Mostre fotografiche da non perdere a febbraio

Come tutti i mesi, eccoci giunti al consueto appuntamento con le mostre di fotografia. Anche per febbraio sono previste mostre bellissime!

Date un’occhiata a quelle che vi segnaliamo di seguito.

Ciao

Anna

JOEL MEYEROWITZ. LEICA HALL OF FAME 2016

Joel Meyerowitz, New York City, 1974

Dal 25 gennaio al 2 aprile 2022 lo spazio milanese di Leica Galerie, in via Giuseppe Mengoni 4 (angolo piazza Duomo), ospita una mostra dedicata a Joel Meyerowitz, grande maestro della fotografia contemporanea, uno dei massimi protagonisti della street photography, tra i primi a fare del colore un elemento essenziale del suo linguaggio artistico negli anni sessanta e settanta del secolo scorso.

L’esposizione, curata da Karin Rehn Kaufmann, con l’adattamento di Denis Curti e Maurizio Beucci, presenta cinquanta fotografie capaci di ripercorrere i periodi più decisivi della sua carriera, scattate in diversi paesi e in molte città. Dalle immagini catturate tra le strade di New York, ambiente perfetto per osservare la vita e le persone nella grande città, a quelle raccolte durante un viaggio di un anno attraverso l’Europa nel 1966/67, a quelle, ritornato negli stati Uniti, in cui il colore divenne per lui un elemento ancora più importante.

Dal 25 Gennaio 2022 al 02 Aprile 2022 – Leica Galerie – Milano

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ROBERT CAPA. FOTOGRAFIE OLTRE LA GUERRA

Robert Capa, Henri Matisse nel suo studio, Nizza, agosto, 1949 © Robert Capa © International Center of Photography / Magnum Photos

È un Capa “altro”, quello che questa grande mostra propone. E lo dichiara già dal sottotitolo, quel “fotografie oltre la guerra”, frase emblematica dello stesso Capa, che pone l’attenzione proprio sui reportage poco noti del grande fotografo”. La annunciano Federico Barbierato e Cristina Pollazzi, rispettivamente Sindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Abano Terme.
 
Reportage poco noti, ma non meno importanti e potenti. Semplicemente sopraffatti dall’immagine di lui come straordinario interprete dei grandi conflitti.
E’ una mostra, quella curata da Marco Minuz e promossa dal Comune di Abano Terme a Villa Bassi Rathgeb dal 15 gennaio al 5 giugno 2022, che vuole far uscire Capa dallo stereotipo di “miglior fotoreporter di guerra del mondo”, come ebbe a definirlo, nel 1938 la prestigiosa rivista inglese Picture Post. L’obiettivo è invece puntare tutta l’attenzione sulla sua fotografia lontana dalla guerra.
“Non vi è dubbio – riconosce il curatore –  che l’esperienza bellica sia stata al centro della sua attività di fotografo: la guerra civile spagnola, la resistenza cinese di fronte all’invasione del Giappone, la seconda guerra mondiale e quella francese in Indocina (1954), durante il quale morì, ucciso da una mina antiuomo, a soli 40 anni. Acquisendo, in queste azioni, una fama che gli permise di pubblicare nelle più importanti riviste internazionali, fra le quali Life e Picture Post, con quello stile di fotografare potente e toccante allo stesso tempo, senza alcuna retorica e con un’urgenza tale da spingersi a scattare a pochi metri dai campi di battaglia, fin dentro il cuore dei conflitti; celebre, in tal senso, la sua dichiarazione: Se non hai fatto una buona fotografia, vuol dire che non ti sei avvicinato a sufficienza alla realtà. Queste sue fotografie sono ormai patrimonio della cultura iconografica del secolo scorso”.
 
Ma il lavoro di Robert Capa non si limitò solo esclusivamente a testimoniare eventi drammatici, ma spaziò anche in altre dimensioni non riconducibili alla sofferenza della guerra. Proprio da qui prende avvio l’originale progetto espositivo a Villa Bassi Rathgeb di Abano Terme che vuole esplorare, attraverso circa un centinaio di fotografie, parti del lavoro di questo celebre fotografo ancora poco conosciute.
“Robert Capa. Fotografie oltre la guerra” esplora il rapporto del fotografo con il mondo della cultura dell’epoca con ritratti di celebri personaggi come Picasso, Hemingway e Matisse, mostrando così la sua capacità di penetrare in fondo nella vita delle persone immortalate.
Affascinante la sezione dedicata ai suoi reportage dedicati a film d’epoca. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale è l’attrice svedese ad introdurre Capa sul set del Notorius di Alfred Hitchcock, dove si cimenta per la prima volta in veste di fotografo di scena. Nell’arco di pochissimi anni Capa si confronta con mostri sacri del calibro di Humphrey Bogart e John Houston; immortala la bellezza di Gina Lollobrigida e l’intensità di Anna Magnani. Maturerà poi la scelta, congeniale alla sua sensibilità e all’oggetto privilegiato della sua ricerca artistica, di confrontarsi con i grandi maestri del neorealismo. Straordinarie dunque le immagini colte sul set di Riso Amaro, con ritratti mozzafiato di Silvana Mangano e Doris Dowling.
 
Completa il percorso la sezione dedicata alla collaborazione tra lo scrittore americano Steinbeck e Robert Capa che darà avvio al progetto “Diario russo”.
Nel 1947 John Steinbeck e Robert Capa decisero di partire insieme per un viaggio alla scoperta di quel nemico che era stato l’alleato più forte nella seconda guerra mondiale: l’Unione Sovietica. Ne emerse un resoconto onesto e privo di ideologia sulla vita quotidiana di un popolo che non poteva essere più lontano dall’American way of life . Le pagine del diario e le fotografie che raccontano la vita a Mosca, Kiev, Stalingrado e nella Georgia sono il distillato di un viaggio straordinario e un documento storico unico di un’epoca, salutato dal New York Times come “un libro magnifico”.
Un reportage culturale sulla gente comune di uno dei paesi meno esplorati dai giornalisti e reporter mondiali. Una lezione di umanità ed empatia che ci ricorda l’importanza di conoscere concretamente luoghi e persone per superare pregiudizi e ignoranza.
La mostra prosegue con una serie di fotografie realizzate in Francia nel 1938 e dedicate all’edizione del Tour de France di quell’anno, dove l’attenzione del fotografo si focalizzerà sempre prevalentemente sul pubblico rispetto alle gesta sportive degli atleti.
Una sezione è dedicata alla nascita dello Stato d’Israele. Robert Capa, ungherese di origine ebraica, emigrato in Germania e poi in Francia e negli Stati Uniti, fondatore dell’agenzia Magnum Photos, era giunto sul posto per documentare la prima guerra arabo-israeliana del 1948. A pochi anni dalla Shoah, con la vita che riprende nonostante le violenze ancora in corso, l’obiettivo di Capa documenta le fasi iniziali della costituzione del nuovo Stato.

Complessivamente la mostra promossa dal Comune di Abano, Assessorato alla Cultura, prodotta e organizzata da Suazes con il supporto organizzativo di Coopculture, dipana un centinaio di fotografie, in dialogo con gli ambienti storici di Villa Bassi Rathgeb.

Dal 15 Gennaio 2022 al 05 Giugno 2022 – ABANO TERME (PD) – Villa Bassi Rathgeb

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NEEEV. NON È ESOTICO, È VITALE. FOTOGRAFIE DI BEGOÑA ZUBERO

© Begoña Zubero | Begoña Zubero, Mosul, dicembre 2018

Una selezione di diciotto fotografie di grande formato di Begoña Zubero.

La selezione fa parte di un progetto realizzato da Begoña Zubero durante la sua residenza di due mesi presso la Moving Artist Foundation in Iraq, che cerca di mettere in relazione artisti che operano in zone di conflitto con quelli dei Paesi Baschi e racconta la città di Mosul nel momento della ricostruzione, dopo la terribile offensiva che ha portato alla sconfitta dello Stato Islamico.

Dal 20 Gennaio 2022 al 22 Maggio 2022 – Museo di Roma in Trastevere

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VIVIAN MAIER. INEDITA

© Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY | Vivian Maier, Chicago, IL, Gelatin silver print, 2014

Dal 9 febbraio al 26 giugno 2022, le Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino ospitano la mostra di Vivian Maier (1926-2009), una delle massime esponenti della cosiddetta street photography.
 
Fin dal titolo, Inedita, l’esposizione che giunge in Italia dopo una prima tappa al Musée du Luxembourg di Parigi (15 settembre 2021 – 16 gennaio 2022), si prefigge di raccontare aspetti sconosciuti o poco noti della misteriosa vicenda umana e artistica di Vivian Maier, approfondendo nuovi capitoli o proponendo lavori finora inediti, come la serie di scatti realizzati durante il suo viaggio in Italia, in particolare a Torino e Genova, nell’estate del 1959.
 
