ZANELE MUHOLI, storia visiva nera e trans del Sud Africa

Articolo di Giovanna Sparapani

“La mia missione è riscrivere una storia visiva nera e trans del Sudafrica, affinché  il mondo sappia della nostra esistenza e resistenza ai crimini d’odio nella mia terra ed oltre”. ZANELE MUHOLI

Nata a Umnazi, Durban (Sudafrica) nel 1972, ultima di cinque figli, cominciò a lavorare come parrucchiera, coltivando segretamente il sogno di diventare un’artista visiva: la sua formazione avvenne a Johannesburg e in seguito a Toronto.

 Definendosi “attivista visiva ”, attraverso una documentazione fotografica acuta ed elegante supportata da  un fine dichiaratamente politico, si propone di difendere i diritti degli individui soggetti a vari tipi di intolleranza, purtroppo ancora diffusi in tutto il mondo. Dai primi anni duemila ha iniziato a documentare le vite delle persone appartenenti a comunità lesbiche, gay, trans, queer del Sudafrica, per opporsi a pregiudizi e discriminazioni che rendono difficile affermare con dignità la propria esistenza per una fetta di umanità ‘diversa’ e dunque da emarginare, soprattutto nel continente africano. Nelle sue fotografie parla di povertà, di emarginazioni, di dolori condivisi, di intolleranze razziali, anche se il focus principale di tutto il suo lavoro è diretto verso il mondo LGBTQIA+.

 Nei suoi intensi ritratti e autoritratti in bianconero, i soggetti sono  per lo più immortalati in pose che richiamano canoni classici, ma gli orpelli che li adornano – soprattutto vesti,  gioielli e copricapi – sono assolutamente contemporanei, composti con materiali di uso quotidiano, come spugne, retine per i piatti, mollette per i panni, pettini, corde…… ; presenti talvolta anche elementi vegetali tipici della flora del suo paese a cui Zanele è particolarmente legata.

 Le serie di foto riunite sotto il titolo “Volti e fasi”, che l’ha fatta conoscere al mondo, contiene centinaia di ritratti di donne di colore, realizzati entrando con coraggio nella vita e nell’intimità dell’universo femminile omosessuale: nessuna immagine contiene elementi ridicoli o sopra le righe, tutto è risolto con grande serietà e sobrietà. Non solo fotografa, ma anche regista, Zanele nel 2010 dirige a fianco di Petre Glodsmid,”L’Amore difficile”, un documentario ‘senza veli’ che ci introduce all’interno del suo mondo creativo e della sua sfera privata: 48 minuti in cui si possono trovare immagini e situazioni molto crude, ma sempre autentiche e coraggiose, “ un autoritratto potente e commovente di un’artista e di una militante totale”. Dopo questo importante lavoro, cominciano ad arrivare i riconoscimenti: nel 2013 viene nominata Prof.sa di cinema e fotografia presso l’Accademia di Brema in Germania e nel 2017 è considerata l’artista più importante all’interno di una mostra organizzata a Parigi presso la Fondazione Louis Vuitton. Nel 2020 i suoi ritratti e autoritratti sono ospitati alla Tate Modern di Londra, riscuotendo un grande successo di pubblico e critica.

Alla  58.esima Biennale di Venezia del 2019, viene presentato il suo progetto più impegnato e più celebre  che contiene una serie eccezionale di autoritratti a partire dal 2012: “Somnyama Ngonyama” (in italiano, “Ciao, leonessa nera”): le pose e le vesti sono le più diverse, i volti dagli sguardi intensi  vengono rivolti con fierezza verso l’osservatore, alla ricerca di una piena affermazione di sé. La fotografa ci tiene a sottolineare che i ritratti sono stati realizzati alla luce del giorno, senza effetti luministici artificiosi, il suo volto è volutamente molto scuro, quasi a volersi uniformare e confondersi con i fondi neri: le sclere bianche degli occhi e le labbra spesso dipinte con colori molto chiari e luminosi, creano affascinanti contrasti con la pelle del volto dalle sottili luminescenze.

 Attualmente a Parigi,  la Maison Européenne de la Phptographie (MEP) ospita fino al 23 maggio una nutrita esposizione con 200 fotografie, video, installazioni, documenti d’archivio, a partire dagli anni 2000, a documentare l’attività della fotografa fino ai giorni nostri.

Zanele Muholi: Somnyama Ngonyama, Hail the Dark Lioness, aperture Foundation,New York,2018

Zanele Muholi Somnyama Ngonyama, Ave leonessa nera, ed. 24 Ore cultura, 2021

NB: Le foto sono tutti autoritratti

Il posto ha solo scopo didattico, culturale e informativo, le immagini sono e rimangono di proprietà dell’artista

Articolo di Giovanna Sparapani

I ritratti seriali di Hendrik Kerstens

Ciao a tutti,

il fotografo che vi presentiamo oggi si distingue per la particolarità di aver ritratto un unico soggetto in tutte le sue immagini: la figlia Paula.

Si chiama Hendrik Kerstens, ed è olandese.

Già tempo fa avevamo parlato della serialità in fotografia, che non è sinonimo di monotonia, nemmeno in questo caso.

