevedibili realizzate sul set a fini promozionali –, ma è una vera e propria perlustrazione creativa realizzata senza vincoli, con onestà intellettuale e libertà espressiva, per raccontare il dietro le quinte non tanto del set cinematografico, ma dei personaggi che, di lì a poco, avrebbero fatto la storia del grande schermo. Il cinema potrebbe essere considerato lo specchio del mondo, ma anche il suo sogno e la sua invenzione: nessun’altra espressione artistica è stata mai così legata alla realtà proprio perché basata sul concetto della finzione. Sul grande schermo, il più delle volte, realtà e finzione sono talmente vicine da confondersi: più la macchina da presa viene neutralizzata, più la realtà sembra porsi in modo naturale e più si è di fronte a una fiction consapevole.
La narrazione visiva della mostra evidenzia un rapporto di complicità tra attori e fotografi, un feeling che, da una parte libera i personaggi dal dover stare in pose convenzionali; dall’altra stimola i fotografi a cercare tutti i particolari che rendono unico e irripetibile ogni momento, quindi più vero della stessa realtà. Ironia, fragilità, consapevolezza espressiva, impertinenza, emozione, vulnerabilità e devozione per la propria professione: ne risulta una galleria di ritratti, di composizioni non convenzionali, di momenti visivi talmente implausibili da proiettare il visitatore in una dimensione alternativa, più intima e riservata, anche laddove c’è la consapevolezza di essere di fronte a un obbiettivo.
Ogni scatto si manifesta come un luogo esperienziale nel quale si perde di vista la barriera tra conoscenza e inganno, tra persona e professionista, tra finito e infinito con una serie di immagini che si insinuano prepotentemente nella mente di chi guarda, stimolandolo a immaginare la scena o in certi casi a concluderla. L’immaginazione corrisponde a un lavoro inesauribile che l’artista produce sul dato fenomenico: senza realtà non potrebbe esserci fiction, ma senza finzione, probabilmente, non potrebbe esserci vera realtà.
Dal 2 al 13 settembre Casa dei Carraresi ospita la mostra collettiva “100 ATTIMI. Fotografia di strada”, rassegna dedicata alla Street Photography Contemporanea Italiana.
La mostra è organizzata da Umberto Verdoliva, fotografo e fondatore del collettivo SPONTANEA ed esporranno i loro lavori i principali collettivi italiani: gruppo Mignon, collettivo Spontanea, collettivo InQuadra, collettivo Eyegobananas e alcuni autori locali.
La rassegna includerà anche lo STREET FOLIO, una giornata dedicata alla lettura di lavori e progetti fotografici dei membri del collettivo SPONTANEA e di alcuni rappresentanti dei collettivi invitati.
L’evento è stato realizzato grazie al contributo di: TOYOTA – LEXUS BIANCO, Ar-fer arte ferro, FOTOGRAFIA DIGITALE.
Umberto Verdoliva nato a Castellammare di Stabia (Na), vive a Treviso dal 2006, si dedica da oltre 10 anni alla fotografia di strada e alla sua propaganda. Ha ricevuto numerosi premi e pubblicazioni nelle principali riviste di settore. Ha esposto i propri lavori in diverse mostre. Ha inoltre pubblicato nel 2016 il suo primo volume dal titolo “An ordinary day”, curato e pubblicato dal gruppo Mignon di Padova.
Qua un’interessante intervista ad Umberto Verdolilva, curatore della mostra e fotografo di strada.
L’Assessorato dell’istruzione e cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta comunica che l’Assessore Emily Rini inaugura venerdì 20 maggio 2016, alle ore 18, al Centro Saint-Bénin di Aosta, la mostra Leonard Freed. Io amo l’Italia che presenta una ricca selezione di immagini scattate dal fotografo americano in diverse località italiane, dalla metà del Novecento agli inizi del nuovo secolo. La rassegna di Aosta, proposta dall’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta, è curata da Enrica Viganò in collaborazione con il Leonard Freed Archive e presenta al pubblico cento fotografie, tra vintage e modern print, che compongono una sorta di diario degli oltre quarantacinque soggiorni compiuti dal fotografo statunitense in Italia, terra con la quale intrattenne un rapporto che lui stesso definì “una storia d’amore”. L’Assessorato regionale, confermando il suo impegno nel sostenere la proposta culturale del territorio con un evento di richiamo, prosegue così nell’offerta di approfondimenti sulla cultura fotografica, dopo le esposizioni sui grandi nomi della fotografia del Novecento, tra cui le mostre dedicate ad André Villers (2008), Mario De Biasi (2012), Elliott Erwitt (2012), Pepi Merisio (2013) e Gian Paolo Barbieri (2014).
Centro Saint-Bénin – Aosta
20 Maggio 2016 – 20 Settembre 2016
HELMUT NEWTON. A Gun For Hire, Selection
Carpi, Musei di Palazzo dei Pio
Sabato 10 Settembre 2016 – Domenica 11 Dicembre 2016
Esposto per la prima volta in Italia, a Carpi, un corpus di oltre 50 fotografie dalla celebre mostra “A gun for hire”, che raccoglie le immagini scattate da Helmut Newton per le campagne promozionali del marchio Blumarine, tra le eccellenze del distretto tessile della città emiliana.
Dal 10 settembre all’11 dicembre 2016 la città di Carpi (Modena) omaggia uno tra i più grandi fotografi di moda di tutti i tempi, con un’esposizione che presenta scatti mai esposti prima in Italia.
Sono oltre cinquanta le immagini della mostra HELMUT NEWTON. A gun for hire, selection / Le fotografie per Blumarine 1993 – 1999, un evento che ricostruisce, nella cornice dei Musei di Palazzo dei Pio, la stagione che ha visto il maestro tedesco lavorare per una delle aziende simbolo del comparto tessile di Carpi, prossima a compiere il suo quarantesimo anniversario (nel 2017), ideando campagne di comunicazione che hanno coinvolto icone di femminilità come Carré Otis, Nadja Auermann, Carla Bruni, Monica Bellucci ed Eva Herzigova.
L’esposizione, a cura di Luca Panaro, è ideata e prodotta dal Comune di Carpi – Musei di Palazzo dei Pio in collaborazione con la Helmut Newton Foundation di Berlino, da cui arrivano quasi tutti i materiali inediti esposti, e Blumarine, grazie al contributo di Fondazione Cassa Risparmio Carpi e Banca Popolare dell’Emilia Romagna, CMB e Unipol Assicurazioni.
Con il titolo di A gun for hire si considera la grande retrospettiva itinerante, realizzata la prima volta a Montecarlo nel 2005, che illustra in modo puntuale il lavoro di Helmut Newton per il mondo della moda, tra campagne per le griffe più importanti del momento e servizi per le riviste più significative, a partire dagli Anni Sessanta e fino alla data della morte, avvenuta nel 2004. L’esposizione carpigiana si concentra in modo specifico su una parentesi ben definita della lunga e appassionante vicenda creativa del fotografo: quella che lo ha visto portare a compimento le campagne per sette diverse collezioni di Blumarine, partendo dalla Primavera – Estate 1993 per arrivare all’Autunno – Inverno 1998/1999.
Un progetto, per quegli anni, epocale. È la prima volta, infatti, che un marchio italiano legato all’idea tradizionale di impresa famigliare, idealmente rivolto quindi all’eleganza della donna borghese, sceglie di presentarsi in modo tanto innovativo, rivoluzionando il proprio modo di comunicare in favore di un’idea di femminilità più eccentrica, giocosamente provocante. Le campagne elaborate da Newton escono così dagli schemi abituali, rifiutando lo studio delle pose e la costruzione dello storyboard, vivendo dell’istintività e dell’immediatezza dell’ispirazione. Le modelle – tra i volti più noti e amati degli ultimi anni: da Carré Otis a Carla Bruni da Monica Bellucci a Eva Herzigova – interpretano una sensualità divertita, mai volgare, elegantemente allusiva, espressa attraverso un immaginario che filtra l’esplosiva e colorata carica energica del Pop a divertissement nonsense.