La mostra, curata da Anne Morin, è co-organizzata da diChroma e dalla Réunion des Musées Nationaux – Grand Palais, prodotta dalla Società Ares srl con i Musei Reali e il patrocinio del Comune di Torino, e sostenuta da Women In Motion, un progetto ideato da Kering per valorizzare il talento delle donne in campo artistico e culturale. L’esposizione presenta oltre 250 immagini, molte delle quali inedite o rare, come quelle a colori, scattate lungo tutto il corso della sua vita. A queste si aggiungono dieci filmati in formato Super 8, due audio con la sua voce e vari oggetti che le sono appartenuti come le sue macchine fotografiche Rolleiflex e Leica, e uno dei suoi cappelli.
Il percorso espositivo tocca i temi più caratteristici della sua cifra stilistica e si apre con la serie dei suoi autoritratti in cui il suo sguardo severo si riflette negli specchi, nelle vetrine e la sua lunga ombra invade l’obiettivo quasi come se volesse finalmente presentarsi al pubblico che non ha mai voluto o potuto incontrare.
Una sezione è dedicata agli scatti catturati tra le strade di New York e Chicago. Vivian Maier predilige i quartieri proletari delle città in cui ha vissuto. Instancabile, cammina per tutto il tessuto urbano popolato da persone anonime che davanti al suo obiettivo diventano protagoniste, anche per una sola frazione di secondo, e recitano inconsciamente un ruolo.
Le scene che diventano oggetto delle sue narrazioni sono spesso aneddoti, coincidenze, sviste della realtà, momenti della vita sociale a cui nessuno presta attenzione. Ognuna delle sue immagini si trova proprio nel luogo in cui l’ordinario fallisce, dove il reale scivola via e diventa straordinario.
 
Mentre cammina per la città, Vivian Maier a volte si sofferma su un volto. La maggior parte dei visi che scandiscono le sue passeggiate fotografiche sono quelli di persone che le assomigliano, che vivono ai margini del mondo illuminato dall’euforia del sogno americano. Parlano di povertà, lavori estenuanti, miseria e destini oscuri. Ognuno di questi ritratti, impassibile e austero, è colto frontalmente nel momento dello scatto. A essi fanno da contraltare quelli delle signore dell’alta borghesia, che reagiscono in modo offeso al palesarsi improvviso della fotografa.
 
Oltre ai ritratti, Vivian Maier si concentra sui gesti, redigendo un inventario degli atteggiamenti e delle posture delle persone fotografate che tradiscono un pensiero, una intenzione, ma che rivela la loro autentica identità. Le mani sono spesso le protagoniste di queste immagini perché raccontano, senza saperlo, la vita di coloro a cui appartengono.
 
Agli inizi degli anni sessanta si nota un cambiamento nel suo modo di fotografare. La sua relazione con il tempo sta cambiando, e il cinema sta già cominciando a insinuarsi e ad avere la precedenza sulla fotografia. Vivian Maier inizia a giocare con il movimento, creando sequenze cinetiche, come se cercasse di trasportare le specificità del linguaggio cinematografico in quello della fotografia, creando delle vere e proprie sequenze di film.
Come naturale conseguenza, Vivian Maier inizia a girare con la sua cinepresa Super 8, documentando tutto quello che passava davanti ai suoi occhi, in modo frontale, senza artifici né montaggi.
 
Un importante capitolo della mostra è dedicato alle fotografie a colori. Se da un lato, i lavori in bianco e nero sono profondamente silenziosi, quelli a colori si presentano come uno spazio pieno di suoni, un luogo dove bisogna prima sentire per vedere. Questo concetto musicale di colore sembra riecheggiare nello spazio urbano, come il blues che scorre per le strade di Chicago e, in particolare, nei quartieri popolari frequentati da Maier.
 
Non poteva mancare una sezione dedicata al tema dell’infanzia che ha accompagnato Vivian Maier per tutto il corso della vita. A causa della sua vicinanza ai bambini per così tanti anni, era in grado di vedere il mondo con una capacità unica. Come governante e bambinaia per quasi quarant’anni, Maier ha preso parte alla vita dei bambini a lei affidati, documentando i volti, le emozioni, le espressioni, le smorfie, gli sguardi, così come i giochi, la fantasia e tutto il resto che abita la vita di un bambino.
 

Dal 09 Febbraio 2022 al 26 Giugno 2022 Musei Reali | Sale Chiablese – Torino

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GIAN BUTTURINI. LONDRA 1969 – DERRY 1972. UN FOTOGRAFO CONTRO

© Gian Butturini | Gian Butturini, Londra, 1969. Persone alla fermata di Earl’s Court

Dal 27 gennaio al 6 marzo 2022, STILL Fotografia a Milano (via Zamenhof 11) rende omaggio a Gian Butturini (1935-2006), uno dei fotoreporter italiani più originali e apprezzati a livello internazionale.
La rassegna, curata da Gigliola Foschi e Stefano Piantini, promossa dall’Associazione Gian Butturini, presenta cinquanta fotografie, tratte da due suoi lavori e suoi libri più famosi – London by Gian Butturini e Dall’Irlanda dopo Londonderry – che raccontano, da un lato, le contraddizioni di Londra alla fine degli anni sessanta, nel periodo passato alla storia come quello della Swinging London, quando cioè la capitale inglese era diventata un crogiuolo di nuove tendenze legate alla moda, alla musica, all’arte e alla cultura in genere, dall’altro, le tensioni politiche e sociali nell’Irlanda del Nord, seguiti al Bloody Sunday, la strage avvenuta a Derry il 30 gennaio 1972 quando l’esercito inglese fece fuoco sulla folla di manifestanti, uccidendone quattordici.
Butturini, che iniziò a scattare immagini sul conflitto nordirlandese una settimana dopo i fatti di Derry, testimonia la radicalizzazione della situazione politica e militare in quel paese.
Butturini non cerca di creare immagini volutamente forti, fissando azioni belliche o di protesta, quanto, da vero fotoreporter, far vedere e far capire ciò che sta accadendo. E lo fa con grande capacità di testimonianza, di composizione fotografica unite a una altrettanto notevole sensibilità politica e umana. Nelle atmosfere così cupe e minacciose, tra barricate, cavalli di frisia, fili spinati, soldati armati di mitragliatori, auto bruciate ai lati delle strade, Butturini ritrae i bambini, vittime innocenti in un drammatico conflitto.
La sezione dedicata a Londra racconta la capitale inglese da una prospettiva nuova, critica, non patinata e documenta le incursioni di Butturini tra le strade londinesi popolate da ragazze in minigonna, immigrati, junkie, emarginati, abitanti della City che sembrano vivere in un mondo a parte. È una Londra fuori dagli stereotipi quella che emerge dai suoi scatti, cogliendone tutte le contraddizioni con un occhio innovativo, dove indagine documentaria, interventi grafici e pagine scritte si coniugano a fini espressivi.
“Questa è una mostra – afferma Gigliola Foschi – in difesa della libertà di parola, immagine e pensiero. Una mostra contro una cancel culture che, senza confronto e senza discussione, nella liberale Inghilterra ha fatto ritirare dal commercio il libro London by Gian Butturini e infangato la figura di un uomo che per tutta la vita si era impegnato contro ogni forma di razzismo e d’ingiustizia”.
Fu infatti una doppia immagine con una donna di colore che vende i biglietti della metro chiusa dentro un bugigattolo e un gorilla in gabbia che, invece di suscitare indignazione nei confronti delle condizioni di due esseri viventi, entrambi giustamente intrappolati e discriminati, com’era nell’intento di Butturini, ha scatenato un’accusa di “razzismo conclamato”, costringendo l’editore a togliere il volume dalle librerie.
La mostra si chiude idealmente con una decina di gruppo di collage situazionisti, opere in cui Butturini, fotografo, ma anche grafico, interviene con colori e scritte graffianti su strisce di fumetti degli anni settanta. Batman o Nembo Kid, ad esempio, si trasformano in eroi della controcultura che rovesciano e stravolgono, in modo provocatorio, i significati proposti dalla cultura dominante.
Accompagna la mostra un libro edito STILL/Pazzini Editore con un testo di Gigliola Foschi

Dal 27 Gennaio 2022 al 06 Marzo 2022 – STILL Fotografia – Milano

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AMALFI ANNI ’50 E ’60 – ALFONSO FUSCO, FOTOGRAFO

© Alfonso Fusco

L’Arsenale di Amalfi ospiterà dal 28 dicembre 2021 al 28 febbraio 2022 la mostra “Amalfi anni ’50 e ’60 – Alfonso Fusco, fotografo”.