Personalmente mi incuriosisce molto l’andare a a scoprire il ritratto successivo, e le differenze con il precedente, seppur spesso quasi impercettibili.

Voi che ne pensate?

Anna

Hendrik Kerstens è un fotografo e artista visivo olandese, nato nel 1956 a The Hague. È noto per i suoi ritratti di sua figlia Paula.

Kerstens non ha mai avuto una vera e propria educazione in ambito artistico, ma gestiva un’azienda di importazione formaggi a The Hague. Nel 1995, dopo la nascita della figlia Paula, lasciò l’azienda per dedicarsi alla fotografia. Più che scattare istantanee di famiglia, il suo intento è col tempo diventato la documentazione degli eventi e dei cambiamenti nella vita della figlia, esprimendo tramite le immagini il senso di responsabilità, vulnerabilità e amore nei confronti della figlia. Con la crescita di Paula, Kerstens si è trasformato da reportagista in artista visuale specializzato in staged photography. Kerstens afferma di essersi ispirato ai grandi pittori fiamminghi del XVVII secolo, utilizzando la figlia Paula come musa ispiratrice.

Occasionalmente lavora anche su commissione per riviste quali The New York Times Magazine; tra i soggetti da lui ritratti, il regista Michael Haneke e l’attore Alec Baldwin.

Le sue immagini sono esposte in numerose gallerie e collezioni e gli hanno fruttato l’assegnazione di diversi premi.

Attualmente vive e lavora ad Amsterdam.

Questo è il suo sito personale

Tutte le immagini sono coperte da copyright ©Hendrik Kerstens

L’ultima fotografia di Virginia Wolf

Questa è una delle due ultime  fotografie che ritraggono Virginia Woolf, ripresa da Gisele Freund nel 1939.

©Gisele Freund

La  Woolf è stata soggetto di molti ritratti pittorici, articoli e libri .Virginia non amava posare e tanto meno amava i ritratti convenzionali.

La Freund,  era specializzata in ritratti di scrittori e artisti, e sapeva che se la Woolf avesse accettato, molti personaggi famosi avrebbero deciso di farsi ritrarre da lei.   È fu così, dato che fotografò anche T.S. Eliot, Elizabeth Bowen, George Bernard Shaw, Vita Sackville-West, fino ad arrivare a Herbert Read e Peggy Guggenheim. La Freund aveva recentemente cominciato a scattare a colori, metodo appena uscito sul mercato

Virginia Woolf, inizialmente si rifiutò di incontrare la Freund ma Victoria Ocampo, fondatrice della rivista Sur, che la Woolf ammirava molto, le mostrò i provini a contatto dei personaggi che la fotografa aveva ritratto.

Sotto pressione, la Woolf accetta ma nel suo diario si legge: mi aspetta un pomeriggio detestabile ...

Nel diario non si legge niente sulle impressioni del pomeriggio trascorso con la Freund, ma sembra che sia andato molto bene, visto che sembra abbia mostrato a Gisele, il suo guardaroba e le abbia permesso di scegliere quale fosse il vestito migliore per il ritratto.

Inoltre dice alla Freund di essere considerata una brava fotografa in famiglia e di avere una copia del libro di J.M. Cameron, del quale aveva scritto una prefazione.

Questa sessione di ripresa porta ad uno dei ritratti considerato tra i migliori della Woolf oltre ad essere l’unica fotografia a colori della scrittrice.

In quel periodo non era ancora possibile andare in stampa con fotografie a colori tanto che questa immagine è stata vista solo in bianco e nero, per molto tempo.

Ciao Sara

Testo estratto da Frances Spalding’s catalogue for Virginia Woolf: Art, Life and Vision which opens at the National Portrait

I ritratti curiosi e coinvolgenti di Hanna Putz

 

 

La fotografa austriaca Hanna Putz è nata a Vienna nel 1987. Ha iniziato la sua carriera lavorativa come modella internazionale per alcuni anni prima di decidere, nel 2009, di dedicarsi interamente alla fotografia. Senza un’educazione formale alla fotografia, Hanna Putz ha ottenuto molti ricoscimenti internazionali e le sue immagini sono state pubblicate su alcune importati testate del settore;  Zeit Magazin, Dazed & Confused, HUSK, New York Magazine, e molti altri.

Con un occhio sensibile alla composizione fotografica e una naturale propensione per la realtà della vita quotidiana, le fotografie di Hanna Putz fanno luce sul rapporto tra persona e macchina fotografica, alludendo al fragile gioco dell’identità e della rappresentazione. Le sue opere sono intrise di onestà ed esprimono una profonda comprensione della natura dell’auto-presentazione. Di fronte alla sua macchina fotografica, i rapporti umani sono intimamente e naturalmente svelati, spogliati dei loro elementi “spettacolari e rumorosi”, gli esseri umani possono apparire nella loro naturale essenza.

Il progetto “Portraits” si sviluppò gradualmente. “La maggior parte delle immagini sono nate avvicinandomi alle persone che trovavo interessanti, sia nella cerchia dei miei amici che individui incontrati solo occasionalmente, chiedendo loro di poterli ritrarre”.