Tra i caratteri unici di questo grande esperimento di comunicazione sta l’ingresso, fisico, dell’autore stesso all’interno dell’immagine, che Newton aveva già sperimentato in alcune sue opere: ad accentuare il carattere controcorrente delle campagne, esprimendo al massimo la libertà dalle gabbie del concept, ecco Newton entrare in campo – come ombra fugace, oppure con un solo piede – e rimanere impresso sulla pellicola, dando in certi casi all’osservatore l’illusione di essere dietro la macchina fotografica.
La mostra, allestita nelle logge al piano nobile di Palazzo dei Pio, si compone di 34 fotografie di grande formato che documentano le campagne dell’artista per Blumarine e di altri dodici scatti, sempre parte del progetto A Gun for Hire e inediti per l’Italia, dedicati invece a lavori effettuati da Newton, nel medesimo periodo, per brand come Versace, Yves Saint Laurent e Thierry Mugler: un confronto serrato, dunque, che contestualizza i progetti pensati per l’impresa carpigiana all’interno dell’esperienza professionale dell’artista e dei canoni di comunicazione dell’alta moda in quel preciso momento storico.
A completare l’esposizione altri sette scatti dalle campagne Blumarine, mai esposti prima, dalla collezione privata di Anna Molinari, fondatrice con il marito Gianpaolo Tarabini dell’azienda; i book delle stagioni realizzati con le campagne fotografiche di Newton e due album inediti con le fotografie e le annotazioni dell’autore. Infine, nella Sala dei Mori, vengono presentate testimonianze video che presentano attraverso interviste e documentari la figura di Helmut Newton e il suo credo artistico.
Dal 15 settembre 2016 all’8 gennaio 2017 Fondazione Fotografia presenta al Foro Boario di Modena la mostra Lying in Between. Grecia 2016.
Il percorso, a cura del direttore Filippo Maggia, espone le opere prodotte in occasione di una missione fotografica in Grecia svoltasi su iniziativa di Fondazione Fotografia nei mesi di maggio e giugno 2016. Alla missione hanno preso parte sette fotografi italiani caratterizzati da sensibilità e cifre stilistiche diverse: Antonio Biasucci, Antonio Fortugno, Angelo Iannone, Filippo Luini, Francesco Mammarella, Simone Mizzotti e Francesco Radino. Ad affiancare le loro opere e a completare l’allestimento della mostra ci sarà inoltre un video a tre canali, realizzato e prodotto da Fondazione Fotografia.
Negli ultimi anni la crisi economica greca è stata spesso al centro delle cronache di attualità e di molti dibattiti internazionali. Culla della civiltà occidentale, il Paese ellenico si trova a fare i conti non soltanto con le difficoltà endogene che da anni la affliggono, ma anche con la nuova drammatica emergenza rappresentata dalle migliaia di profughi che, in fuga dal Medio Oriente, quotidianamente sbarcano sulle isole più vicine alla costa turca, in alcuni casi addirittura superando per numero la popolazione in esse residente. Questi luoghi, mete turistiche per eccellenza, sono oggi emblema dell’ampio divario esistente fra il mondo occidentale, attento a preservare le proprie certezze, e un mondo altro da noi, ma a noi molto vicino, quello mediorientale, lacerato da guerre civili e di religione.
I sette fotografi impegnati nella missione hanno potuto calarsi completamente nel contesto, dapprima documentando la loro esperienza in tempo reale, attraverso una cronaca fotografica quotidiana, condivisa attraverso i canali web e social di Fondazione Fotografia; successivamente, al rientro in Italia, ciascuno ha rielaborato il materiale raccolto da una prospettiva personale e secondo la propria cifra stilistica, compiendo un’analisi più lenta e ponderata che ha dato luogo alle opere finali esposte in mostra. Contestualmente alla produzione di queste ricerche artistiche, Fondazione Fotografia ha impegnato due diversi team di professionisti nella creazione di un video a tre canali incentrato sulla situazione attuale delle isole greche: Andrea Cossu, Daniele Ferrero, Mara Mariani e il direttore Filippo Maggia hanno compiuto un viaggio attraverso quei luoghi, dando voce a abitanti, volontari, migranti e raccontando la Grecia contemporanea in tutte le sue sfumature.
La mostra Lying in Between. Grecia 2016 èpromossa da Fondazione Fotografia Modena e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna. Rientra inoltre nel programma del festivalfilosofia 2016, che si terrà a Modena, Carpi e Sassuolo dal 16 al 18 settembre 2016. La accompagna un catalogo di Skira Editore.
Un progetto espositivo di Civita e SudEst57, a cura di Biba Giacchetti, promossa dal Comune di Terni in collaborazione con Indisciplinarte.
La mostra ripercorre la carriera e i temi principali della poetica del grande fotografo e artista americano Elliott Erwitt (1928), attraverso 42 scatti da lui stesso selezionati come i più rappresentativi della sua produzione artistica. Sarà esposta inoltre una serie di 9 autoritratti, esclusivi di questa mostra, che costituiscono un “evento nell’evento”.
Tra gli autoritratti esposti anche quelli a colori in cui l’artista veste i panni di André S. Solidor, alter ego inventato per ironizzare sul mondo dell’arte contemporanea e sui suoi stereotipi. Andrè S. Solidor (si noti l’acronimo irriverente) ed Elliott Erwitt saranno anche protagonisti del film “I Bark At Dogs” che sarà proiettato in mostra. (Qua un articolo sull’ironia in fotografia pubblicato su Mu.Sa. che citava proprio Erwitt)
Grande autore Magnum, reclutato nel 1953 all’interno della celebre agenzia direttamente da Robert Capa, Elliott Erwitt ha firmato immagini diventate icone del Novecento.Tra queste, in mostra a Terni alcune delle più celebri: il bacio dei due innamorati nello specchietto retrovisore di un’automobile, una splendida Grace Kelly al ballo del suo fidanzamento, un’affranta Jacqueline Kennedy al funerale del marito, i ritratti di Che Guevara e Marilyn Monroe, alcune foto appartenenti alla serie di incontri tra i cani e i loro padroni, iniziata nel 1946. E ancora, gli scatti che Erwitt, reporter sempre in viaggio, ha raccolto per il mondo, a contatto con i grandi del Novecento ma anche con la gente comune. E i paesaggi, le metropoli. Gli scatti di denuncia, in cui al suo sguardo di grande narratore, si mescola sempre ironia e leggerezza, e la sua capacità di trovare i lati surreali e buffi anche nelle situazioni più drammatiche.
Foam presents the work of famed French photographer Jacques Henri Lartigue (1894 – 1986). Lartigue is above all renowned for his spectacular photos of car races, aeroplanes and people and animals in motion. But his breath-taking colour photography is less well known. Lartigue, Life in Colour reveals this seldom-seen aspect of his oeuvre.
Lartigue’s legacy encompasses a total of 117,577 black-and-white negatives and colour transparencies, and nearly 40 per cent of his work is in colour. His colour photography began with autochrome images in his youth, and in the 1950s he started using Ektachrome film. The impressive collection spans nearly the entire 20th century, from the first photo he took in 1902 as an eight-year-old boy, to the final image taken in 1986 at the age of 92. He could capture fleeting moments of happiness like no other. Lartigue’s oeuvre offers a light and cheerful perspective on life in France in the early 20th century.
Lartigue was one of those unique people who was able to hold on to his childlike freshness, curiosity and wonder throughout his entire life. Colour and innocence went hand-in-hand for him. Photography was a way to escape his own contemporary time, so that his images have a limitlessly modern character. Lartigue unintentionally created an oeuvre in both colour and black-and-white. Most of the photos on show at Foam come from his albums, where he collected photos telling the story of his life, like an encyclopaedia. For Lartigue, who viewed himself more as a painter than a photographer, colour was mainly a way to unite the two art forms. He was regularly heard to loudly proclaim, ‘I view everything through the eyes of an artist.’