Un progetto realizzato dall’Amministrazione Comunale di Amalfi – guidata dal Sindaco Daniele Milano – con la collaborazione della famiglia Fusco. L’iniziativa è promossa dall’Assessorato alla Cultura – retto da Enza Cobalto – curata da Puracultura e patrocinata dal Centro di Cultura e Storia Amalfitana.

Alfonso Fusco, amalfitano, classe 1938 e scomparso da pochi anni, ha operato come fotografo a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60: nel suo archivio rinvenuto dalla famiglia emergono migliaia di negativi che testimoniano i cambiamenti in corso in quel preciso periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio della “dolce vita” amalfitana.
Fusco punta il suo obiettivo e cattura, in una sorta di neorealismo fotografico, tutto ciò che avviene ad Amalfi in quegli anni: scatti di vita quotidiana – matrimoni, manifestazioni pubbliche, campagne elettorali – ma anche eventi particolari, come le splendide feste con le ballerine dell’Africana o l’arrivo di Jacqueline Kennedy nella Divina.

A corredo della mostra fotografica, di 96 immagini, che si inaugurerà martedì 28 dicembre alle ore 18:00, sarà presentato il volume “Amalfi anni ’50 e ’60 – Alfonso Fusco, fotografo”, a cura della giornalista Claudia Bonasi, con l’introduzione dell’antropologo prof. Vincenzo Esposito, presenti all’evento insieme all’editore di Puracultura, Antonio Dura. Il libro di 120 pagine ospita 200 scatti accuratamente selezionati e divisi per sezioni.

Nell’Arsenale, per tutta la durata della Mostra fotografica, sarà ospitato un tavolo interattivo (realizzato a cura del Collettivo Digitale di Cesena) contenente 393 foto di ritratti realizzati da Alfonso Fusco, con cui dare vita a un gioco interattivo “Li (ri)conosci?” al quale saranno chiamati a partecipare tutti i cittadini, per tentare di dare un nome a volti amalfitani oggi sconosciuti. Verranno inoltre proiettate in loop 480 immagini scattate dal fotografo amalfitano.

“Il rinvenimento dell’archivio fotografico di Alfonso Fusco, testimone con le sue istantanee degli eventi più importanti avvenuti ad Amalfi tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e il progetto di crearne un catalogo e una mostra ospitata nell’Arsenale della Repubblica, sono tra i più interessanti eventi di quest’anno” – precisa il sindaco di Amalfi, Daniele Milano – “Il recupero della memoria cittadina si realizza attraverso la possibilità di dare un nome a decine e decine di volti, protagonisti della vita quotidiana della nostra Comunità. Un progetto immersivo, un gioco collettivo, con cui la nostra Amministrazione intende guardare avanti, dando valore al nostro passato”.

Dal 28 Dicembre 2021 al 28 Febbraio 2022 – Arsenale di Amalfi (SA)

CARLO DALLA MURA. FOTOGRAFIE 1949-1962

Nell’ambito della 35^ edizione della rassegna Friuli Venezia Giulia Fotografia, il CRAF (Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia) di Spilimbergo inaugura sotto il segno della Bellezza la mostra antologica dedicata a Carlo Dalla Mura.
La mostra, composta da 40 fotografie comprese tra il 1949 e il 1962, è stata realizzata in collaborazione con la Regione Friuli Venezia Giulia e il Comune di Udine, con il sostegno della Fondazione Friuli e Friulovest Banca, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Udine.

Avvocato di professione, prestato per poco più di un decennio alla fotografia, Carlo Dalla Mura tra il 1958 e il 1966 è stato collaboratore de “Il Mondo”, celebre settimanale di politica e cultura fondato e diretto da Mario Pannunzio. “Era, quella de “Il Mondo”, una fotografia anti-formalista, compendiaria e immediata, arguta e leggera, – afferma il direttore Alvise Rampini – capace di sintetizzare, più con la sua qualità evocativa che con la sua compiutezza formale, gli articoli a cui veniva associata”. Carlo Dalla Mura in pochi anni ha pubblicato su quelle pagine 59 sue fotografie, mentre altre 39 furono acquistate senza essere pubblicate in seguito all’improvvisa e definitiva chiusura di quell’esperienza editoriale.
Il percorso della mostra, curata da Alvise Rampini e Claudio Domini, vuole dare conto, attraverso una piccola selezione di immagini, proprio di questa aderenza allo spirito del tempo, per nulla frequente nei modelli da cui Dalla Mura era circondato nel suo Friuli ma ben presenti invece nella cultura fotografica nazionale più moderna e aggiornata dell’epoca. Soprattutto nella sua declinazione “stradale”, di cui proprio “Il Mondo” era testimone e promotore, a partire dalla lezione di Henri Cartier-Bresson e Robert Doisneau, fino alle prime “sconvolgenti” testimonianze visuali di William Klein, di cui Dalla Mura adorava i celebri fotolibri dedicati a New York e Roma.
“Senza mai imboccare la via del professionismo, nemmeno durante la lunga collaborazione con il trimestrale regionale “Iulia Gens”, dove invece ha pubblicato servizi fotografici più articolati e descrittivi – affermano i curatori – in quei pochi anni di serrata attività fotografica Dalla Mura ha sempre mantenuto il profilo del disincantato flâneur, perfettamente a suo agio per le vie del mondo, raccontato attraverso immagini moderne e libere dagli attempati stilemi accademici da circolo fotografico”.
Il suo “taccuino di viaggio” ospita tour che spaziano da Parigi a Tangeri e poi ancora Madrid, Lisbona, Sofia, Atene, Istanbul, e allo stesso modo del suo Friuli: “È per noi un grande onore celebrare Carlo Dalla Mura – concludono – il suo stile e i risultati del suo talento non hanno nulla da invidiare a tanti coevi nomi internazionali. Il nostro obiettivo è far conoscere un grande autore dell’archivio CRAF e farlo riscoprire sul territorio nazionale, come merita”.

11 dicembre 2021 – 13 febbraio 2022 – Castello di Udine, Museo Friulano della Fotografia

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GIORGIO GALIMBERTI. IL SOGNO DI GEORGE

© Giorgio Galimberti. Courtesy Glenda Cinquegrana Art Consulting. | Giogio Galimberti, Forme di spazio #29

“Lasciateli stare i sognatori, sono gente di carbone per vecchi treni a vapore, lasciateli stare nelle loro piccole case, che abitano come tasche, piene di spine e di more”.  (G. Nadalini)

Glenda Cinquegrana Art Consulting è lieta di presentare“Il sogno di George” la prima personale che la galleria dedicata al fotografo italiano mid-career Giorgio Galimberti.

Il titolo della mostra, “Il Sogno di George” si riferisce ad alcune peculiari caratteristiche della pratica fotografica di Giorgio Galimberti. Come se guardasse al mondo con lo stupore e l’ingenuità di un bambino, la fotografia di Galimberti è frutto di un’operazione visiva di costante spiazzamento: la realtà del quotidiano da cui costantemente attinge è trasfigurata per diventare surrealtà, o meglio scenario da sogno. Quello di Giorgio è un mondo abitato da uomini, donne o figure infantili che ne percorrono costantemente i territori urbani con semplicità e candore, che sono necessarie a guardare al quotidiano con occhi di volta in volta nuovi. Il fotografo si identifica completamente con i protagonisti delle sue immagini, che altro non sono un prolungamento di sé stesso: e così Giorgio diventa George, come la Alice di Lewis Carroll compie il suo tuffo nella realtà dello specchio. 

La fotografia di Galimberti celebra la nitidezza linguistica del bianco e nero come strumento di semplificazione visiva e crea scene che sono il risultato di un’ambiguità calcolata. È frutto di un trucco prospettico lo scatto che vede protagonista una ragazzina che cammina come un’equilibrista sulle creste dei grattacieli di New York; un omino che, ridotto alla dimensione di gnomo, si muove sullo sfondo di un paesaggio fatto di fiori e di pale eoliche in cui naturale ed artificiale coesistono (“Capracotta”, 2020). Come un funambolo, Giorgio si muove abilmente in questa realtà trasfigurata, giocando con destrezza con gli elementi della visione. 
Intessuto delle influenze fotografiche di maestri come Andrè Kértesz e Mario Giacomelli, il bianco e nero di Galimberti non è solo strumento di sintesi formale, ma soprattutto un elemento catalizzatore di poesia: l’immagine ridotta allo stato di nero assoluto si fa capace di raccogliere ed amplificare le emozioni. Fra gli scatti più belli non possiamo non citare quello in cui un uomo perso nella moltiplicazione delle arcate di un’architettura dechirichiana, racconta lo spaesamento di un bambino che esita a diventare adulto o la solitudine dell’individuo al cospetto di una mondo troppo più grande di lui (“Maddaloni”, 2020). L’immagine che ha reso celebre Giorgio è quella che vede una fanciulla prigioniera di una balena di ferro (“Camogli” #01, 2017), rappresentazione perfetta dell’inquietudine e della prigionia nella realtà altra dello “specchio”. 