“Mi interessa l’esigenza di autorappresentazione al giorno d’oggi. Tutto è pubblico, pochissime cose sembrano essere private.

Cerco di cogliere la sostanza di una persona o di descrivere un sentimento attraverso la composizione all’interno di un’immagine. Forse è quello che si potrebbe chiamare la vera  natura umana, le cui tracce a volte possono trovare la loro strada e significato in una fotografia“.

Il lavoro evocativo di Putz senza dubbio modifica e in alcuni casi varca i confini tra l’arte e la fotografia di moda,  fotografia privata e pubblica, rendendo difficile definire o catalogare il suo lavoro. Attualmente, Hanna Putz lavora tra Vienna e Londra,  viaggia molto e continua a sviluppare e divulgare le sue conoscenze come docente di fotografia presso l’Università di Arte e Design di Linz, in Austria.

Le sue fotografie sono state esposte in Europa e negli Stati Uniti, e nel 2012 è stata selezionata come una delle dieci finaliste al Premio di fotografia contemporanea di Hyères in Francia e anche come finalista per il 1000 Words Photography Award 2012 a Londra.

Qui il sito ufficiale della fotografa, dove potete trovare tutti i sui lavori.

 

Ciao

Giovanni

Nell’era dei selfie, vi presento Cindy Sherman

L’artista che vi voglio presentare oggi è Cindy Sherman, famosa per i suoi autoritratti pop e dissacranti, che prendono spesso di mira gli stereotipi femminili. Una grande.

Buona visione

Anna

 

 

 

Cindy Sherman (Glen Ridge, 19 gennaio 1954) è un’artista, fotografa e regista statunitense, conosciuta per i suoi autoritratti concettuali (self-portrait).

Poco tempo dopo la sua nascita, la famiglia lasciò il New Jersey per trasferirsi a Huntington, Long Island. Cindy Sherman cominciò a interessarsi di arti visive già al college (SUNY Buffalo), dove cominciò a dedicarsi alla pittura, che però abbandonò presto per dedicarsi alla fotografia. Insieme a Longo (Compagno di studi), a Charls Clough e altri artisti fonda la galleria d’arte Hallwalls. Per un breve periodo si focalizza sulla pittura dipingendo in maniera realista copie di foto tratte da riviste e ritratti. Quando in America ci fu la contestazione femminile, Sherman si appropria dello stereotipo maschilista della donna sensuale, lo interpreta in prima persona per riutilizzarlo in chiave ironica. Usa lo stereotipo per eliminare lo stereotipo.

Nel 1995, Sherman ha ricevuto uno dei prestigiosi premi MacArthur Fellowships, conosciuti come “Genius Awards.” Nel 2006 ha creato una serie di pubblicità di moda per il designer Marc Jacobs. Nell’autunno del 2011 MAC, azienda leader nella produzione di cosmetici professionali, esce con una collezione i cui poster pubblicitari ufficiali sono delle caratterizzazioni della Sherman.

Attualmente lavora a New York.

Sherman produce serie di opere, fotografando se stessa in una varietà di costumi. In serie recenti, datate 2003, si presenta come clown. Sebbene la Sherman non consideri il proprio lavoro femminista, molte delle sue serie di fotografie, come “Centerfolds,” (1981), richiamano l’attenzione sullo stereotipo della donna come appare nella cinematografia, nella televisione e sui giornali.

Cindy Sherman non manipola in alcun modo le sue foto. all’estremità opposta c’è invece la fotografia composta e manipolata, resa finzione. Questa strategia crea una finzione attraverso l’apparenza di una realtà senza soluzione di continuità; la Sherman adotta questo modo al fine di esporre una finzione filmica tramite una serie di fotografie usate come fotogrammi di una pellicola cinematografica.

Le fotografie della donna sono il ritratto di se stessa, nelle quali appare travestita recitando un ruolo. L’ambiguità narrativa è parallela all’ambiguità di se stessa, poiché Cindy Sherman è sia attrice che creatrice della foto. Le immagini create sono tutte riguardanti alcuni stereotipi femminili.

Il ciclo “Untitled Film Stills”
Gli Untitled Film Stills costituiscono una serie fotografica di 69 immagini in bianco e nero e di piccolo formato. Sherman è sia la “regista” che l’attrice protagonista della serie, all’interno della quale intende evocare gli immaginari cinematografici degli anni Cinquanta e Sessanta. Sherman mette a confronto le immagini del cinema hollywoodiano (in particolare del film di serie B e dei film noir) con le immagini del cinema europeo, riproducendone in entrambi i casi gli aspetti meramente visivi.