Lartigue occasionally sold photos to the press and exhibited work at a presentation in Paris alongside photos by major figures such as Man Ray and Brassaï (1955). Yet his reputation as photographer was not established until at the age of 69 his work appeared in a retrospective at MoMA, in New York. Worldwide fame followed three years later with the publication of his books The Family Album (1966) and Diary of a Century (1970), the last one compiled by Richard Avedon. In his final years Lartigue was much in demand as a photographer for fashion magazines.
On Saturday, March 19th Foam organizes a special afternoon in collaboration with Kriterion on how Lartigue’s colour photography inspired the work of director Wes Anderson. With film screenings, high tea and lecture by curator Zippora Elders.
The exhibition has been conceived and produced by the Association des Amis de Jacques Henri Lartigue, Ministère de la Culture, France, known as the Donation Jacques Henri Lartigue, in collaboration with diChroma photography, Madrid.
Se desiderate sapere qualcosa di più su Lartigue, qua trovate un approfondimento pubblicato tempo fa su Mu.Sa.
Fashion. Moda e stile negli scatti di National Geographic
A couple at a party at the Casino of Venice.
Women pose, in their beach attire, on a white sand beach in Florida.
Picture 016
Young Asaro mudmen at the annual tribal sing-sing at Garoka.
An informal portrait of a Javanese mother and her nursing child.
An Ouled Nail girl wears a dowry of gold coins.
Performing swimmers put on lipstick underwater.
Una grande mostra fotografica ideata e prodotta da National Geographic Italia.
62 immagini di grande formato, realizzate da 36 maghi dell’obiettivo, offrono un’affascinante prospettiva globale sul significato storico e culturale dell’abbigliamento e dell’ornamento e su ciò che ruota intorno al concetto di stile.
Tra i fotografi in mostra: Clifton R. Adams, William Albert Allard, Stephen Alvarez, James L. Amos, Alexander Graham Bell, Horace Brodzky, John Chao, Jodi Cobb, Greg Dale, Mitch Feinberg, Georg Gerster, Robin Hammond, David Alan Harvey, Chris Johns, Beverly Joubert, Ed Kashi, Keenpress, Lehnert & Landrock, Mrs. Mary G. Lucas, Horst Luz, Luis Marden, Pete McBride, Charles O’Rear, Randy Olson, Steve Raymer, Roland W. Reed, Reza, J.Baylor Roberts, Joseph F. Rock, Eliza R. Scidmore, Stephanie Sinclair, Tino Soriano, Maggie Steber, Anthony B.Stewart, Amy Toensing, Maynard Owen Williams.
Torino – Palazzo Madama dal 4 febbraio 2016 al 2 maggio 2016
Lugano, Galleria Photographica FineArt – 10 marzo – 5 maggio 2016
Giovedì 10 marzo Photographica FineArt di Lugano inaugura una nuova esposizione dedicata al “mondo magico” di Paolo Ventura. La visione fantastica anima il lavoro di Paolo Ventura. Figlio di un famoso novellista per bambini, appena ha potuto emanciparsi a livello artistico, ha abituato la sua mente a volare tra fantasie irreali creando mondi virtuali, a lui paralleli, dove regnano enigmi, intrighi, sentimenti, tragedie e stravaganze. Luoghi gestiti da personaggi – fiabeschi come le sue scenografie – sempre plasmati nella fanciullesca visione di una persona che vuole mantenere uno stretto contatto con il mondo pre-adolescenziale, consapevole che questa è la porta della sua anima artistica. Il “mondo di Paolo” è sempre ripreso dalla sua fotocamera con angolature differenti da quelle razionali perché è un mondo illogico e inesistente nel quale l’artista stesso ne è addirittura protagonista.
Nel suo ultimo progetto artistico, La Città infinita, Paolo Ventura si evolve ancora una volta e crea la sua città realizzandola con pezzi di scenografie e di edifici che poi fotografa e monta come dei collages. Il progetto, che prende ispirazione dal cinema Neorealista degli anni ’50 e ‘60, presenta paesaggi urbani solitari e onirici punteggiati da figure umane, sempre impersonate da Ventura stesso. Sebbene le scene composte differiscano le une dalle altre, la linea dell’orizzonte rimane sempre la stessa, creando in questo modo un infinito paesaggio urbano, La Città Infinita.
Oltre a quest’ultimo lavoro di Ventura, in mostra verranno esposti alcuni lavori precedenti di War Souvenir (2006), Winter Stories (2008) dove i personaggi sono delle marionette vestitie secondo le tematiche del soggetto e le sue più recenti Short Stories, brevi racconti impersonati da Ventura stesso, sua moglie Kim e suo figlio Primo. Oltre alle opere esposte, una sala sarà dedicata alle sue scenografie costruite per la realizzazione delle opere esposte.
Arriva a Officine Fotografiche il 19 febbraio alle ore 19 la mostra di LIFE FRAMER, il premio dedicato ai fotografi professionisti, emergenti e dilettanti in arrivo per la prima volta in Italia.
Nato nel cuore di Londra, nell’ottobre 2014 il progetto ha dato il via alla sua seconda edizione. Ogni mese LIFE FRAMER ha aperto un contest con un tema legato prima di tutto alla vita, chiamando a rapporto fotografi di ogni parte del mondo.
L’obiettivo è quello di dare libero spazio all’ispirazione e incoraggiare la creatività, per questo ogni tema è legato alla quotidianità, al mondo e alla visione che ognuno di noi ne ha. A giudicare i lavori, ogni mese interviene un ospite d’onore legato al mondo della fotografia, dalla fotografa Robin Schwartz a Katherine OktoberMatthews photoeditor della rivista Gup Magazine.
Il premio messo in palio: denaro, interviste e un’esposizione che gira il mondo al termine dei dodici mesi di contest.
La mostra presenterà gli scatti dei finalisti e degli ospiti che hanno partecipato al concorso, con l’intento di raccontare il panorama della fotografia contemporanea in questi anni di “spiccato fermento”.
Dal 19 al 26 febbraio 2016 – Officine Fotografiche Roma
Quest’anno Seravezza Fotografia rende omaggio al maestro Franco Fontana con una retrospettiva intitolata “Full color” con sottotitolo “Polaroid e astrazioni architettoniche”, ospitata nelle sale di Palazzo Mediceo, Patrimonio Mondiale Unesco, che ripercorre gli oltre cinquant’anni dedicati alla fotografia. Fontana è stato un fotografo, tra i primi in Italia, a schierarsi con tanta convinzione e fermezza in favore del colore rendendolo protagonista, non come mezzo ma come messaggio, non come fatto accidentale, ma come attore. “Può sembrare che sia il paesaggio il protagonista della sua ricerca – spiega Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci e curatore della mostra “Full color” prodotta da Civita Tre Venezie -, ma è il colore il vero soggetto della fotografia di Franco Fontana. Il colore trasforma il paesaggio, lo umanizza, lo rende vivo. È nella scelta dell’accostamento cromatico che Fontana dà significato alla sua fotografia e la vitalizza. Si avventura in un percorso creativo che rompe le regole, rendendo visibile l’invisibile di una realtà le cui soluzioni interpretative sono sempre variopinte, come le diverse situazioni e stati d’animo della vita”. La mostra e’ suddivisa in diverse sezioni tematiche: i paesaggi degli esordi (anni ‘60), i paesaggi urbani, indagati sotto diversi punti di vista, le piscine e il mare. Il percorso espositivo si conclude con la sala dedicata alle polaroid scattate nella fine degli anni ‘80 e quella dedicata ad una selezione di immagini realizzate per il progetto “Expo: vista d’autore”, il suo ultimo lavoro, commissionatogli da Canon. Franco Fontana ha realizzato una serie di fotografie sotto il titolo “astrazioni architettoniche”, in cui documenta, con il suo inconfondibile stile, l’architettura dell’esposizione milanese.
Dal 6 Febbraio 2016 al 10 Aprile 2016
Palazzo Mediceo Seravezza
Per la prima volta a Firenze, Emerging Talents è un progetto espositivo che promuove autori emergenti cui progetti fotografici hanno ricevuto importanti riconoscimenti a livello internazionale.
Le prime due edizioni si sono svolte durante le XIII e IV edizioni di FOTOGRAFIA, Festival Internazionale di Fotografia di Roma del 2014 e 2015.