Dal 27 Gennaio 2022 al 12 Marzo 2022 – Glenda Cinquegrana Art Consulting – Milano

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FRA NUVOLE E VENTO: GENTE DI CIVITA. FOTOGRAFIE DI BRIAN STANTON

© Brian Stanton | Brian Stanton, Civita nelle Nuvole, 2016 (Civita in the Clouds). Archival pigment print 27.56 x 39.37 in 60 x 90 cm.

Il 25 settembre 2021 apre a Palazzo Alemanni a Civita e a Casa Civita a Bagnoregio la mostra Fra Nuvole e Vento: Gente di Civita del fotografo newyorkese Brian Stanton, visibile al pubblico fino all’inverno 2022. Sono immagini che catturano la magia della quotidianità e delle antiche tradizioni di Civita di Bagnoregio, un’antica ed unica città collinare risalente a duemilacinquecento anni fa che, a causa dei terremoti e delle frane che minacciano la sua esistenza, si è piano piano svuotata dei suoi abitanti. 
Dal 2016 al 2019 Brian ha fotografato il paese e la valle circostante, immergendosi nella comunità e costruendo ricche relazioni con i pochi residenti restanti. “La gente di Civita ha collaborato con me con un entusiasmo contagioso. È stata un’esperienza toccante,” dice Stanton. 

Le immagini in mostra sottolineano il ruolo che le particolari condizioni geologiche di Civita e lo straordinario paesaggio della valle dei Calanchi che la circonda hanno svolto nello sviluppo della sua cultura unica nel suo genere, elementi che hanno portato la Commissione Italiana UNESCO a proporre Civita di Bagnoregio e la valle circostante a diventare Patrimonio dell’Umanità nel 2022.

“Il percorso di candidatura che stiamo vivendo è una grande occasione per riflettere sulla nostra identità e la mostra di Brian Stanton, che abbiamo voluto mettere al centro in questo anno così importante per la comunità e il territorio di Bagnoregio e dell’area dei Calanchi, racconta davvero l’anima del borgo. Un omaggio alle nostre radici, capace di raccontarci al meglio e diventare veicolo di promozione e comunicazione anche dei valori della tradizione, del rispetto dell’ambiente e di una dimensione unica della vita, fatta di lentezza e resilienza”. Queste le parole del sindaco di Bagnoregio Luca Profili.

“Abbiamo individuato nella mostra di Stanton un grande potenziale, capace di rappresentare i valori alla base del dossier di candidatura” aggiunge Francesco Bigiotti, amministratore unico di Casa Civita 
e site manager della candidatura a Patrimonio dell’Umanità “coerente con quanto riteniamo possa rappresentare un qualcosa di unico per il mondo.”

Stanton ha fotografato il paese per tre anni, immergendosi nella comunità e immortalando la quotidianità e le antiche tradizioni della gente di Civita: la raccolta delle castagne nella valle, la pigiatura delle uve nelle stesse cantine utilizzate dai loro antenati fin dall’epoca etrusca e l’eccitazione per le corse degli asini che attraversano la Piazza due volte l’anno. Una emozionante sequenza di immagini racconta la processione del Venerdì Santo, in cui gli abitanti portano un’effigie lignea del XV secolo del Cristo crocifisso, da Civita a Bagnoregio, una pratica immutata per 400 anni. Anche se Civita può sembrare un luogo dove il tempo si è fermato, questa mostra cattura la vibrante scintilla umana che ancora anima la comunità.
Le sue fotografie mostrano anche lo straordinario paesaggio che circonda il paese, la sua particolare conformazione geologica, elementi che tutti gli anni attirano centinaia di migliaia di turisti. Stampate in tonalità di bianco e nero, sono immagini che invitano il visitatore a partecipare al dramma della roccia vulcanica profondamente fessurata e delle aride creste nelle valli argillose che caratterizzano la regione.

La mostra è un evento a supporto del percorso di candidatura UNESCO che vede nel Comune di Bagnoregio e nella Regione Lazio i proponenti e in Casa Civita il site manager. 

Dal 25 Settembre 2021 al 31 Dicembre 2022 – BAGNOREGIO (VITERBO)

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ENRICO CARUSO. DA NAPOLI A NEW YORK

Enrico Caruso. Da Napoli a New York, MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli

“Enrico Caruso – Da Napoli a New York”. È questo il titolo dell’originale e attesissima mostra che sarà inaugurata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’evento, che celebra il centenario dalla scomparsa dell’artista, è curato da Giuliana Muscio, brillante studiosa del tenore partenopeo e più in generale, del contributo degli artisti italiani al mondo dello spettacolo americano. 
L’esposizione, che si avvale della consulenza musicale di Simona Frasca, musicologa e docente dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, mette a fuoco con uno sguardo nuovo la figura di Caruso, prima star mediatica moderna e rappresentante dell’emigrazione italiana, capace di conservare e innovare le tradizioni dello spettacolo con un impatto significativo sui media statunitensi. 
La mostra è realizzata da Fondazione Campania dei Festival e Fondazione Film Commission Regione Campania, con il sostegno della Regione Campania e in collaborazione con il MANN e con l’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi. Il percorso narrativo su Enrico Caruso e la sua carriera si basa su una documentazione quanto mai ricca: caratteristica dell’itinerario di visita è proporre un approccio rigoroso dal punto di vista storico e intermediale sotto l’aspetto comunicativo.
La mostra propone oltre 250 immagini fotografiche, provenienti dal Metropolitan Opera Archive di New York, dalla Caruso Collection presso il Peabody Institute (Johns Hopkins) di Baltimora e dal museo Enrico Caruso di Villa Bellosguardo a Lastra a Signa. Possibile ritrovare in allestimento non solo materiale audiovisivo d’epoca e cinegiornali, forniti per l’occasione dagli archivi americani e dal fondo Setti della Fondazione Ansaldo, ma anche registrazioni audio originali della produzione discografica del più famoso tenore di tutti i tempi. 
Nell’ambito della mostra è prevista la proiezione del documentario “Enrico Caruso: The Greatest Singer in the World”, diretto da Giuliana Muscio e prodotto dalla Direzione Generale per gli italiani all’estero del Ministero degli Affari Esteri. Il lavoro, attraverso materiali inediti, racconta la carriera americana di Caruso e la modernità del suo rapporto coi media, sottolineando il fondamentale contributo dei performers italiani nello sviluppo dell’industria dello spettacolo negli Stati Uniti. Sono previste tre proiezioni giornaliere: alle 12.00, alle 16.00 e alle 18.00.  
Il catalogo della mostra, edito da “ad est dell’equatore”,  potrà essere acquistato presso il bookshop del MANN.

Dal 22 Dicembre 2021 al 22 Aprile 2022- Museo Archeologico Nazionale Napoli

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MARILISA COSELLO. TRY

© Marilisa Cosello e Galleria Studio G7, Bologna | Marilisa Cosello, Try #1

Dal 12 febbraio al 3 aprile Studio G7 presenta Try, la prima personale di Marilisa Cosello negli spazi della galleria, a cura di Luca Panaro.

La mostra espone Try, progetto inedito itinerante iniziato dall’artista nel 2020, il cui lavoro è da sempre incentrato su temi quali la costruzione collettiva, il femminile, le strutture sociali, il potere ed il corpo come strumento narrativo.
Sabato 12 febbraio alle ore 15.00 e alle ore 16.00 Marilisa Cosello presenterà, negli spazi di Studio G7, Try #5il quinto atto performativo del ciclo.

Marilisa Cosello è nata a Salerno nel 1978, vive e lavora a Milano. La sua pratica artistica è incentrata sulla performance e sul corpo, attraverso cui l’artista attiva un dialogo tra storia, cultura e strutture sociali. Ripensando al ruolo della società come famiglia, e del privato come collettivo, Cosello indaga le forme del potere, sovrapponendo pubblico e privato, rituali familiari e archetipi collettivi. Attraverso fotografia, performance e video, la sua ricerca si configura come una riflessione sulla natura politica del singolo corpo come soggetto, e sull’impatto delle dinamiche di potere sulla storia di individui e comunità.

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Cominciamo l’anno con una selezione di mostre!

Ciao, vi siete riposati durante le feste di Natale? Eccoci pronti a ripartire con nuove bellissime mostre.

Date un’occhiata alla nostra pagina sempre aggiornata.

Anna

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Mostre per agosto

Ciao,

prima di goderci tutti quanti le meritate ferie, vi lascio qualche consiglio per le mostre da vedere in agosto. Sono davvero tante e bellissime!