Gli Untitled Film Stills riproducono gli immaginari del cinema degli anni Cinquanta e Sessanta e secondo l’artista stessa non si riferiscono esclusivamente al cinema hollywoodiano. L’artista infatti cerca di inserire aspetti visivi del cinema europeo per contrapporli agli schemi del cinema americano. La serie prende in considerazione il cinema come schema di pensiero collettivo e come produttore di immaginario; le immagini generano un doppio livello di finzione che riproducono l’immaginario già di per sé fittizio del cinema.[3] Il fatto interessante nella prima fase di studio della Sherman è il suo voler preservare l’aura e lo stile di autori come Hitchcock, Antonioni e la corrente del neorealismo. L’autrice svolge un’attività di ricerca prendendo come riferimento Greta Garbo, il cinema est-europeo, il cinema muto e il cinema horror. L’immagine prodotta dalla Sherman è una riproduzione del fotogramma cinematografico. utilizzato come un’immagine sospesa; ovviamente, essa fa parte di una serie che produce una specie di narrazione cinematografica volutamente immobilizzata. Nel periodo dell’appropriation art, la riproduzione delle immagini e gli immaginari del cinema sono da intendere come unico riferimento collettivo alla realtà: è proprio ciò che Sherman fa con le sue fotografie, che sfidano il limite della loro esistenza oggettiva, tanto da rendere sfumato il confine con le immagini mediatiche. Possiamo ritrovare nello Still del fotogramma la compresenza di movimento e immobilità. Il fotogramma filmico introduce la frammentazione delle immagini, che non possono quasi mai essere percepite in modo isolato ed impongono allo spettatore di essere osservate nell’insieme. Gli Untitled Film Stills costituiscono un oggetto ambiguo. Essi mimano le fotografie pubblicitarie di film inesistenti costituendone l’unico fotogramma; c’è un’ispirazione generica agli stereotipi hollywoodiani ma nessuna citazione diretta. Emerge un processo di elaborazione dell’identità post-moderna intesa come costruzione immaginaria attraverso concetti di distanza e di sdoppiamento. Le immagini prodotte da Cindy Sherman non si riferiscono a nessun film in particolare, ma si riferiscono all’immaginario cinematografico collettivo e per questo sono definite simulacri: il concetto di ‘originale’ viene meno, proprio in virtù di questa produzione di immagini che nascono come copie prive di una matrice. Nella serie degli Untitled Film Stills, al di là dei riferimenti delle immagini dei libri da lei acquistati e dei suo studi, si serve della sua realtà. Permettendo che altre persone scattino le foto, la Sherman ha la possibilità di tagliarle, modificarle e dare alle immagini la forma voluta. Oltre che nei lavori della Sherman, anche in quelli di Richard Prince e Robert Longo, assume piena centralità l’idea del Film Still come nucleo di narrazione ipotetica da contrapporre e sostituire a quella dei media.

Negli Untitled Film Stills Cindy Sherman, vuole presentare i vari aspetti della donna tramite alcuni scatti. Le immagini che propone, forzano lo spettatore a “spezzare” l’immagine e l’identità che le donne sperimentano ogni volta. Ogni immagine avvicina lo spettatore a costruire la natura della donna, ma allo stesso tempo, avvicinandosi così tanto all’identità femminile, indebolisce questo tipo di costruzione (Stereotipo). C’è una dualità nelle opere della Sherman: da una parte, il fantasticare su ciò che mostra l’immagine, dall’altra la rappresentazione stessa della fotografia. Cindy Sherma, mostrando i tipi di donna e di femminilità, ci offre lo stile di visualizzazione e simultaneamente il tipo di femminilità: questi due aspetti sono inscindibili. L’osservatore non vede la rappresentazione della donna, ma la donna stessa, in quanto l’immagine diviene surrogato della realtà. Ogni posa ed espressione facciale sembrano esprimere un’immisurabile interiorità e una totale identità femminile. I frame congelano i momenti della performance e il senso della personalità è intrappolato nell’immagine stessa; l’espressione facciale è quasi un’impressione della situazione, ed il volto registra una data reazione. Alcune Stills rendono questo concetto molto esplicito (Untitled #96). Esattamente come succede in generale nei media, l’immagine di una donna in lacrime può essere usata per mostrare i sentimenti che determinanti eventi scaturiscono nell’essere umano; è l’evento che dona al viso l’espressione. Untitled Film Stills da definizione ad un momento preciso nella narrativa; in ogni Stills le donne ritratte suggeriscono qualcosa di profondo oltre a loro stesse, non sono mai complete. Non sono necessariamente parte del processo ideologico. Sherman utilizza nelle Stills alcuni dettagli, come ad esempio le labbra socchiuse, che danno un nuovo senso all’erotismo, mostrandone tutta la vulnerabilità al contrario di quello che accade nelle scene di sesso esplicito presenti in alcuni film horror, in cui le donne sono ritratte terrorizzate in posizioni vulnerabili. La vulnerabilità è sempre erotica. Le eroine della Sherman danno sempre l’idea di una donna vulnerabile e spaventata. Cindy Sherman si appropria anche della nostalgia, così come di altri elementi importanti per comporre il suo lavoro.

Un’altra particolarità delle Stills è quella della sessualità ambigua, sottolineata dal comparare le immagini in cui la “modella” è vestita con abiti prima maschili, poi femminili. Ci sono alcuni elementi che producono una lettura mascolina dell’immagine (Stills #112).

La femminilità ha diverse sfaccettature che danno l’idea di una superficie profonda e totale, le donne non devono rimanere intrappolate dietro questa superficie. Il lavoro di ritrattista della Sherman è una parodia dell’immagine che danno i media della donna.