In occasione di Emerging Talents sono state organizzate giornate di incontro e letture portfolio con Jim Casper (direttore ed editore di Lensculture) e Audrey Turpin (membro di Circulations, Festival de la jeune Photographie Européenne).
Emerging talents è ideato e curato da Sarah Carlet e Arianna Catania
In qs edizione sono presenti i lavori di:
Antoine Bruy. Scrublands
Salvi Danés. Black Ice, Moscow.
Jing Huang. Sight on surroundings.
Dina Oganova. My Place
Emerging Talents @ Leica Store Firenze
Dove: Leica Store, vicolo dell’Oro 12/14 Rosso, Firenze.
Quando: dal 10 febbraio al 6 aprile 2016.
Silvia Camporesi – Atlas Italiae
La Galleria del Cembalo, in collaborazione con z2o Sara Zanin Gallery, apre al pubblico dal 20 febbraio al 9 aprile una mostra dedicata al nuovo lavoro di Silvia Camporesi. Un viaggio nell’Italia abbandonata e in via di sparizione, fotografata come realtà fantasmatica.
Atlas Italiae rappresenta le tracce di un qualcosa di passato ma tuttora ancorato ai propri luoghi d’origine. Energie primordiali e impalpabili che diventano materiali tramite il mezzo fotografico.
Silvia Camporesi ha esplorato nell’arco di un anno e mezzo tutte le venti regioni italiane alla ricerca di paesi ed edifici abbandonati. Atlas Italiae è il risultato di questa raccolta di immagini, una mappa ideale dell’Italia che sta svanendo, un atlante della dissolvenza.
La serie fotografica si presenta come una collezione poetica di luoghi, fondata sulla ricerca di frammenti di memoria. Borghi disabitati da decenni che sembrano non esistere nemmeno sulle cartine geografiche, architetture fatiscenti divorate dalla vegetazione selvaggia, archeologie industriali preda dell’oblio, ex-colonie balneari decadenti che paiono imbalsamate nel tempo del “non più”.
“Nelle immagini dell’artista il velo dell’anonimato e del silenzio visivo si apre svelando l’anima di luoghi congelati nelle nebbie dell’amnesia generale. Qui lo sguardo di Silvia Camporesi va oltre la pura registrazione di uno stato della realtà, è indirizzato sia a cogliere la tensione silenziosa di un’Italia degli estremi sia a rivelare per la prima volta qualità liminari, inespresse, portatrici di un mistero e di un incanto”. Questo scrive Marinella Paderni nel testo che apre il volume Atlas Italiae, edito da Peliti Associati. La mostra, che presenterà per la prima volta una selezione così ampia di immagini, sarà suddivisa tra stampe grande formato a colori e stampe più piccole in bianco e nero, colorate a mano con un procedimento – omaggio al passato della fotografia – attraverso il quale l’artista cerca di restituire simbolicamente ai luoghi l’identità persa.
Silvia Camporesi, nata a Forlì nel 1973, laureata in filosofia, vive e lavora a Forlì. Attraverso i linguaggi della fotografia e del video costruisce racconti che traggono spunto dal mito, dalla letteratura, dalle religioni e dalla vita reale. Negli ultimi anni la sua ricerca è dedicata al paesaggio italiano. Dal 2003 tiene personali in Italia e all’estero – Terrestrial clues all’Istituto italiano di cultura di Pechino nel 2006; Dance dance dance al MAR di Ravenna nel 2007; La Terza Venezia alla Galleria Photographica fine art di Lugano nel 2011; À perte de vue alla Chambre Blanche in Quebec (CAN) nel 2011; 2112, al Saint James Cavalier di Valletta (Malta) nel 2013; Souvenir Universo alla z2o Sara Zanin Gallery di Roma nel 2013; Planasia al Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia nel 2014; Atlas Italiae all’Abbaye de Neumünster in Lussemburgo nel 2015. Fra le collettive ha partecipato a: Italian camera, Isola di San Servolo, Venezia nel 2005; Confini al PAC di Ferrara nel 2007; Con gli occhi, con la testa, col cuore al Mart di Rovereto nel 2012, Italia inside out a Palazzo della Ragione, Milano nel 2015. Nel 2007 ha vinto il Premio Celeste per la fotografia; è fra i finalisti del Talent Prize nel 2008 e del Premio Terna nel 2010; ha vinto il premio Francesco Fabbri per la fotografia nel 2013 e il premio Rotary di Artefiera 2015. Atlas Italiae è il suo terzo libro fotografico.
Jakob Tuggener: Fabrik 1933-1953 e Nuits del bal 1934-1950
La Fondazione MAST presenta due mostre dedicate al fotografo svizzero Jakob Tuggener (1904-1988), per la prima volta in Italia.
Con Jakob Tuggener si apre il ciclo di mostre fotografiche del 2016 proposte dalla Fondazione Mast che promuove speciali esposizioni sui temi dell’industria e del lavoro, sia con immagini della propria collezione di fotografia industriale, sia con opere di raccolte private o archivi spesso inediti.
“Jakob Tuggener è considerato uno dei dieci fotografi industriali di maggior spicco che siano mai esistiti -sottolinea Urs Stahel, direttore della PhotoGallery del MAST e co-curatore della mostra -. Il suo libro FABRIK è una pietra miliare nella storia dell’editoria fotografica, paragonabile a Paris de nuit di Brassaïs del 1933 e a The English at Home di Bill Brandt del 1936”.
“Il tratto distintivo della sua opera – continua Stahel – è rappresentato da uno sguardo penetrante sulle persone e sugli oggetti del mondo così ravvicinato e attento come se volesse sorprenderli, unito a una grande padronanza del gioco di luci e ombre”.
La mostra FABRIK 1933–1953 presenta nella Photogallery del MAST oltre 150 stampe originali del lavoro di Tuggener, sia tratte dal suo importante libro fotografico FABRIK – saggio unico nel suo genere con un approccio critico di grande impatto visivo e umano sul tema del rapporto tra l’uomo e la macchina – sia da altri scatti dell’artista che affrontano momenti del lavoro nel suo paese.
“Tuggener è stato al tempo stesso fotografo, regista e pittore. Ma si considerava anzitutto un artista – afferma Martin Gasser, co-curatore della mostra -. Influenzato dal cinema espressionista tedesco degli anni Venti, sviluppò una cifra artistica estremamente poetica destinata a fare scuola nel secondo dopoguerra. FABRIK consolidò la fama di Tuggener quale eccezionale fotoartista, aprendogli le porte di prestigiose esposizioni collettive come ‘Postwar European Photography’ del 1953 e ‘The Family of Man’ del 1955 al Museum of Modern Art di New York, o la ‘Prima mostra internazionale biennale di fotografia di Venezia’ del 1957.” In FABRIK Tuggener, oltre a ripercorrere la storia dell’industrializzazione, aveva come finalità, non sempre svelata, di illustrare il potenziale distruttivo del progresso tecnico indiscriminato il cui esito, secondo l’autore, era la guerra in corso, per la quale l’industria bellica svizzera produceva indisturbata.
Le proiezioni NUITS DE BAL 1934–1950 al livello 0 del MAST presentano immagini di balli ed altre occasioni mondane. Tuggener affascinato dall’atmosfera spumeggiante delle feste dell’alta società aveva iniziato a fotografare a Berlino le dame eleganti e i loro abiti di seta, ma è a Zurigo e a St Moritz che con la sua Leica, indossando lo smoking, ha colto le misteriose sfaccettature delle NUITS DE BAL. Riprendeva con il suo obiettivo anche “il lavoro invisibile” dei musicisti, dei camerieri, dei cuochi, dei valletti, dei maître, che attraversavano silenti il mondo festoso ed autoreferenziale degli incuranti ospiti. Questi ultimi osteggiarono la pubblicazione del materiale dedicato ai balli, in quanto preferivano rimanere anonimi e non essere visti in intrattenimenti danzanti.