Non dimenticate di dare un’occhiata alla pagina delle mostre sempre aggiornata.

Buone vacanze!

Anna Continua a leggere

Joel Meyerowitz, tutti i libri.

Ciao a tutti, ecco la raccolta di tutti i libri che ho trovato su questo spettacolare autore, spero che troviate interessanti sia l’autore che i libri. Ciao

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Cape Light, Joel Meyerowitz’s series of serene and contemplative color photographs taken on Cape Cod, Massachusetts, quickly became one of the most influential and popular photography books in the latter part of the twentieth century, breaking new ground both for color photography and for the medium’s acceptance into the art world. Now, over thirty-five years later, Aperture is pleased to bring back this classic collection in its original form. The book features all the now-iconic images of the original edition, newly remastered and printed as never before. In it, everyday scenes―an approaching storm, a local grocery store at dusk, the view through a bedroom window―are transformed by the stunning light of Cape Cod and the luminous vision of the photographer. Meyerowitz is a contemporary master of color photography, and through his eyes small-town life on the Cape is imbued once more with a powerful and captivating beauty.

CAPE LIGHT   Editore: Aperture


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LEGACY the preservation of wilderness in New York City parks  Editore: Aperture


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Taking My Time is the first career retrospective on the work of renowned and influential American photographer Joel Meyerowitz (b.1938), including over 550 famous and previously unpublished photographs spanning his extensive 50-year career. Edited and sequenced with the photographer, this large-format publication comprises two volumes in a slipcase with special inserts. It includes photographs from Meyerowitz’s complete oeuvre, including his colour and black and white street photographs from the 60s and 70s, the Cape Cod seascapes, his landmark images documenting Ground Zero after 9/11 and, more recently, his work in Tuscany and on the parks of New York City. Arguably one of America’s greatest photographers working today, Meyerowitz is best known for his spontaneous photographs of the streets of New York from the 1960s and his pioneering photographs of colour, light and space. Instrumental in changing the attitude towards the use of colour photography from one of resistance to nearly universal acceptance, he is an innovator and teacher, inspiring a younger generation of photographers.

TAKING MY TIME  Editore: Phaidon


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Focusing solely on the arch, this colorful book gives readers an immediate and intimate portrait of Eero Saarinen’s monumental sculpture with a brief history of the engineering and architectural feats behind the building of this famous catenary arch. 37 color illustrations.

THE ARCH  Editore: Bulfinch


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JOEL MEYEROWITZ RETROSPECTIVE Editore:  Verlag Der Buchhandlung Walthe


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An introduction to the major themes and the key images of American photographer Joel Meyerowitz, illustrated with 55 chronologically presented images that offer a fresh insight into his career.

JOEL MEYEROWITZ  Editore: Phaidon


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After the destruction of the World Trade Center in New York on September 11th 2001, the world-renowned photographer Joel Meyerowitz felt compelled to visit the site, to document and record the aftermath of the largest ever attack on US soil. Although initially turned away by police (on the grounds that the site was a crime scene and could not be photographed), Meyerowitz was determined to gain access to the area. Within days he had established strong links with many of the firefighters, policemen and construction workers contributing to the clean up. With their assistance he became the only photographer to be granted unimpeded access to Ground Zero. Once there he systematically began to document the wreckage followed by the necessary demolition, excavation and removal of tens of thousands of tonnes of debris that would transform the site from one of total devastation to level ground. Soon after the Museum of the City of New York officially engaged Meyerowitz to create an archive of the destruction and recovery at Ground Zero and the immediate neighborhood. The 9/11 Photographic Archive numbers in excess of 5,000 images and will become part of the permanent collections of the Museum of the City of New York.

AFTERMATH  Editore: Phaidon


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Joel Meyerowitz’s colour photographs of the ocean’s edge are gathered in this gift book. Since 1976, he has been photographing Cape Cod Bay during all hours of the day – from first light to dusk and beyond – capturing the contemplative mood created by light, air and water. Meyerowitz explains that his photographs “intensify the beauty of the shore by eliminating things that were somehow unnecessary”. Although the images in this edition are drawn from Meyerowitz’s body of photographs taken on Cape Cod, they also evoke the magic of summer anywhere where land, sea and sky unite.

AT THE WATER’S EDGE  Editore: Bulfinch

 

Biografia autore:

Joel Meyerowitz è un fotografo pluri premiato, il cui lavoro è apparso in oltre 350 mostre in musei e gallerie di tutto il mondo. È nato a New York nel 1938. Ha iniziato a fotografare nel 1962. È un “fotografo di strada” secondo la tradizione di Henri Cartier-Bresson e Robert Frank, anche se ora lavora esclusivamente con il colore. Come primo sostenitore della fotografia a colori (metà degli anni ’60), Meyerowitz è stato determinante nel cambiare l’atteggiamento verso l’uso della fotografia a colori. Il suo primo libro, Cape Light, è considerato un classico lavoro di fotografia a colori e ha venduto più di 150.000 copie durante la sua vita trentennale. E ‘autore di 20 altri libri, tra cui Legacy: the preservation of wilderness in  New York City  parks (Aperture) e il suo libro di retrospettiva, “Taking My Time”, che è stato pubblicato da Phaidon Press nel 2013.

( libera traduzione dal suo sito )

Mostre consigliate per giugno

Ciao a tutti,

ed eccoci giunti anche questo mese alnostro appuntamento fisso con le mostre,  quanto mai ricco in quest’inizio d’estate.

Non  perdetevi le mostre di giugno! Magari potete approfittarne per delle piccole vacanzine o per visitare altre città…

E ricordate di dare un’occhiata alla nostra pagina con tutte le mostre in corso, sempre aggiornata.

Anna

The Many Lives of Erik Kessels

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“The Many Lives of Erik Kessel” è la prima mostra retrospettiva dedicata al lavoro fotografico dell’artista, designer ed editore olandese Erik Kessels.

Aperta la pubblico dal primo giugno al 30 luglio, “The Many Lives of Erik Kessels” attraversa la carriera fotografica dell’autore lungo un articolato percorso che include centinaia di immagini.

Ventisette sono in totale le serie presentate, oltre a numerosi libri e riviste pubblicati dall’ormai celebre casa editrice dello stesso Kessels e da altri editori. In un percorso non-lineare e senza cronologia, si ritrovano lavori monumentali, serie più intime e private, autentiche icone dell’intero universo della ‘fotografia trovata,’ così come produzioni recenti e ancora inedite.

A cura di Francesco Zanot.

Co-prodotta con NRW-Forum, Düsseldorf, l’esposizione è accompagnata da un libro di 576 pagine pubblicato per questa occasione da Aperture, New York, con testi di Hans Aarsman, Simon Baker, Erik Kessels, Sandra S. Phillips e Francesco Zanot.

1 giugno – 30 luglio 2017 – Camera Centro Italiano per la Fotografia  – Torino

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DEANNA & ED TEMPLETON –  LAST DAY OF MAGIC

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Quasi tutti conosciamo Deanna Templeton per essere la moglie, la musa, la donna dietro lo skater (due volte campione del mondo) nonché straordinario fotografo Ed Templeton. Allo stesso modo, però, potremmo definire  Ed Templeton come il compagno, la musa di Deanna.
La verità è che procedono insieme – a volte letteralmente, mano nella mano – soprattutto quando sia avviano verso la loro passeggiata a Huntington Beach, dove fotografano sistematicamente, immortalando la gente della costa bruciata dal sole.
Non lavorano in coppia, non hanno una produzione comune e hanno due personalità uniche e indipendenti, dinamiche e creative. Ma vi sono dei tratti comuni, dei rimandi evidenti tra i propri lavori.
Ed e Deanna Templeton sono sposati da quasi 25 anni. A Milano allestiranno una mostra insieme, presentando una selezione di vari lavori di entrambi, che mescoleranno a parete, creando un dialogo che sottolinerà le caratteristiche in comune, i temi ricorrenti, in una sorta di flusso di coscienza per immagini. Il soggetto è spesso il mondo degli adolescenti.

MiCamera – Milano dal 26 maggio al 24 giugno

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Hiroshi Sugimoto – Le notti bianche

La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dal 16 maggio al 1 ottobre 2017, presenta Le Notti Bianche, personale dell’artista giapponese Hiroshi Sugimoto, a cura di Filippo Maggia e Irene Calderoni.

La mostra presenta in anteprima internazionale una nuova serie fotografica, dedicata ai teatri storici italiani, che prosegue e sviluppa la ricerca di Hiroshi Sugimoto intorno al tema degli spazi teatrali e cinematografici.