Untitled Film Stills è una vera riorganizzazione e ricodificazione, non è un lavoro che si ferma alla critica della costruzione dell’io, ma una riaffermazione del post moderno; la costruzione si basa su film inesistenti. La sua opera è una rivelazione di stereotipi; imita il look di vari generi cinematografici e non c’è mai la Cindy Sherman reale in queste fotografie.

Dalla metà degli anni sessanta alla fine degli anni settanta, si verificano cambiamenti significativi nel campo delle arti visive e del cinema, e di conseguenza anche il lavoro della Sherman cambia, accentuando un rigore minimalista. In questo decennio inizia una nuova fase di produzione dell’autrice: il modo operativo di lavoro comincia a prendere una direzione più precisa, ricordando il suo lavoro precedente in cui cercò di salvare l’aura degli autori che aveva preso come riferimento. In questa nuova fase lavora con attrici famose come Brigitte Bardot nella Still #13, Jeanne Moreau nella #16 e Sophia Loren nella #35.

Altri lavori
Nel ciclo “A Play of Selves” lavora (richiamando lo stile di Duchamp) sul cambiamento di identità e sull’ analisi delle definizioni dell’apparenza e del genere dettate dai fotografi. Compare sola nelle sue fotografie, giocando con travestimenti, amatorialità e ricerca di sé stessi intesi come diverse entità, rimandando alla fragilità dell’ io di fronte ai meccanismi di identificazione e di riconoscimento sociale. Nel 1975 con il ciclo “Untitled A B C D” lavora sul proprio viso come tela, utilizzando trucco e accessori per assumere connotati diversi.

La sua non è un’indagine su se stessa come quella portata avanti da Francesca Woodman, ma un lavoro sull’identità in generale. Parla di sé stessa con distacco e lavorando su gli stereotipi e sui modelli. Si pensi al ciclo “Bus Rider”, in cui la Sherman reinterpreta con il gioco dei travestimenti le diverse tipologie di persone intente ad aspettare l’autobus, o al ciclo”Hollywood”, in cui lavora sui cosiddetti falliti, quegli individui cioè che hanno mancato il sogno americano; questo lavoro comprende quindi anche una riflessione sul patetico dei sogni che non si riescono a realizzare.

Lavoro molto importante è “Untitled film stills” in cui la Sherman ricrea dei fotogrammi cinematografici, mettendo in scena un’azione o uno stereotipo femminile del cinema americano. Nel 1980 presenta “Rear Screen Projection” in cui si fotografa su vari sfondi proiettati alle sue spalle, usati anche come fonte luminosa per lo scatto.

La Sherman lavora anche nel campo della moda, collaborando nel 1983 con la rivista Interview, Marc Jacobs, e Jurgen Teller; riprende poi il mondo della moda nel ciclo “Centerfold/Horizontals”, in cui reinterpreta delle pagine pubblicitarie, mettendole in scena. nel 1989 con il ciclo “ritratti storici e antichi maestri” si ricollega alla storia dell’arte, incarnando modelli immaginari della storia della pittura.

Dal 1985 con il ciclo “Fairytales”, e “Disasters” la Sherman introduce nel suo lavoro un nuovo elemento, che diventerà poi quasi una costante: i manichini; inizialmente usati per richiamare in maniera grottesca il mondo dei giocattoli, saranno i protagonisti nel ciclo “Sex pictures”, in cui vengono scomposti e utilizzati per reinterpretare scene hard.

 Qua trovate un’intervista pubblicata poco tempo fa su Repubblica.

Fonte “Wikipedia”

Cynthia Morris “Cindy” Sherman (born January 19, 1954) is an American photographer and film director, best known for her conceptual portraits. In 1995, she was the recipient of a MacArthur Fellowship.

She was born in Glen Ridge, New Jersey, the youngest of five children. Shortly after her birth, her family moved to the township of Huntington, Long Island, where her father worked as an engineer for Grumman Aircraft. Her mother taught reading to children with learning difficulties.

Sherman became interested in the visual arts at Buffalo State College, where she began painting. Frustrated with what she saw as the medium’s limitations, she abandoned the form and took up photography. “[T]here was nothing more to say [through painting]”, she later recalled. “I was meticulously copying other art and then I realized I could just use a camera and put my time into an idea instead.”Sherman has said about this time: “One of the reasons I started photographing myself was that supposedly in the spring one of my teachers would take the class out to a place near Buffalo where there were waterfalls and everybody romps around without clothes on and takes pictures of each other. I thought, ‘Oh, I don’t want to do this. But if we’re going to have to go to the woods I better deal with it early.’ Luckily we never had to do that.” She spent the remainder of her college education focused on photography. Though Sherman had failed a required photography class as a freshman, she repeated the course with Barbara Jo Revelle, whom she credits with introducing her to conceptual art and other contemporary forms. At college she met Robert Longo, who encouraged her to record her process of “dolling up” for parties.