“È stato soprattutto il contrasto tra la luminosa sala da ballo e il buio capannone industriale a caratterizzare la percezione della sua opera artistica. Il fotografo stesso, affermando: ‘Seta e macchine, questo è Tuggener’, si collocava tra questi due estremi – spiega ancora Gasser – . Di fatto amava entrambi, il lusso sfrenato e le mani sporche dal lavoro, le donne seducenti e gli operai sudati. Li riteneva di egual valore artistico e rifiutava di essere classificato come un critico della società che contrapponeva due mondi antitetici. Al contrario, gli opposti rientravano appieno nella sua concezione della vita: amava vivere intensamente gli estremi, senza tralasciare le sfumature più tenui tra i due poli”.
Accanto alle 150 immagini delle fabbriche e allo slide show del lavoro sui balli, MAST propone una raccolta di “menabò” di libri fotografici, che lo stesso Tuggener impaginava manualmente.
Inoltre per rappresentare l’eclettismo e l’eccezionalità di questo artista, il percorso è arricchito da filmati caratterizzati da una regia dinamica e una tecnica di montaggio che deve molto alle teorie di Ejzenštejn, con passaggi dal campo totale al primo piano.
La Città di Abano Terme presenta: “An ordinary day” una mostra fotografica di Umberto Verdoliva presso VILLA ROBERTO BASSI RATHGEB Via Appia Monterosso 52 Abano Terme (PD)
Apertura dal 27 febbraio al 13 marzo 2016
Nel panorama odierno, nel quale la Street Photography viene largamente apprezzata, ci sembra che l’approccio al genere stia mutando rapidamente, distanziandosi notevolmente dalle sue origini. Quando abbiamo cominciato ad occuparci di fotografia di strada, negli anni novanta, abbiamo dovuto trovare i nostri riferimenti nella storia della fotografia nazionale e soprattutto internazionale. E abbiamo scoperto che esiste una tradizione colta e, al disopra di tutto, che questa tradizione è caratterizzata da valori condivisi. La recente moda che sta avvicinando sempre più persone a questo genere, punta invece agli aspetti più “d’effetto”, superficiali e immediati. A volte non sembra che si basi su una vera e propria ricerca. L’esperienza di Umberto Verdoliva, invece, ci appare come un caso fuori dal comune, quasi inaspettatamente positivo considerato il panorama attuale, e ci fa ben sperare per il futuro della Street Photography. E’ per questo che il gruppo Mignon ha deciso di promuovere il suo lavoro, attingendo liberamente dal suo archivio e articolando il lavoro secondo uno schema che potremmo definire “emotivo”. Nella visione fotografica di Umberto ritroviamo quella curiosità propria di chi sente, nell’assecondare il proprio impulso creativo, di doversi comunque confrontare con chi lo ha preceduto, per individuarne la strada e coglierne l’ispirazione intuendo che, in quell’incontro, può trovare solo crescita. Nella sua magistrale lucidità visiva, fatta di molti piccoli lavori, spesso ancora in itinere, rivediamo alcuni aspetti della nostra stessa ricerca. Nel suo prolifico rapporto con la storia e gli autori del passato, cogliamo quell’indagine della luce, nel buio della produzione fotografica contemporanea, che fa ben sperare. Nel suo approccio di scambio e condivisione, che lo ha portato a fondare il collettivo SPONTANEA, rivediamo lo spirito di gruppo che ha caratterizzato e favorito, fin dalle origini, l’evoluzione del mezzo fotografico. Umberto ha intercettato in modo costruttivo quanto di meglio si può ricavare dai nuovi sistemi di scambio e comunicazione attraverso il web, e soprattutto risulta un esempio che attrae l’attenzione degli altri, proponendo una fotografia che è, genuinamente e positivamente, autorale.
Tempo fa avevamo pubblicato un’intervista ad Umberto: la trovate qui
Ryan McGinley – The four seasons
Dal 19 febbraio al 15 maggio 2016, la GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo e lieta di presentare l’ampia mostra di Ryan McGinley (Ramsey, New Jersey, 1977. Vive e lavora a New York), in assoluto la prima personale in un’istituzione italiana del celebre artista americano e la prima che la GAMeC dedica a un giovane fotografo del panorama internazionale.
McGinley è considerato uno dei più importanti e influenti artisti contemporanei, tanto che il Whitney Museum e il MoMA P.S.1 di New York gli hanno dedicato una personale rispettivamente nel 2003 e nel 2004. Nel 2007 è stato nominato Giovane fotografo dell’anno dal prestigioso International Center of Photography di New York.
Cresciuto prima nel New Jersey e poi nell’East Village newyorkese all’interno di quella inarrestabile comunità underground di graffitari, skateboarders e artisti, ha immortalato questo gruppo di ragazzi, nei loro eccessi e nell’irrequietudine delle loro vite, facendolo diventare il primo soggetto del suo lavoro, concretizzato nella prima pubblicazione dal titolo The Kids Are Alright (1999).
L’opera di Ryan McGinley è testimone e portavoce della sottocultura degli anni Novanta, poi esplosa in modo definitivo nel nuovo millennio; le sue fotografie digitali ruotano attorno alle tematiche della giovinezza, della libertà, dell’edonismo, degli eccessi, dello spirito vitale e del rapporto tra uomo e natura. Sono opere ricche di forza, attrazione e fascinazione la cui carica energetica si diffonde nei luoghi in cui le figure sono immerse.
Affermando a proposito della sua attività che “quello che facciamo è estremamente romantico”, McGinley crea un legame e un richiamo tra la sua opera e il mito romantico del Buon selvaggio che ha connessioni dirette con il Romanticismo e con la filosofia romantica e illuminista di Jean-Jacques Rousseau. Nei soggetti delle fotografie rappresentate pare proprio che l’uomo immerso, quasi incorporato, nella natura trovi in modo innato il giusto equilibrio con il mondo in cui vive, guardando il mondo con un’ingenuità benevola. E i soggetti delle fotografie di Ryan McGinley sembrano agire secondo il proprio istinto, un istinto che si armonizza naturalmente e necessariamente con la realtà che vivono. È quanto viene egualmente espresso, ma in modo ancor più influente sulla controcultura statunitense, dal libro Walden, resoconto dell’avventura dell’autore Henry David Thoreau, che dedicò due anni della propria vita nel cercare un rapporto intimo con la natura. In particolare, la Beat Generation ha visto nell’esperienza di Thoreau e nella sua forte volontà di un ritorno alla natura un contrasto con la crescente modernizzazione delle metropoli americane e questo pensiero si è riplasmato e diffuso largamente agli inizi del nuovo millennio.
La struttura espositiva, come spiega il curatore della mostra Stefano Raimondi, “procede con il ritmo musicale delle Quattro Stagioni di Vivaldi: in ciascuna sala si succedono orizzonti, colori, musicalità e atmosfere completamente diversi ma legati gli uni agli altri”.
La mostra si articola in quattro sale e presenta oltre quaranta lavori di medio e grande formato della produzione artistica più recente”. In particolare, le fotografie invernali e autunnali rappresentano un nuovo momento di ricerca e organizzazione del lavoro e sono concepite come un lavoro autonomo. Se dal 2004 e per una durata di dieci anni McGinley ha infatti viaggiato in tutto il continente alla ricerca delle location più diverse, realizzando gli scatti che idealmente compongono la quadrilogia delle stagioni, queste ultime due serie sono più circoscritte e in un certo modo più intime, legate a territori ben conosciuti ed esplorati.
L’inverno, che apre la mostra, è glorioso e maestoso, dominato dal colore del ghiaccio bianco-blu. Imponenti paesaggi innevati, stalattiti, grotte di ghiaccio e bufere di neve rendono epico il rapporto tra i corpi nudi e le condizioni climatiche estreme. Eppure non è ravvisabile alcuna sofferenza o rassegnazione; al contrario, si nota un totale adattamento, convivenza e compresenza, tempesta e impeto.
La primavera si sviluppa su toni delicati con una musicalità leggera, il suono del vento e il profumo dell’erba. L’uomo si fonde nella natura, disteso nei prati di un verde intenso o in fonti d’acqua, tra canneti e arbusti. Le fotografie della primavera, così come quelle dell’estate sono state scattate nel corso dei lunghi e già mitizzati viaggi fotografici realizzati dall’artista, che lo hanno portato alla scoperta di tutti gli Stati Uniti.