L’intera produzione fotografica di Hiroshi Sugimoto è volta all’esplorazione del rapporto fra tempo e spazio, o meglio, alla percezione che noi abbiamo di questa relazione, l’occhio umano come la macchina fotografica che ce ne restituisce una versione, un’immagine ben definita, nel caso di Sugimoto, plastica. L’indagine prende avvio da una semplice domanda -quasi una curiosità- che l’artista giapponese si pone verso la fine degli anni settanta: provare a racchiudere in un solo scatto l’intero flusso di immagini contenute in una pellicola cinematografica durante la sua regolare proiezione al cinema. Il risultato è uno schermo abbagliante che illumina la sala, depositario di storie che per due lunghe ore hanno permesso al pubblico di sognare. Fotografando prima le sale cinematografiche degli anni venti e trenta e successivamente quelle più eleganti degli anni cinquanta per arrivare ai drive-in, Sugimoto contestualizza la sua ricerca ripercorrendo lo sviluppo della settima arte: dalla sua rivelazione come nuova espressione artistica e culturale a fenomeno di massa, capace quindi, oltre che ad affascinare al contempo alienando dalla vita quotidiana, di comunicare, celebrando come criticando.

Esattamente come avviene nei suoi Seascapes, ove i mari rappresentano un passato che va rigenerandosi e ripetendosi, ogni volta più ricco di vissuto, di Storia, anche qui Sugimoto delega allo spettatore -delle sue opere, non dei film- la responsabilità di declinare al tempo presente la memoria contenuta in quel magico spazio bianco.

La serie inedita di 20 opere presentata a Torino è stata interamente realizzata in Italia nel corso degli ultimi tre anni dopo una pausa di 12 anni nella produzione dei Theaters e, per la prima volta, presenta oltre allo schermo illuminato anche la platea e la galleria del teatro ove è stata organizzata la ripresa fotografica. Fra i teatri fotografati troviamo il Teatro dei Rinnovati, Siena; il Teatro dei Rozzi, Siena; il Teatro Scientifico del Bibiena, Mantova; il Teatro Comunale di Ferrara; il Teatro Olimpico, Vicenza; Villa Mazzacorrati, Bologna; il Teatro Goldoni, Bagnacavallo; il Teatro Comunale Masini, Faenza; il Teatro all’Antica, Sabbioneta; il Teatro Sociale, Bergamo; il Teatro Farnese, Parma; il Teatro Carignano, Torino

Mostra realizzata con il contributo della Regione Piemonte

Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino,  dal 16 maggio al 1 ottobre 2017

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Sguardi sul mondo attuale – #2 Americas

Sguardi sul mondo attuale richiama nel titolo un’antologia di saggi scritti da Paul Valéry – ancora ricchi di significati per il nostro presente – e vuole esprimere un’idea dell’arte che sia presidio di civiltà e democrazia, configurandosi come un

viaggio ricco d’interesse e necessario attraverso i continenti: perché «il viaggio», sottolinea Manca, «è una delle forme più immediate per la comprensione del contemporaneo e per vivere esperienze ricche di contenuti qualificanti. Alcuni riportano souvenir, immagini, emozioni… Io ho sempre pensato che la mia collezione dovesse essere il mio cordone ombelicale con quei luoghi, quelle culture, quelle genti…».

Il programma espositivo, a cura di Simona Campus in collaborazione con lo stesso Manca, ha preso avvio nel 2016 con la mostra EASTERN EYES, presentando quindici artisti orientali, a partire dai paesi dell’Ex Unione Sovietica fino in Cina, Indonesia, Giappone, una panoramica sui cambiamenti politici, sociali, culturali degli ultimi decenni. Nel 2017, volgendo a Occidente, questo affascinante itinerario attraverso le geografie culturali della contemporaneità prosegue con AMERICAS, che abbraccia un continente intero, dal Canada al Messico e a Cuba, passando per gli Stati Uniti.

Agli esordi di una problematica “era Trump”, Americas è un’esposizione importante, impegnata, partecipe del nostro presente: riafferma il valore dell’incontro, del dialogo e delle contaminazioni, mentre la politica impone nuovi muri e separazioni; laddove i decreti dividono, l’arte unisce, grazie al lavoro di quanti per le proprie storie biografiche, e per il coraggio di perseguire idee scomode e controcorrente, costituiscono un ponte tra differenti culture.

In Americas, gli artisti sono di assoluto rilievo, e tra loro alcune vere e proprie icone della contemporaneità, quali David LaChapelle, Andres Serrano, Cindy Sherman, Nan Goldin: alla Goldin è riservato uno spazio privilegiato, con una raccolta di immagini appartenenti ad alcune tra le sue serie più celebri, a partire da The Ballad of Sexual Dependency, costruita come un diario intimo d’amore e perdizione contro il perbenismo della middle-class americana.

Le opere in mostra – molte sono state esposte in precedenza nei più autorevoli musei e gallerie del mondo – propongono alla nostra attenzione i temi legati alla profonda ricchezza delle differenze, alle specificità di genere e all’identità sessuale, alla convivenza interculturale, come nel caso del trittico fotografico December 17 (1999) di Maria Magdalena Campos-Pons, artista cubana con antenati nigeriani – tratti in schiavitù nel continente americano alla fine del Settecento – cinesi e ispanici: la multiculturalità appartiene alla sua esperienza di vita e alla sua ricerca artistica, dove si mescolano tradizioni e generazioni. Tra i maggiori esponenti dell’arte contemporanea cubana è anche Carlos Garaicoa, che concentra la sua ricerca sulla realtà urbana e, in particolare, sulla sua città natale, L’Avana: nella serie El dibujo, la escritura, la abstracciòn immortala fotograficamente i graffiti sui muri, testimoni silenziosi di una storia controversa che mettono in comunicazione esistenze private e vita pubblica, interiorità e società.

I fragili equilibri che governano il rapporto tra privato e pubblico, le relazioni tra interiorità ed esteriorità rappresentano un’altra riflessione fondamentale della mostra: le raffinate ambientazioni allestite da Gregory Crewdson per le immagini di Dream House (2002) narrano dei ruoli che la società impone, di alienazioni e solitudini; i lavori di Catherine Opie e Susan Paulsen, ricerche sul corpo e sugli

spazi, restituiscono la tensione tra l’io e ciò che lo circonda, mentre Sandy Skoglund proietta sul paesaggio un senso surreale d’inquietudine. Ne deriva un affresco composito dei luoghi e dei non-luoghi fisici e metaforici del mondo attuale.

Le immagini fotografiche sovente derivano da azioni performative o da progetti complessi, realizzati in seguito ad una lunga progettazione ed elaborazione, rendendo evidente i legami con gli altri linguaggi artistici, con la pittura e

soprattutto con il cinema, che si conferma espressione privilegiata dell’immaginario americano: cinematografici sono senz’altro gli scatti di Sebastian Piras, fotografo e filmaker sardo, stabilitosi a New York negli anni Ottanta.

Più in generale, trovano riscontro in mostra la pluralità di forme espressive, le mescolanze e le ibridazioni caratteristiche del fare artistico contemporaneo, ma anche le connessioni che l’arte intraprende con gli altri ambiti d’indagine del sapere umano: da una prospettiva multimediale e interdisciplinare, integrando arte, filosofia e scienza lavora Ale de la Puente, artista messicana della quale viene esposta la poetica installazione fotografica Tormenta seca (2008).

In tale pluralità di sensibilità, sollecitazioni, punti di vista emerge l’immagine più veritiera delle Americhe, le cui latitudini fisiche, umane e culturali sono sterminate, contraddittorie, impossibili da sintetizzare in un unico sguardo. Di tale pluralità la mostra dà conto, con gli artisti citati e con i molti altri che contribuiscono a definirne il grande interesse, tra i quali due maestri storicizzati del calibro di Sol LeWitt, rappresentato da una delle sue peculiari composizioni grafiche, e Bill Owens, del quale non poteva mancare la serie di fotografie intitolata Altamont (1969) dedicata al concerto organizzato dai Rolling Stones che appena quattro mesi dopo Woodstock, funestato dall’assassinio del giovane afroamericano Meredith Hunter, segnò irrimediabilmente la fine delle illusioni nel movimento giovanile. Una piccola perla, infine, è Abramović Sixty (2006) di Marina Abramović, artista serba naturalizzata statunitense, gran madre della performance, il cui lavoro rappresenta una testimonianza straordinariamente significativa degli sguardi inediti, anticonformisti, tesi al cambiamento che l’arte, e forse soltanto l’arte, sa rivolgere al mondo attuale.

Artisti in mostra

Marina Abramović, Maria Magdalena Campos-Pons, Ofri Cnaani, Gregory Crewdson, Ale de la Puente, Janieta Eyre, Carlos Garaicoa, Nan Goldin, Robert Gutierrez, David LaChapelle, Sol LeWitt, Jason Middlebrook, Catherine Opie, Bill Owens, Susan Paulsen, Sebastian Piras, Jimmy Raskin, Andres Serrano, Cindy Sherman, Sandy Skoglund, Pat Steir.

