L’emergenza Covid dagli occhi di alcuni fotografi italiani.

Ciao a tutti!

Spero stiate tutti bene, e al sicuro in casa.

In questo periodo, tutti i giornali dedicano ampi spazi all’emergenza Covid 19 che ha travolto il mondo intero. Il nostro paese ahime in questo periodo rappresenta il centro dell’epidemia.

Molti fotografi italiani hanno sentito il dovere di documentare questi giorni terribili. Tra tutti, i lavori che più mi hanno colpiti sono quelli di Fabio Bucciarelli, Andrea Frazzetta e Alex Majoli.

Immagino che molti di voi li abbiano visti. Cosa ne pensate? Avete visto altri lavori interessanti? Me li segnalate nel caso?

Anna

Comincerei con il lavoro che a me è piaciuto di più, quello di Bucciarelli. Trovo che sia un lavoro di grande spessore, che va in profondità e tra l’altro scattato proprio nel cuore dell’epidemia, nei giorni più drammatici., in prima linea come in un conflitto, insomma. Fabio è entrato nelle case delle persone contagiate, ha parlato con i famigliari, e ha seguito le ambulanze negli ospedali.

Ho recentemente ascoltato un’intervista che il fotografo torinese ha rilasciato a Mario Calabresi, raccontando un po’ le modalità e il dietro le quinte di questo gran bel lavoro. Se ve la siete persa, ve la consiglio vivamente, la trovate su Youtube, qua, sul canale di New Old Camera, che ha organizzato l’evento.

Le fotografie di Fabio sono state pubblicate dal New York Times e da L’Espresso, e successivamente riprese da tutte le maggiori testate.

Non so voi, ma io la prima volta che ho visto le immagini, ho pianto. Un pugno nello stomaco. Già soltanto il titolo, mi ha colpito: We Take the Dead From Morning Till Night o nella versione italiana Trasportiamo morti dalla mattina alla sera. E tutti quei necrologi sulle pagine dei giornali. Mi vengono ancora i brividi.

Se volete approfondire la conoscenza di Bucciarelli e vedere altri suoi lavori, tempo fa gli avevamo dedicato un articolo sul blog, oppure questo è il suo sito

Qua sotto trovate l’immagine forse più rappresentativa di questo lavoro. Vi invito a guardarvi il progetto per intero sulla pagina del NYT.


©Fabio Bucciarelli

Veniamo ora al lavoro di Andrea Frazzetta, sempre pubblicato sul New York Times. Il titolo, The Life and Death shift o in italiano Turni di Vita e di Morte, già ci fa intuire che si tratta di ritratti delle persone coinvolte in prima linea nella lotta alla pandemia. Troviamo quindi medici, infermieri, militari, vigili urbani, soccorritori volontari. A tutti si legge in volto o negli occhi la fatica e la devastazione di questi momenti. Purtroppo Frazzetta ha perso anche sua madre a causa del virus e l’ultima immagine che ha di lei è una foto scattata dal cellulare della madre affacciata alla finestra, in isolamento nella sua abitazione.

Anche Frazzetta ha preso le sue immagini in Lombardia, tra Bergamo, Brescia e MIlano, le zona più colpite dall’epidemia.

Questo è il sito di Andrea, per chi volesse approfondirne la conoscenza.

Di seguito l’immagine che ho scelto per rappresentare il lavoro di Andrea, in copertina del NYT Magazine.


©Andrea Frazzetta

E infine, come si dice “last but not least”, abbiamo il lavoro di Alex Majoli.

A differenza dei due lavori che ho presentato in precedenza, questo a mio parere ha un taglio più autoriale, e meno fotogiornalistico. Alex ci mostra la sua visione personale dell’impatto dell’epidemia sulla Sicilia, e la desolazione e l’abbandono, dovuto alla quarantena della popolazione. Le immagini raffigurano luoghi deserti, abbandonati dall’uomo o chiusi a causa del virus, ma anche luoghi dove il virus viene combattuto e

I toni cupi e il bianco e nero profondo, scelti dal fotografo ravennate, e che contraddistinguono i suoi ultimi lavoro, ci fanno immergere e respirare quest’atmosfera di morte e disperazione.

Il lavoro di Alex è stato pubblicato su Vanity Fair , con il titolo The eye of the storm.