In 1974, together with Longo, Charles Clough and Nancy Dwyer, she created Hallwalls, an arts center intended as a space that would accommodate artists from diverse backgrounds. Sherman was also exposed to the contemporary art exhibited at the Albright-Knox Art Gallery, the two Buffalo campuses of the SUNY school system, Media Studies Buffalo, and the Center for Exploratory and Perceptual Arts, and Artpark, in nearby Lewiston, N.Y.

It was in Buffalo that Sherman encountered the photo-based Conceptual works of artists Hannah Wilke, Eleanor Antin, and Adrian Piper.[11] Along with artists like Laurie Simmons, Louise Lawler, and Barbara Kruger, Sherman is considered to be part of the Pictures Generation.

Sherman works in series, typically photographing herself in a range of costumes. To create her photographs, Sherman shoots alone in her studio, assuming multiple roles as author, director, make-up artist, hairstylist, wardrobe mistress, and model.

Early work
Bus Riders (1976–2000) is a series of photographs that feature the artist as a variety of meticulously observed characters. The photographs were shot in 1976 for the Bus Authority for display on a bus. . Sherman uses costumes and make-up to transform her identity for each image, the cutout characters were lined up along the bus’s advertising strip. Other early works involved cutout figures, such as the Murder Mystery and Play of Selves.

In her landmark photograph series, the Untitled Film Stills, (1977–80), Sherman appeared as B-movie and film noir actresses. When asked if she considers herself to be acting in her photographs, Sherman said, “I never thought I was acting. When I became involved with close-ups I needed more information in the expression. I couldn’t depend on background or atmosphere. I wanted the story to come from the face. Somehow the acting just happened.”

Many of Sherman’s photo series, like the 1981 Centerfolds, call attention to the stereotyping of women in films, television and magazines. When talking about one of her centerfold pictures Sherman stated, “In content I wanted a man opening up the magazine suddenly look at it with an expectation of something lascivious and then feel like the violator that they would be looking at this woman who is perhaps a victim. I didn’t think of them as victims at the tim… Obviously I’m trying to make someone feel bad for having a certain expectation”.

She explained to the New York Times in 1990, “I feel I’m anonymous in my work. When I look at the pictures, I never see myself; they aren’t self-portraits. Sometimes I disappear.” She describes her process as intuitive, and that she responds to elements of a setting such as light, mood, location, and costume, and will continue to change external elements until she finds what she wants. She has said of her process, “I think of becoming a different person. I look into a mirror next to the camera…it’s trance-like. By staring into it I try to become that character through the lens … When I see what I want, my intuition takes over—both in the ‘acting’ and in the editing. Seeing that other person that’s up there, that’s what I want. It’s like magic.”

The Untitled Film Stills
The series Untitled Film Stills, 1977–1980, with which Cindy Sherman achieved international recognition, consists of 69 black-and-white photographs. The artist poses in different roles and settings (streets, yards, pools, beaches, and interiors), producing a result reminiscent of stills typical of Italian neorealism or American film noir of the 1940s, 1950s and 1960s. She avoided putting titles on the images to preserve their ambiguity.Modest in scale compared to Sherman’s later cibachrome photographs, they are all 8 1/2 by 11 inches, each displayed in identical, simple black frames. Sherman used her own possessions as props, or sometimes borrowed, as in Untitled Film Still #11 in which the doggy pillow belongs to a friend. The shots were also largely taken in her own apartment. The Untitled Film Stills fall into several distinct groups:

The first six are grainy and slightly out of focus (e.g. Untitled #4), and each of the ‘roles’ appears to be played by the same blonde actress.
The next group was taken in 1978 at Robert Longo’s family beach house on the north fork of Long Island. (Sherman met Longo during her sophomore year, and they were a couple until late 1979)
Later in 1978, Sherman began taking shots in outdoor locations around the city. E.g. Untitled Film Still #21
Sherman later returned to her apartment, preferring to work from home. She created her version of a Sophia Loren character from the movie Two Women. (E.g. Untitled Film Still #35 (1979))
She took several photographs in the series while preparing for a road trip to Arizona with her parents. Untitled Film Still #48 (1979), also known as The Hitchhiker, was shot by Sherman’s father at sunset one evening during the trip.
The remainder of the series was shot around New York, like Untitled #54, often featuring a blonde victim typical of film noir.
She eventually completed the series in 1980, stopping, she has explained, when she ran out of clichés. In December 1995, the Museum of Modern Art, New York, acquired all sixty-nine black-and-white photographs in Sherman’s Untitled Film Stills series for an estimated $1 million.

1980s
In addition to her film stills, Sherman has appropriated a number of other visual forms— the centerfold, fashion photograph, historical portrait, and soft-core sex image. These and other series, like the 1980s Fairy Tales and Disasters sequence, were shown for the first time at the Metro Pictures Gallery in New York City.[citation needed]

During the 1980s Sherman began to use colour film, to exhibit very large prints, and to concentrate more on lighting and facial expression. It was with her series Rear Screen Projections, 1980, that Sherman switched from black-and-white to color and to clearly larger formats. Centerfolds/Horizontals, 1981, are inspired by the center spreads in fashion and pornographic magazines. The twelve (24 by 48 inches) photographs were initially commissioned — but not used — by Artforum’s Editor in Chief Ingrid Sischy for an artist’s section in the magazine. Close-cropped and close up, they portray young women in various roles, from a sultry seductress to a frightened, vulnerable victim who might have just been raped.She poses either on the floor or in bed, usually recumbent and often supine. Due to the artist’s proximity to the camera and to the larger-than-life scale she assumes in the prints, her corporeal presence is emphasized. About her aims with the self-portraits, Sherman has said: “Some of them I’d hope would seem very psychological. While I’m working I might feel as tormented as the person I’m portraying.”