L’estate si apre con toni accesi e violenti, riflettendo la carica esplosiva della stagione. Una tempesta è prima annunciata dall’incupirsi del cielo e dai fulmini che si stagliano all’orizzonte, poi si scatena in tutta la sua potenza con l’uomo che la asseconda e la ascolta. Con la tempesta alle spalle, l’acqua rilasciata sul terreno diventa occasione per momenti di festa, passione e aggregazione.
Per l’autunno McGinley ha preso ispirazione da paesaggisti romantici americani ritratti da Frederic Edwin Church e da altri artisti appartenenti al movimento della Hudson River School, sviluppatosi nel XIX secolo. E proprio le zone nord di New York sono il punto di partenza di tutte le fotografie che compongono la serie. Le tonalità del colore diventano intensissime, i rossi e i gialli dominano la scena, le immagini trasmettono grande tranquillità ed empatia.
Le fotografie di Ryan McGinley presentate alla GAMeC sono di una bellezza sublime, spesso pervase da un tocco di nostalgia, sempre accompagnate da una musicalità ora soffice, ora impetuosa, ora silenziosa. La natura viene pensata sempre in termini di colori e forme; le fotografie vengono spesso realizzate alle luci dell’alba o di primo mattino oppure all’ora del tramonto o verso notte, quando l’atmosfera si fa più delicata ed emozionante. C’è qualcosa che accomuna la sua pratica fotografica alla ricerca pittorica: “Essendo un fotografo sei sempre in cerca di colori, e questo è ciò che accade quando sono in cerca dei luoghi in cui scattare. Nello stesso modo in cui un pittore deciderebbe un colore con cui dipingere, io cerco i colori nei luoghi”.
Ma se l’ambiente è una delle componenti centrali dell’opera di Ryan McGinley, altrettanto fondamentale è la presenza dell’uomo. Modelli maschili e femminili abitano questi paesaggi sconfinati come stessero vivendo o riconquistando un paradiso terrestre. Sono corpi innocenti e inevitabilmente nudi, in cui i colori e la forma del corpo, degli occhi e dei capelli viene messa in costante relazione con la natura circostante fino a diventare un tutt’uno, come dimostrano le opere Big Leaf Maple e Sugar (2015). Una natura che spesso è primordiale e completamente priva di ogni traccia di civilizzazione ma che in brevi frangenti, come si può vedere per esempio nelle fotografie I-Beam (Bolt) o Red Beetle (2015) reca i segni di una modernizzazione fuori luogo che vengono però resi innocui e riconvertiti a una dimensione innocente dall’utilizzo che ne viene fatto.
Ryan McGinley è anche tra gli autori contemporanei che Mu.Sa vi propone. Qua trovate un approfondimento su di lui.
Daido Moriyama in Color
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A distanza di sei anni dalla retrospettiva dedicata al suo lavoro in bianco e nero, Fondazione Fotografia Modena ha il piacere di presentare Daido Moriyama in Color, una nuova personale dedicata al maestro giapponese della street photography, e di mostrare i più recenti sviluppi della sua ricerca fotografica, segnata dalla riscoperta del colore.
Promossa da Fondazione Fotografia Modena e Fondazione Cassa di risparmio di Modena in collaborazione con la Galleria Carla Sozzani di Milano e in partnership con UniCredit, gruppo bancario da sempre impegnato in favore dell’arte e delle iniziative culturali nei territori dove è presente, Daido in Color sarà allestita al Foro Boario di Modena dal 6 marzo all’8 maggio 2016. Il percorso, a cura di Filippo Maggia, comprende una selezione di 130 fotografie, realizzate tra la fine degli anni sessanta e i primi anni ottanta.
Pur essendo noto prevalentemente per la sua produzione in bianco e nero, Daido Moriyama (Osaka, 1938) ha iniziato negli ultimi anni a rivalutare la fotografia a colori, rimettendo mano al suo vastissimo archivio e cominciando a pubblicare fotografie inedite, riferite soprattutto agli anni settanta. In quel periodo, Moriyama ha scattato in maniera quasi ossessiva, realizzando una quantità di fotografie a colori che non erano mai state pubblicate e che sono poi state raccolte nei recenti volumi fotografici Kagero and Colors (2008) e Mirage (2013). Fanno parte di questo filone a colori anche alcune rare fotografie bondage, commissionate all’artista dallo scrittore erotico giapponese Oniroku Dan, che Moriyama realizzò per pagarsi i viaggi in Europa, e altri scatti destinati all’edizione giapponese di Playboy.
Daido Moriyama in Color
Quando: 6 marzo – 8 maggio 2016
Dove: Foro Boario, via Bono da Nonantola 2, Modena
“JACOPO”
Mostra fotografica di Michele Brancati
a cura di Teodora Malavenda
Dal 13 febbraio al 10 marzo
Ci sono situazioni in cui il mezzo fotografico può rappresentare un valido aiuto per meglio comprendere un evento straordinario, che irrompe improvvisamente nella nostra vita rendendola diversa da com’era prima. La nascita di un figlio, per esempio, è uno di questi. Un bel giorno ti svegli e prendi coscienza, con inedita consapevolezza, di un’inversione di ruoli e dello sconvolgimento delle tue categorie. Il breve tempo di una carezza si traduce in una corrispondenza d’amorevoli gesti e in una reciprocità di sguardi e intese. È il momento in cui instauri, con il nuovo “altro”, un rapporto intimo e privilegiato.
Jacopo è nato nel quartiere punk di Kreuzberg, a Berlino, l’1 febbraio 2013. Come la maggior parte dei suoi coetanei è un bambino vivace che ama giocare all’aria aperta, correre nei prati, saltellare sulla spiaggia, buttarsi a terra e rotolare tra le foglie. Lo incuriosiscono gli alberi e lo ipnotizzano i fiori. L’acqua del mare, se da un lato lo intimorisce, dall’altro lo incita a sfidare il pericolo obbligandolo a immergere goffamente le sue manine. A Jacopo piace ascoltare la musica, ha un debole per De Andrè. Il papà di Jacopo si chiama Michele, ed è profondamente innamorato del figlio. Trascorrono molto tempo assieme e, col passare dei mesi, sono diventati amici inseparabili. Subito dopo la nascita di Jacopo, senza alcuna premeditazione, Michele prende in mano la sua macchina fotografica e inizia a immortalare i primi passi di Jacopo verso il futuro. Con grande sensibilità e profondo amore racconta scene di vita quotidiana. Filtrate dall’obiettivo, esse restituiscono poetici frammenti evocativi di gioia e tenerezza. In questo progetto si dipanano poco più di tre anni di vita del piccolo Jacopo: un percorso appena iniziato ma già ampiamente vissuto e “documentato”. Dinanzi a questi scatti sarà facile immaginare quante saranno ancora, per Jacopo, le discese sullo scivolo e le corse a piedi scalzi. Con un sorriso sincero, gli auguriamo il miglior futuro tra tutti quelli possibili
WAR IS OVER! L’Italia della Liberazione nelle immagini dei U.S. Signal Corps e dell’Istituto Luce, 1943-1946
A cura di Gabriele D’Autilia ed Enrico Menduni, la mostra propone un confronto tra due diversi sguardi che raccontano la Liberazione in Italia: quello delle fotografie a colori dei Signal Corps dell’esercito americano e quello delle immagini in bianco e nero dei fotografi dell’Istituto Luce, molte delle quali inedite o precedentemente censurate. La mostra è promossa e organizzata da Istituto Luce-Cinecittà e da Forma Meravigli, un’iniziativa di Fondazione Forma per la Fotografia in collaborazione con la Camera di Commercio di Milano e Contrasto, con il patrocinio dell’Università degli Studi Roma Tre e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
10 febbraio – 10 aprile 2016 – Forma Meravigli – Milano
Fotografie di fotografie ritrovate all’interno di case rurali abbandonate in Valdossola, in cui era ancora possibile ritrovare fotografie, lettere e documenti cartacei di chi vi aveva abitato decenni prima. L’interesse partiva dall’induguare quanto una foto-ricordo di una persona, in quanto tale, sopravviveva ed era conservata fino al momento in cui era mezzo e media di una memoria, di un nome o volto da ricordare. L’abbandono di questi ‘cimeli’ corrispondeva ad una seconda morte, ad una sorta d’induista ‘dissoluzione dell’ego’ di coloro che erano raffigurati. Al fotografo (o meglio all’intruso) rimaneva soltanto il compito ‘archeologico’ del ritrovare, del ‘riordinare’ ricordi e presenze di un periodo (mi ero concentrato solo su immagini tra la fine dell’Otto e i primi trent’anni del Novecento) di un periodo storico svanito.