Anche ad Alex avevamo dedicato un articolo tempo fa, lo trovate qua. Questo invece è il suo profilo sulla pagina di Magnum Photos, di cui Alex è membro da diversi anni.

Ho scelto questa immagine come la più rappresentativa di questo lavoro.


©Alex Majoli

Tutte le immagini contenute nell’articolo sono protette da copyright e rimangono di proprietà dell’autore.

World Press Photo 2020: chi la spunterà?

Ciao, anche per quest’edizione sono stati annunciati i finalisti del WPP, il più importante premio di fotogiornalismo del mondo. I vincitori saranno poi proclamati in una cerimonia che si terrà il 16 aprile ad Amsterdam.
Se avete voglia di provare ad indovinare chi la spunterà quest’anno, lasciateci un commento.

Anna

Dall’edizione dello scorso anno, i premi più rilevanti sono diventati due: il tradizionale e storicamente più importante World Press Photo of The Year, e il World Press Photo Story of the Year, che premia il fotografo “la cui creatività visiva e abilità hanno prodotto una storia con eccellenti editing e sequenza fotografici, su un grande evento o una questione di rilevanza giornalistica del 2019”, premiando i lavoro che richiedono maggiore tempo e perseveranza.

I sei candidati al World Press Photo of The Year sono: Mulugeta Ayene di Associated Press (AP) con la foto di una donna nel luogo dove è precipitato il Boeing della Ethiopian Airlines, in Etiopia; Farouk Batiche di Deutsche Presse-Agentur con una foto degli scontri in Algeria tra manifestanti e polizia; Yasuyoshi Chiba di Agence France-Presse con un’immagine delle manifestazioni in Sudan; Tomasz Kaczor per Gazeta Wyborcza con la foto di una ragazza da poco risvegliata dallo stato catatonico causato dalla sindrome da rassegnazione; Ivor Prickett del New York Times con la foto di un combattente curdo; e Nikita Teryoshin con la foto di una fiera di armi negli Emirati Arabi Uniti. Vedete le immagini selezionate qua sotto.

I finalisti per il World Press Photo Story of the Year sono invece: Nicolas Asfouri dell’agenzia AFP per il suo lavoro sulle proteste di Hong Kong; di nuovo Mulugeta Ayene di AP per un lavoro sui parenti delle vittime a bordo del Boeing precipitato in Etiopia; e il francese Romain Laurendeau per un reportage sui giovani algerini nel perioso delle rivolte dello scorso anno. Di seguito una selezione di immagini dai tre lavori.

Quest’anno per i due premi principali non sono stati selezionati fotografi italiani, che però sono presenti tra i finalisti in altre categorie: Nicolò Filippo Rosso, Lorenzo Tugnoli, Fabio Bucciarelli, Luca Locatelli, Alessio Mamo e Daniele Volpe. Ecco qua alcune delle loro immagini in gara.

Jan Grarup. Da conoscere.

 

Jan Grarup (nato nel 1968) è un fotoreporter danese che ha lavorato sia come staff photographer che come freelance, specializzandosi in fotografia di guerra e di conflitto. Ha vinto numerosi premi compreso il Word Press Photo per la sua copertura della guerra in Kosovo.

Grarup è nato a Kvistgaard, non lontano da Helsingør, nel nord dell’isola danese di Sealand. Ebbe la sua prima fotocamera all’età di 13 anni e cominciò a sviluppare fotografie in bianco e nero. All’età di 15 anni scattò una foto di un incidente stradale e la inviò al giornale locale Helsingør Dagblad, che la pubblicò. A 19 anni, trascorse le sue vacanze di Pasqua a Belfast all’epoca dei disordini, cominciando ad avvicinarsi ai conflitti.

Dopo aver studiato giornalismo e fotografia alla Danish School of Journalism di Aarhus dal 1989 al 1991, cominciò come apprendista per poi diventare un fotografo a tempo pieno per il tabloid danese Ekstra Bladet.

Nel 1991, l’anno in cui si è diplomato, Grarup vinse il premio Danish Press Photographer of the Year, un premio che avrebbe ricevuto in diverse ulteriori occasioni. Nel 1993, si trasferì a Berlino per un anno, lavorando come fotografo freelance per giornali e riviste danesi.