In 1982, Sherman began her Pink Robes series which includes Untitled #97, #98, #99 and #100. These self-portraits feature a pink chenille bathrobe which she is either holding or wearing. The slightly larger than life-size photographs were shot closeup so that the artist entirely fills the frame. Sherman has explained: ‘I was thinking of the idea of the centerfold model. The pictures were meant to look like a model just after she’d been photographed for a centerfold. They aren’t cropped, and I thought that I wouldn’t bother with make-up and wigs and just change the lighting and experiment while using the same means in each.’ The Pink Robes, stripped of all theatrical or cinematic references, present portraits which many critics have interpreted as revealing the ‘real’ Cindy Sherman. However this reading must take account of the several Cindy Shermans operating to produce the image, including Sherman-the-director, the lighting assistant, the photographer and the model. The artist’s concealment of her body and her direct gaze at the camera result in images which frustrate any desire on the viewer’s part for possession through visual knowledge, as is supplied, albeit in an illusory form, by a traditional centrefold photograph. The portraits depict a woman in a situation which implies vulnerability, but the decreasing light and Sherman’s increasingly hostile expression suggest that she protects herself by retreating into the dark shadows out of which she looks defiantly back at the viewer, refusing objectification. The large scale of the photographs confers an iconic power to these images of a woman resisting physical and psychological exploitation of the male gaze.

In Fairy Tales, 1985, and Disasters, 1986–1989, Cindy Sherman uses visible prostheses and mannequins for the first time. Provoked by the 1989 NEA funding controversy involving photographs by Robert Mapplethorpe and Andres Serrano at the Corcoran Gallery of Art, as well as the way Jeff Koons modeled his porn star wife in his “Made in Heaven” series, Sherman produced the Sex series in 1989. For once she removed herself from the shots, as these photographs featured pieced-together medical dummies in flagrante delicto.

Between 1989 and 1990, Sherman made 35 large, color photographs restaging the settings of various European portrait paintings of the fifteenth through early 19th centuries. Under the title History Portraits Sherman photographed herself in costumes flanked with props and prosthetics portraying famous artistic figures of the past, like Raphael’s La Fornarina, Caravaggio’s Sick Bacchus and Judith Beheading Holofernes, or Jean Fouquet’s Madonna of Melun.

1990s
Sex Pictures
Sherman uses prosthetic limbs and mannequins to create her Sex Pictures series (1992). Hal Foster, an American art critic, describes Sherman’s Sex Pictures in his article Obscene, Abject, Traumatic as “[i]n this scheme of things the impulse to erode the subject and to tear at the screen has driven Sherman […] to her recent work, where it is obliterated by the gaze.”  Moreover, Abigail Solomon- Godeau, a photo critic who taught art history at the University of California, illustrates Sherman’s work in Suitable for Framing: The Critical Recasting of Cindy Sherman. Solomon-Godeau writes, “[Sherman’s] pictures have struck many viewers as centrally concerned with the problematics of femininity (as role, as image, as spectacle); more recent interpretation now finds them redolent with allusion to “our common humanity,” revealing “a progression through the deserts of human condition.”  Reviewer Jerry Saltz told New York magazine that Sherman’s work is “[f]ashioned from dismembered and recombined mannequins, some adorned with pubic hair, one posed with a tampon in vagina, another with sausages being excreted from vulva, this was anti-porn porn, the unsexiest sex pictures ever made, visions of feigning, fighting, perversion. … Today, I think of Cindy Sherman as an artist who only gets better.”Commentator Greg Fallis of Utata Tribal Photography describes Sherman’s Sex Pictures series and her work as follow: “[t]he progression of her work reflects more than a progression of ideology. It also demonstrates a progression in approach. Sherman’s initial photographs used relatively few props—just clothing. As her photographs became more sophisticated, so did her props. During her Centerfold series, she began to incorporate prosthetic body part culled from the pages of medical educational catalogs. Each new series tended to utilize more prosthetics and less of Sherman herself. By the time she began the Sex Pictures series, the photographs were exclusively of prosthetic body parts. With her Sex Pictures Sherman posed medical prostheses in sexualized positions, recreating—and strangely modifying—pornography. They are a comment on the intersection of art and taste, they are a comment on pornography and the way porn objectifies the men and women who pose for it, they are a comment on social discomfort with overt sexuality, and they are a comment on the relationship between sex and violence. Yet the emphasis is still on creating a striking image that seems simultaneously familiar and strange.” Utata’s Sunday Salon

2000s
Between 2003 and 2004, Sherman produced the Clowns cycle, where the use of digital photography enabled her to create chromatically garish backdrops and montages of numerous characters. Set against opulent backdrops and presented in ornate frames, the characters in Sherman’s 2008 untitled Society Portraits are not based on specific women, but the artist has made them look entirely familiar in their struggle with the standards of beauty that prevail in a youth- and status-obsessed culture.