Barbara Falletta – Zerodue
Fin dalla sua nascita, la fotografia ha avuto un rapporto diretto con la città. Parigi interpretata da Daguerre, Nadar, Atget; New York fotografata da Riis, Stiglitz, Abbot. Lo sviluppo e le trasformazioni delle grandi città sono tuttora tra i temi che sollecitano maggiormente il lavoro dei fotografi. Senza dubbio le caratteristiche del mezzo e in primis il suo rapporto imprescindibile con la realtà, ne fanno uno strumento ideale per seguire e documentare nel tempo l’evoluzione urbanistica, architettonica, sociale e culturale delle città. La fotografia di città è diventata un vero e proprio genere nell’ambito del quale confluiscono diverse modalità operative, differenti approcci tematici e atteggiamenti espressivi: dalla street photography alla fotografia analitica del paesaggio urbano, dagli intenti di carattere più documentario agli interventi maggiormente “creativi” e di elaborazione dell’immagine. Barbara Falletta, fotografa che predilige il bianco e nero e che ben conosce l’utilizzo del procedimento analogico negativo/positivo – da bambina si è appassionata alla fotografia seguendo il lavoro di stampa in camera oscura – ci propone, in questa sua recente ricerca, una personale lettura della città di Milano. Milano è la città del nostro paese che ha subito in questi ultimi anni i mutamenti più importanti e radicali. L’imporsi dell’economia dei servizi sulla produzione industriale, la chiusura delle grandi fabbriche, l‘incremento della popolazione multietnica e altri fattori di carattere socio-economico ne hanno innescato un repentino cambiamento sia in ambito sociale, che per quanto concerne gli aspetti urbanistici e architettonici – si pensi alla zona di Porta Nuova, all’area dell’ex Fiera (Milanocity) o a situazioni più periferiche come i quartieri Adriano e Santa Giulia.
Le immagini di Falletta hanno un rapporto diretto con i cambiamenti e le trasformazioni del capoluogo lombardo. Le sue fotografie del paesaggio urbano milanese sono spesso caratterizzate dalla presenza di palazzi in costruzione, cantieri sovrastati da gigantesche gru metalliche, strade e ponti “in lavorazione”. Ma il cambiamento si legge, ad esempio, anche in immagini come quella dove due ragazze dai lineamenti orientali, sedute al tavolo di un locale, hanno come sfondo l’iconica facciata del Duomo.
Un altro elemento che caratterizza fortemente questa serie di fotografie è il movimento. L’autrice sceglie di organizzare le sue composizioni in modo da accentuare l‘idea di città in movimento. Lo fa utilizzando linee che producono prospettive profonde (i binari della ferrovia, l’autostrada), utilizza tempi di posa lunghi per ottenere inquadrature completamente o parzialmente mosse, sceglie il formato panoramico per invitare lo sguardo a esplorare lo spazio, sfrutta l’andamento curvilineo dei profili delle nuove vertiginose architetture.
La città fatta di novità e movimento è però rappresentata utilizzando un bianco e nero denso, contrastato, a volte cupo o caratterizzato da una luce opaca filtrata da un cielo grigio e carico di pioggia. E’ proprio in questo contrasto, in questa contraddizione visiva tra l’idea di città rinnovata e in movimento e l’atmosfera cupa, chiusa che le immagini di Falletta rivelano un’originalità particolare. Una visione fuori dagli stereotipi di tanta fotografia contemporanea, dei panorami notturni, ripresi dall’alto, sfavillanti di luci multicolori che trasformano le città in tante surreali Gotham City.
La Milano di queste fotografie è invece una città vista dalla strada, meno luccicante, meno patinata, lontana anche dai clamori entusiastici (?) dell’Expo. Una città più intima, più personale, interpretata dalla particolare sensibilità della giovane autrice che, con i suoi toni scuri e contrastati, trasmette una certa sensazione d’inquietudine, d’insicurezza che fa stranamente pensare alle atmosfere lontane della Milano dei romanzi di Scerbanenco. L’arcobaleno squarcia le nuvole sopra le alte torri di vetro.
Gianni Maffi
Spaziofarini6 – Milano dal 5 Febbraio al 2016 al 4 Marzo 2016
In treno da Trieste ad Istanbul, attraverso i Balcani Il mio desiderio non era di vedere Istanbul, ma l’esperienza del viaggio per arrivarci, di perdermi nei Balcani
L’idea di arrivare ad Istanbul in treno mi era venuta leggendo un breve racconto di Paolo Rumiz.
Un giorno di fine gennaio ho preso lo zaino, la macchina fotografica e, senza nessuna prenotazione, sono partito per arrivare ad Istanbul.
Una specie di piccola avventura.
Trieste, e poi Lubiana.
Il giorno dopo, treno verso Belgrado, e la notte successiva verso Sofia.
Infine un altro treno notturno, il Balkan Express, che mi ha portato ad Istanbul.
Freddo, continue tempeste di neve, cercare un albergo, parlare dentro a fumosi bar con degli sconosciuti, incontrare persone ed entrare nelle loro case, o solo per qualche momento nelle loro vite.
Questo non e’ altro che il racconto fotografico di quello che ho visto dai finestrini sporchi dei treni, per strada, nelle case. Michele Mattiello
Libreria Pangea – Padova – dal 13 febbraio al 5 marzo 2016
GALLARATE (VA) AL MA*GA DAL 20 FEBBRAIO AL 28 MARZO 2016
Dal 20 febbraio al 28 marzo 2016, il MA*GA DI Gallarate (VA) ospita la mostra di Marco Introini (1968) dal titolo Ritratti di monumenti presentata da Maddalena d’Alfonso con 30 fotografie inedite dell’artista milanese. Tali opere nascono dal suo interesse per l’architettura e per il monumento inteso come documento e stratificazione materiale della memoria collettiva e sono il frutto della collaborazione con la storica impresa di restauro Gasparoli. Oggetto dell’indagine sono alcuni importanti edifici storici, che sono stati recentemente oggetto di restauro a cura di Gasparoli Srl, come la Ca’ Granda, la Galleria Vittorio Emanuele, la Casa Manzoni, Sant’Ambrogio, San Lorenzo, a Milano, la Villa Reale di Monza, e ancora l’oratorio Visconteo di Albizzate (VA).
Fotografare i processi evolutivi urbani è una pratica che ha sempre accompagnato l’attività di Marco Introini e costituisce strumento originale per una riflessione sull’architettura e sulla città. La volontà di documentare il gesto conservativo e artistico del restauro diventa occasione per creare opere d’arte capaci di raccontare la storia -e la cura del patrimonio – con immagini di grande intensità artistica. La cifra più caratteristica delle fotografie di Marco Introini sta nella luce nitida che avvolge le architetture ritratte e porta alla celebrazione della cultura materiale. Questo atteggiamento conduce a porsi una questione di fondo: se da un lato, è inevitabile rendere merito all’eccellenza italiana, dall’altro, ci si deve chiedere come si possa vivere i luoghi storici senza perdersi nella loro aura poetica. Se l’architettura nasce per essere vissuta e la fotografia per immortalare un momento irripetibile, nelle opere di Introini, i due atteggiamenti si invertono; in questo caso, sono le immagini a raccontare la possibilità di vivere uno spazio che sembra perfetto. I lavori urbani che ritraggono monumenti ed edifici restaurati ci invitano a guardare le immagini perfette di una costruzione mentale tipicamente europea. Il restauro dei monumenti, la conservazione degli edifici storici, persino la tutela di intere parti di città e di territorio sono infatti pratiche comuni per luoghi carichi di storia e di narrazioni collettive.