Cagliari – EXMA Exhibiting and Moving Arts –  26 maggio – 25 giugno 2017

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Le mostre di Fotoleggendo 2017

Torna anche quest’anno a giugno Fotoleggendo, festival internazionale di fotografia giunto alla sua XIII edizione, che si tiene a Roma dal 6 giugno al 15 luglio, con l’organizzazione di  Officine Fotografiche.

Quest’anno la sede sarà presso l’ex Pelanda del Macro Testaccio, uno dei gioielli dell’archeologia industriale romana.

Tra le mostre, segnaliamo im particolare Watermark di Michael Ackermann, The Polarities di Larry Fink, Lobismuller di Laia Abril,  Sogno #5 di Lorenzo Castore e The 7th Generation’s Prophecy di Michela Benaglia e Emanuela Colombo, ma date un’occhiata al programma completo, che si preannuncia ricchissimo.

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Eugene Richards: The Run-On of Time

This retrospective exhibition features the work of Eugene Richards (American, b. 1944), one of the world’s most respected photographers. In the tradition of W. Eugene Smith and Robert Frank, Richards is devoted to socially committed photography that focuses on the diverse, often complex lives of Americans, as well as the ongoing struggles of the world’s poor.

Richards’s photographs speak to the most profound aspects of human experience: birth, family, mortality, economic inequality and the human cost of war are recurring themes. His style is unflinching yet poetic, his photographs deeply rooted in the texture of lived experience. In his wide range of photographs, writings, and videos he works to increasingly involve his audience in the lives of people in ways that are challenging, lyrical, melancholy, and often beautiful. Ultimately, Richards’s photographs illuminate aspects of humanity that might otherwise be overlooked.

June 10–October 22, 2017, Eastman Museum Main Galleries – Rochester

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Irving Penn: Centennial

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The Metropolitan Museum of Art will present a major retrospective of the photographs of Irving Penn to mark the centennial of the artist’s birth. Over the course of his nearly 70-year career, Irving Penn (1917–2009) mastered a pared-down aesthetic of studio photography that is distinguished for its meticulous attention to composition, nuance, detail, and printmaking. Irving Penn: Centennial, opening April 24, 2017, will be the most comprehensive exhibition of the great American photographer’s work to date and will include both masterpieces and hitherto unknown prints from all his major series.

Long celebrated for more than six decades of influential work at Vogue magazine, Penn was first and foremost a fashion photographer. His early photographs of couture are masterpieces that established a new standard for photographic renderings of style at mid-century, and he continued to record the cycles of fashions year after year in exquisite images characterized by striking shapes and formal brilliance. His rigorous modern compositions, minimal backgrounds, and diffused lighting were innovative and immensely influential. Yet Penn’s photographs of fashion are merely the most salient of his specialties. He was a peerless portraitist, whose perceptions extended beyond the human face and figure to take in more complete codes of demeanor, adornment, and artifact. He was also blessed with an acute graphic intelligence and a sculptor’s sensitivity to volumes in light, talents that served his superb nude studies and life-long explorations of still life.

Penn dealt with so many subjects throughout his long career that he is conventionally seen either with a single lens—as the portraitist, fashion photographer, or still life virtuoso—or as the master of all trades, the jeweler of journalists who could fine-tool anything. The exhibition at The Met will chart a different course, mapping the overall geography of the work and the relative importance of the subjects and campaigns the artist explored most creatively. Its organization largely follows the pattern of his development so that the structure of the work, its internal coherence, and the tenor of the times of the artist’s experience all become evident.

The exhibition will most thoroughly explore the following series: street signs, including examples of early work in New York, the American South, and Mexico; fashion and style, with many classic photographs of Lisa Fonssagrives-Penn, the former dancer who became the first supermodel as well as the artist’s wife; portraits of indigenous people in Cuzco, Peru; the Small Trades portraits of urban laborers; portraits of beloved cultural figures from Truman Capote, Joe Louis, Picasso, and Colette to Alvin Ailey, Ingmar Bergman, and Joan Didion; the infamous cigarette still lifes; portraits of the fabulously dressed citizens of Dahomey (Benin), New Guinea, and Morocco; the late “Morandi” still lifes; voluptuous nudes; and glorious color studies of flowers. These subjects chart the artist’s path through the demands of the cultural journal, the changes in fashion itself and in editorial approach, the fortunes of the picture press in the age of television, the requirements of an artistic inner voice in a commercial world, the moral condition of the American conscience during the Vietnam War era, the growth of photography as a fine art in the 1970s and 1980s, and personal intimations of mortality. All these strands of meaning are embedded in the images—a web of deep and complex ideas belied by the seeming forthrightness of what is represented.

Penn generally worked in a studio or in a traveling tent that served the same purpose, and favored a simple background of white or light gray tones. His preferred backdrop was made from an old theater curtain found in Paris that had been softly painted with diffused gray clouds. This backdrop followed Penn from studio to studio; a companion of over 60 years, it will be displayed in one of the Museum’s galleries among celebrated portraits it helped create. Other highlights of the exhibition include newly unearthed footage of the photographer at work in his tent in Morocco; issues of Vogue magazine illustrating the original use of the photographs and, in some cases, to demonstrate the difference between those brilliantly colored, journalistic presentations and Penn’s later reconsidered reuse of the imagery; and several of Penn’s drawings shown near similar still life photographs.

The Met Fifth Avenue, Gallery 199 – NY – April 24–July 30, 2017

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Hollywood Icons. Fotografie della Fondazione John Kobal

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Hollywood Icons è un’estesa indagine sulle grandi stelle cinematografiche dell’epoca classica hollywoodiana e che rende evidente il lavoro di quei fotografi che crearono le immagini scintillanti degli stessi divi.

La mostra presenta 161 ritratti: dai più grandi nomi nella storia cinematografica, iniziando con le leggende del muto come Charlie Chaplin e Mary Pickford, continuando con gli eccezionali interpreti dei primi film sonori come Marlene Dietrich, Joan Crawford, Clark Gable e Cary Grant infine per concludere con i giganti del dopoguerra come Marlon Brando, Paul Newman, Marilyn Monroe, Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Organizzata per decadi, dagli anni Venti fino ai Sessanta, che presentano i divi principali di ciascun periodo, Icone di Hollywood include anche gallerie dedicate ai fotografi degli studi di Hollywood, mostra il processo di fabbricazione di una stella cinematografica e introduce vita e carriera del collezionista e storico del cinema John Kobal, il quale ha estratto da archivi polverosi tutto ciò mettendolo a disposizione dell’arena pubblica e del plauso della critica.

La storia del film solitamente è scritta dal punto di vista di attori o registi, prestando poca attenzione a quell’impresa enorme che rende possibile fare i film. Icone di Hollywood, presenta quel ritratto in gran parte inatteso e quei fotografi di scena che lavorarono silenziosamente dietro le quinte, ma le cui fotografie ricche di stile furono essenziali alla creazione di divi, dive e alla promozione dei film. Milioni e milioni d’immagini, distribuite dagli studi di Hollywood durante l’età d’oro, erano tutte quante il lavoro di artisti della macchina fotografica che lavoravano in velocità, con efficienza e il più delle volte in maniera splendida al fine di promuovere lo stile hollywoodiano in tutto il mondo.

I ritratti di Joan Crawford fatti da George Hurrell hanno contribuito a plasmare la sua emozionante presenza sullo schermo. L’indelebile immagine della Garbo è stata creata nello studio per ritratti di Ruth Harriet Louise. In questa mostra sarà presentato il lavoro di più cinquanta fotografi inconfondibili, tra cui: Clarence Sinclair Bull, Eugene Robert Richee, Robert Coburn, William Walling Jr, John Engstead, Elmer Fryer, Laszlo Willinger, A.L. “Whitey” Schafer e Ted Allan.

Nessuno, meglio di John Kobal, ha compreso l’importanza di questa ricchezza fondamentale del materiale hollywoodiano. Iniziando come un appassionato di film, divenne un giornalista, più tardi uno scrittore e infine, prima della sua morte precoce nel 1991 all’età di 51 anni, fu riconosciuto come uno tra gli storici preminenti del cinema. Essenzialmente la sua reputazione si basa sul lavoro pionieristico di riesumare le carriere di alcuni tra questi maestri della fotografia d’epoca classica hollywoodiana.

Iniziando dai tardi anni sessanta, Kobal cercò di ricongiungere questi artisti dimenticati con i loro negativi originali e li incoraggiò a produrre nuove stampe per mostre che allestì in tutto il mondo, in luoghi come il Victoria & Albert Museum e la National Portrait Gallery a Londra, il MoMA a New York, la National Portrait Gallery a Washington DC, il Los Angeles County Museum of Art a Los Angeles. Una selezione di queste stampe, assieme a quelle d’epoca originali risalenti al periodo degli studi, crea il cuore della mostra.