Her exhibition at the Museum of Modern Art in 2012 also presented a photographic mural (2010–11) that represents the artist’s first foray into transforming space through site-specific fictive environments. In the mural, Sherman transforms her face digitally, exaggerating her features through Photoshop by elongating her nose, narrowing her eyes, or creating smaller lips. Based on a 32-page insert Sherman did for POP using vintage clothes from Chanel’s archive, a more recent series of large-scale pictures from 2012 depict outsized enigmatic female figures standing in striking isolation before ominous painterly landscapes the artist had photographed in Iceland during the 2010 eruptions of Eyjafjallajökull and on the isle of Capri.

Fashion
Sherman’s career has also included several fashion series. In 1983, fashion designer and retailer Dianne Benson commissioned her to create a series of advertisements for her store, Dianne B., that appeared in several issues of Interview magazine. That same year, French fashion house Dorothée Bis offered its own clothes for a series to appear in French Vogue. The images Sherman created for these two ‘fashion shoots’ are the antithesis of the glamorous world of fashion. The model in the photographs appears silly, angry, dejected, exhausted, abused, scarred, grimy and psychologically disturbed. Sherman also created photographs for an editorial in Harper’s Bazaar in 1993. In 1994, she produced the Post Card Series for Comme des Garçons for the brand’s autumn/winter 1994–95 collections in collaboration with Rei Kawakubo.

In 2006, she created a series of fashion advertisements for designer Marc Jacobs. The advertisements themselves were photographed by Juergen Teller and released as a monograph by Rizzoli. For Balenciaga, Sherman created the six-image series Cindy Sherman: Untitled (Balenciaga) in 2008; they were first shown to the public in 2010. Also in 2010, Sherman collaborated on a design for a piece of jewelry.

In 2011, cosmetic giant M.A.C. picked Sherman as the face of their fall line. In the three images of the campaign, Sherman uses the line to completely alter her look appearing as a garish heiress, a doll-like ingénue and a full-on clown

Source “Wikipedia”

Arrestata Sharbat Bibi!

Sharbat Bibi, la bambina afgana dagli occhi verdi , fotografata da Steve Mc Curry, è stata arrestata a Peshawar (Pakistan).

  steve-mc-curry
Fotografie di Steve Mc Curry

Secondo quanto riportato dalla tv DawnNews, gli agenti della Fia la hanno accusata del reato di falsificazione del Documento nazionale di identità computerizzato (Cnic).

Già in precedenza, nel 2015 i documenti di identità di Sharbat Bibi e dei due suoi figli erano stati annullati perché falsificati.

Steve McCurry nel 1984, riprese la ragazza nella famosa fotografia.

Sharbat aveva 12 anni, era a Peshawar dove era appena arrivata, in un campo profughi.

Nel 2002, Mc Curry ritornò e cercò Sharbat.  La ritrovo’ sposata e con tre figli, con gli stessi fantastici occhi…

Sembra che il fotografo, saputo dell’arresto, voglia intervenire per aiutare la donna ed i suoi figli, speriamo che lo faccia.

Ciao

Sara

Il fotografo del silenzio, Nadav Kander

http://www.nadavkander.com/

Nadav Kander (born 1961) is a London-based photographer, artist and director, known for his portraiture and landscapes. His work is included in the collections of the National Portrait Gallery, the Victoria and Albert Museum and other galleries and museums. His father flew Boeing 707s for El-Al but lost his eye and was unable to continue flying. His parents decided to start again in South Africa and moved to Johannesburg in 1963. Kander began taking pictures when he was 13 on a Pentax camera. After being drafted into the South African Air Force, Kander worked in a darkroom printing aerial photographs. He moved to London in 1986, where he still resides with his wife Nicole and their three children.

Kander’s best known images include Diver, Salt Lake, Utah 1997, in which a lone women peers out into the vast lake, and his 2009 portrait of Barack Obama photographed for The New York Times Magazine as a cover feature.

On 18 January 2009 Nadav Kander had 52 full page colour portraits published in one issue of The New York Times Magazine. These portraits (from a series titled Obama’s People) were of the people surrounding President Barack Obama, from Joe Biden (Vice President) to Eugene Kang (Special Assistant to The President). The same issue also included a series of cityscapes of Washington DC also taken by Kander. This is the largest portfolio of work by the same photographer The New York Times Magazine has ever showcased in one single issue.

Kander published his first monograph, Beauty’s Nothing (Arena Editions) in 2001. He followed up the book with a catalogue of nocturnal landscapes entitled Nadav Kander – Night which accompanied his exhibitions at the Yancey Richardson Gallery, New York and Shine Gallery, London. Flowers Gallery published Obama’s People to accompany the solo exhibition. Yangtze – The Long River was published by Hatje Cantz in September 2010. Bodies.6 Women.1 Man, was published by Hatje Cantz in February 2013.

An interview

Postato da Anna