Nel corso della sua carriera, Grarup ha coperto numerose guerre e conflitti in tutto il mondo, compresi la guerra del golfo, il genocidio del Ruanda, l’assedio di Sarajevo e la rivolta palestinese contro gli israeliani nel 2000. La sua copertura del conflitto tra Palestina ed Israele, ha dato origine a due serie: The Boys of Ramallah, che gli è anche valsa il POY World Understanding Award nel 2002, seguita da The Boys from Hebron.

Sul suo sito, Grarup spiega che il suo lavoro riflette la sua convinzione “nel ruolo del fotogiornalismo come strumento di testimonianza e memoria per promuovere il cambiamento e la necessità di raccontare le storie della gente che non ha la possibilità di farlo in prima persona”

Il suo libro, Shadowland (2006) presenta il suo lavoro nel corso di 12 anni trascorsi in Kashmir, Sierra Leone, Cecenia, Ruanda, Kosovo, Slovacchia, Ramallah, Hebron, Iraq, Iran e Darfur. Nelle parole della critica di Foto8, esso è intensamente personale, profondamente sentito e perfettamente composto. Il suo secondo libro, Darfur: A Silent Genocide è stato pubblicato nel 2009.

Dopo aver lasciato il suo posto da Politiken nell’autunno del 2009, si è unito alla piccola agenzia fotografica Das Büro nel gennaio 2010, dove si è concentrato sul mercato nazionale. Continua il suo lavoro internazionale con l’agenzia NOOR ad Amsterdam, di cui è un co-fondatore. Nel Novembre 2011, è diventato staff photographer per il New York Times coprendo Africa e Medio Oriente, specialmente Afghanistan, Iraq, Libia e il Corno d’Africa.

Fotografie recenti includono il terremoto di Haiti per il Time e Dagbladet Information. Nel tardo 2011, Grarup ha coperto il campo profughi di Dadaab, Kenya.

Qua il suo sito. Qua trovate un’intervista rilasciata in occasione della sua partecipazione al Festival della Fotografi Etica di Lodi nel 2014.

Jan Grarup (born 1968) is a Danish photojournalist who has worked both as a staff photographer and as a freelance, specializing in war and conflict photography. He has won many prizes including the World Press Photo award for his coverage of the war in Kosovo.

Grarup was born in Kvistgaard, not far from Helsingør, in the north of the Danish island of Sealand. He got his first camera when he was 13 and began to develop black and white photographs. At the age of 15 he took a photograph of a traffic accident and sent it in to the local newspaper Helsingør Dagblad where it was published. When he was 19, he spent his Easter holidays in Belfast at the time of the troubles, gaining an appetite for conflicts.

After studying journalism and photography at the Danish School of Journalism in Aarhus from 1989 to 1991, he became first a trainee, then a full-time photographer with the Danish tabloid Ekstra Bladet.

In 1991, the year he graduated, Grarup won the Danish Press Photographer of the Year award, a prize he would receive on several further occasions. In 1993, he moved to Berlin for a year, working as a freelance photographer for Danish newspapers and magazines.

During his career, Jan Grarup has covered many wars and conflicts around the world including the Gulf War, the Rwandan Genocide, the Siege of Sarajevo and the Palestinian uprising against Israel in 2000. His coverage of the conflict between Palestine and Israel gave rise to two series: The Boys of Ramallah, which also earned him the POY World Understanding Award in 2002, followed by The Boys from Hebron.

On his website, Grarup explains that his work reflects his belief “in photojournalism’s role as an instrument of witness and memory to incite change, and the necessity of telling the stories of people who are rendered powerless to tell their own”.

His book, Shadowland (2006), presents his work during the 12 years he spent in Kashmir, Sierra Leone, Chechnya, Rwanda, Kosovo, Slovakia, Ramallah, Hebron, Iraq, Iran, and Darfur. In the words of Foto8’s review, it is intensely personal, deeply felt, and immaculately composed. His second book, Darfur: A Silent Genocide, was published in 2009.

After leaving his post at Politiken in the autumn of 2009, he joined the small Danish photographic firm Das Büro in January 2010 where he concentrated on the national market. He continues his international work with the NOOR agency in Amsterdam, of which he is a cofounder. In November 2011, he joined the New York Times as a staff photographer covering Africa and the Middle East, especially Afghanistan, Iraq, Libya and the Horn of Africa.

Recent photographs include those of the earthquake in Haiti taken for Time and Dagbladet Information. In late 2011, Garup covered the refugee camp in Dadaab, Kenya.

Here his website and here an interview at Festival della Fotografia Etica in Lodi in 2014.

Anna