L’Associazione Culturale DeFactory è orgogliosa di presentare la sua nuova mostra annuale: ImageNation 2016: Occhi sul Mondo.
Dal 12 Marzo al 3 Aprile 2016, la Galleria Civica “G.B. Bosio” di Desenzano del Garda, ospiterà un collettivo di 60 fotografi: per quest’anno, infatti, DeFactory ha voluto aprire le sue porte anche a fotografi da tutto il mondo, raccogliendo un repertorio di storie e immagini, ma soprattutto di persone, di diversa origine ma con la comune passione per la fotografia. Il legame che unisce e stabilisce il dialogo tra questi e il visitatore è il racconto e, insieme, il desiderio di condividerlo e farlo conoscere attraverso quell’immediatezza che solo la fotografia riesce a veicolare.
Per mezzo di una raccolta per immagini da diversi Paesi e svariate realtà culturali, ImageNation 2016 e questi occhi sul mondo rappresentano uno spunto per riflettere sulla potenza del sentimento di identità dei popoli e per fermarsi ad osservare ciò che di bello il mondo mette a nostra disposizione. Sta solo a noi riconoscerlo, ammirarlo e, con cura, proteggerlo.
L’inaugurazione è in programma Sabato 12 Marzo, dalle ore 18. La Galleria Civica, sita in Piazza Malvezzi a Desenzano è aperta nei seguenti giorni e orari: Martedì, 10.30-12.30. Giovedì e Venerdì, 16.00-19.00. Sabato, Domenica e Lunedì di Pasqua: 10.30-12.30 e 16.00-19.00. L’ingresso è libero.
La mostra, curata da Martin Vegas, vede la partecipazione di 30 fotografi internazionali e altrettanti fotografi italiani, non solo locali. Tra questi, una fotografa italiana che vive a Parigi ha documentato, con profondo rispetto e nessun voyeurismo, i difficili giorni dopo gli attacchi terroristici del Novembre 2015. Mentre, tra i partecipanti internazionali, ben 4 di essi sono stati premiati come Photographer of the Year e altri 2 sono vincitori del prestigioso primo premio National Geographic. Altri, provenienti da Paesi del mondo dove la censura limita fortemente l’attività espressiva, stanno cercando, tra innumerevoli difficoltà, di superare questa sorta di invisibilità dovuta all’oscurantismo. Reportage e storie dal mondo, quindi, ma anche escursioni nelle nuove tendenze della fotografia contemporanea, dove l’estetica al servizio della creatività diventa protagonista di opere fine-art di alto livello.
Da questa importante iniziativa verrà tratto un libro fotografico di 130 pagine, con tutte le immagini in mostra e i progetti fotografici completi dai quali esse sono tratte. Il volume sarà disponibile dal giorno dell’inaugurazione presso la Galleria Civica di Desenzano del Garda.
19 febbraio – 8 aprile 2016 – Spazio Labò, Bologna
Uno spazio nuovo, generato dall’incontro con la realtà, dove i luoghi non hanno nome e così nemmeno le presenze che li attraversano. È un labirinto di frammenti, sagome, scorci. Il centro, la meta, altro non è che la reazione del fotografo alla loro presenza lungo il cammino. Gli scatti sembrano ricalcati sull’occhio dell’autore, tanto accompagnano il percorso girovago del suo sguardo. Tessendo una rete di rimandi, associazioni e tranelli, Clavarino si rivolge – con quella dose di ironia che solo una relazione intima consente – alla monumentale staticità del paesaggio italiano, investendola di rinnovate allegorie. Così, prima di diventare fotografie, questi frammenti sono le città di Calvino, i versi di Montale, i vuoti di De Chirico, i colori di Morandi. La storia della rappresentazione dell’Italia si manifesta, più vivida del suo storicismo. Familiare, se non riconoscibile. Antiche rovine sono interrotte dalle tracce del presente, quasi un impiccio al silenzio di questo sogno senza tempo.
Testo critico a cura di Ilaria Speri
Quando una fotografia di strada può dirsi riuscita? Credete che basti uscire in strada per fare Street Photography?
La Street photography è uno dei generi più difficili in fotografia. Nella maggior parte dei casi (98%) non c’è contatto con il soggetto, tutto accade in una frazione di secondo e spam, o la becchi o t’attacchi! Fantastico! Non bastano gli anziani sulle panchine che leggono il giornale, le persone di spalle che camminano, i piccioni in piazza Duomo.
Oltre a questo, che non dico non possa essere presente, ci vuole qualcosa in più, un’eccezione, uno schiaffo a chi guarderà la fotografia, uno squarcio di luce, un colore accecante, un’atmosfera sognante. Meglio se tutte queste cose insieme.
Ho chiesto ad alcuni bravi (a mio parere) Street photographer italiani, cosa fosse per loro una buona fotografia colta in strada, ecco le interessanti risposte. Ciao Sara
Il pensiero di Umberto Verdoliva
Io credo che una buona fotografia di strada funzioni nel momento in cui riesce ad attirare e a far soffermare l’osservatore aprendogli un “piccolo mondo” su di un qualcosa che mai aveva potuto credere possibile o vedere prima, sollecitando in essi delle emozioni, degli interrogativi, la curiosità di vedere altro. Esistono una infinità di attimi e di possibilità che a volte si basano su dettagli, particolari, sensazioni che emergono da gesti, sguardi, improbabili coincidenze, originali reinterpretazioni molto spesso davvero lontani dalla realtà ma che solo la fotografia sa trasformare e riportare, immediatamente o nel tempo, nei modi più vaghi possibili.
Fotografia di Umberto Verdoliva
Una buona fotografia di strada si collega al mondo ma da anche la possibilità, a chi guarda, di distaccarsi da esso e di trasformare la realtà in altro; ed è ciò che la rende affascinante e così speciale.
La grande attrattiva che essa ha, sia per chi la pratica e sia per chi la osserva, è data proprio da questa “individuazione continua del momento significativo” che un fotografo, a volte con grande consapevolezza ma molto spesso da una totale casualità, riesce a cogliere spinto dal proprio istinto, dalla fortuna, dalle occasioni. Ogni “preda” catturata, sottoforma di stimoli reali trasmessi all’osservatore, diventa linfa e forza per continuare a cercare.
Il dubbio maggiore potrebbe essere quello di capire fino a che punto farsi coinvolgere in questa “gara” con il quotidiano. Dimenticare che la fotografia di strada può e deve essere anche documento dei tempi, la cartina tornasole dei cambiamenti reali in atto nella società contemporanea, si potrebbe rivelare un grave errore da non commettere.
Una street che funziona, secondo me, è una fotografia che attraverso l’interpretazione dell’autore ti trasporta dentro la scena, sfrutta il contesto “ordinario” ma racconta un nuovo punto di vista, oppure ti fa notare e godere di cose che ad occhio nudo e senza il processo fotografico, non immagineresti neanche che esistono.
Però credo che non ci siano regole che definiscano quale sia la foto perfetta: nella street, come in altri generi, esistono linee alle quali far riferimento e naturalmente ispirarsi ma sarà l’autore, attraverso la sua esperienza e la sua coerenza stilistica, a creare la street che, per lui, funziona.
Fotografia di Salvatore Matarazzo
Il fatto che poi può funzionare anche per altri, in questo genere, secondo me è marginale: non stiamo parlando di una fotografia commerciale che, per ovvi motivi, deve accontentare più persone possibili; nella street ogni spettatore avrà una sua cultura, una sua ricerca, un suo punto di vista e giudicherà la tua foto in base a questi elementi. Potrai dare un messaggio positivo per alcuni e negativo per altri. Spesso noi “addetti ai lavori” ci poniamo anche troppi problemi, dimenticandoci ciò che è la fotografia e cioè libertà di espressione. Per me la street è curiosità, libertà e amore, mi sentirei ipocrita con me stesso a rinchiuderla dentro schemi e regole precise.