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Gianluca Micheletti – Lifepod – Capsula di salvataggio

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Il progetto di Micheletti si presenta come “un’arca di Noè senza Noè”. La sua riflessione prende il via da un doppio binario. Da un lato lo Svalbard Global Seed Vault, il deposito globale di sementi delle Isole Svalbard in Norvegia, una raccolta dell’universale patrimonio genetico di sementi; dall’altro il 99 per cento di DNA che i primati hanno in comune con l’uomo. Il fotografo ha ripreso le scimmie in alcuni zoo d’Europa inserendole poi in capsule di sicurezza che rimandano a un futuro in cui la vita primordiale possa essere ricreata.

Micheletti’s project presents itself as “a Noah’s Ark without Noah.” His reflections arise along dual tracks: on one side the Svalbard Global Seed Vault in Norway, a collection of universal genetic plant heritage; on the other, the 99 percent of DNA that primates have in common with man. The photographer captures monkeys within several zoos in Europe, and then inserts them into safety capsules to symbolize a future in which primordial life can be recreated.

30 maggio/20 giugno – Biblioteca Zara – Milano

Joel Meyerowitz: Towards Colour 1962-1978

A new exhibition of work by Joel Meyerowitz will open at Beetles+Huxley on 23 May, including rarely seen black and white photographs from Meyerowitz’s early career. The exhibition will highlight the photographer’s seminal street photography – tracing his gradual move from using both black and white and colour film to a focus on pure colour, over the course of two decades.

The subject of over 350 exhibitions in museums and galleries worldwide and two-time Guggenheim Fellow, Meyerowitz is one of the most highly-regarded photographers of the second half of the twentieth century. Alongside his contemporaries, William Eggleston and Stephen Shore, Meyerowitz drove the positioning of colour photography from the margins to the mainstream.

The exhibition will feature bodies of work made by Meyerowitz between 1963 and 1978, from his very early days shooting in black and white on the streets of New York alongside Garry Winogrand and Tony Ray-Jones, to the year he published his first book, “Cape Light”. This period was vital for Meyerowitz as he began to question the medium of photography itself, engaging in an aesthetic exploration or both form and composition. He moved away from what he describes as the “caught moment” toward a more non-hierarchical image in which everything in the image, including the colour, plays an equal, vital role. These intricately structured images, which Meyerowitz calls “field photographs”, marked a seismic shift in the history of photography.

The exhibition will include works made in Florida and New Mexico as well as iconic street scenes captured in New York. The exhibition will also include a selection of photographs taken during Meyerowitz’s travels across Europe in 1966, including images of France, Spain and Greece.

Born in 1938 in New York City, Meyerowitz studied painting and medical drawing at Ohio State University before working as an art director at an advertising agency. Having seen Robert Frank at work, Meyerowitz was inspired and left advertising in 1962 to pursue photography. By 1968, a solo exhibition of his photographs was mounted at the Museum of Modern Art, New York. Meyerowitz has been the recipient of the National Endowment of the Arts and the National Endowment for the Humanities awards, and has published over sixteen books.

“Joel Meyerowitz: Towards Colour 1962-1978” will be presented in association with Leica, one of the world’s most famous camera makers. As a famous Leica user, Meyerowitz joined the Leica Hall of Fame in January 2017.

23rd May – 24th June – Beetles + Huxley – London

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Manu Brabo – Libia. Illusione di libertà

Il 16 maggio 2017 Mudima Lab inaugura la seconda mostra nell’ambito del progetto GUERRE, dal titolo Libia. Illusione di libertà, attraverso gli scatti del fotoreporter Manu Brabo.

L’autore, attraverso i suoi reportage in Libia dal 2011 a oggi, ci restituisce un Paese che va al di là dei conflitti presenti, una terra sconvolta dalla guerra civile, un Paese che dopo la morte di Gheddafi, avvenuta il 20 ottobre del 2011, ha perso ogni direzione.

Scorrendo le foto dell’autore dalla battaglia di Sirte del 2011 alla guerra all’Isis degli ultimi anni, nello specifico nella parte di lavoro che Manu Brabo chiama Dougma – War against IS in Sirte (autunno 2016), si evince facilmente come il conflitto in Libia non si sia mai concluso né risolto e né tantomeno vedrà una soluzione a breve; troppi gli interessi dall’esterno che spingono da una parte e dall’altra nel tentativo di ristabilire rapporti economici che, nella maggior parte dei casi, favoriscono esclusivamente pochi Paesi, per lo più occidentali.
Manu Brabo si spinge sempre in prima linea nei conflitti che documenta, e alcuni degli scatti in mostra presso Mudima Lab testimoniano proprio i combattimenti fra le forze lealiste di Gheddafi e i ribelli, la distruzione, la desolazione lasciata da anni di vuoto di potere dopo la morte del colonnello e il conseguente arrivo dello Stato Islamico in alcune zone della Libia.

Nell’aprile del 2011 l’autore viene catturato dalle forze lealiste dell’esercito di Gheddafi e tenuto prigioniero per quarantacinque giorni, la metà di questi in solitudine. Verrà poi rilasciato e tornerà in Spagna. A distanza di due mesi dalla sua liberazione, nell’agosto del 2011, Manu Brabo ripartirà per la Libia andando in cerca proprio dei luoghi dove era stato detenuto, e visitando anche le altre prigioni libiche, nella volontà da un lato, di superare un trauma personale che lo ha colpito profondamente e che ha cambiato il suo approccio nei confronti della sua professione, dall’altro nella convinzione di voler testimoniare come effettivamente il “trattamento” dei prigionieri da parte di una o dell’altra fazione non sia poi così diverso. Tornato in Libia, i suoi carcerieri, come in un terribile gioco delle parti, erano diventati i prigionieri, e l’autore racconta le torture subite anche da questi uomini. La guerra, come sempre accade, trascina l’uomo verso il basso e gli “consente” di far emergere il suo lato oscuro.

“Questo progetto è un tentativo personale di creare una narrazione della condizione di tutti quelli che, ironicamente, hanno perso la loro libertà a causa di una guerra scoppiata proprio per ‘portare questa libertà’.
La storia è principalmente motivata da due esperienze strettamente correlate fra loro. Una riguarda la mia cattura da parte delle truppe lealiste di Gheddafi e la mia conseguente prigionia. L’altra è la conferma, non troppo tempo dopo essere stato rilasciato, del brutale trattamento che i ribelli stavano usando con i prigionieri lealisti al regime di Gheddafi.
Di conseguenza, oltre a cercare di descrivere la situazione dei prigionieri, il tentativo con questo lavoro è quello di raccontare la rabbia, la furia, gli abusi e le torture… ma, soprattutto, l’auto-annientamento dovuto dalla mutilazione del più grande dei nostri desideri come esseri umani, la libertà.
Quindi, offrendo la mia personale esperienza, posso raccontare la situazione dei prigionieri e renderla più vicina, più comprensibile… così come le immagini dei prigionieri possono fare luce sulla mia esperienza.”

Manu Brabo – War Prisoner (Libya)

Gli scatti di War Prisoner, presentati in mostra, documentano la condizione dei prigionieri nelle carceri libiche, raccontando la vita di chi si trova rinchiuso in cella. Manu Brabo decide di intervenire con la scrittura sulle foto stampate, riportando le testimonianze delle persone con le quali è riuscito a entrare in contatto, unite a pensieri e considerazioni personali, esprimendo così anche a parole il dolore e la sofferenza causata da guerre infinite, spesso nella vana ricerca di una finta libertà.

Mudima Lab Milano – dal 17 maggio al 1 luglio

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Diane Arbus: In the Park

Arbus

“… I remember one summer I worked a lot in Washington Square Park. It must have been about 1966. The park was divided. It has these walks, sort of like a sunburst, and there were these territories staked out. There were young hippie junkies down one row. There were lesbians down another, really tough amazingly hard-core lesbians. And in the middle were winos. They were like the first echelon and the girls who came from the Bronx to become hippies would have to sleep with the winos to get to sit on the other part with the junkie hippies. It was really remarkable. And I found it very scary… There were days I just couldn’t work there and then there were days I could…. I got to know a few of them. I hung around a lot… I was very keen to get close to them, so I had to ask to photograph them.” – DA

May 2 – June 24, 2017 Lévy Gorvy – New York

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La notte immensa – Alisa Resnik

Giovedì 8 giugno, all’interno della Milano Photo Week, Officine Fotografiche Milano inaugura ‘La notte immensa’ mostra fotografica di Alisa Resnik a cura di Laura Serani.

ICI LA NUIT EST IMMENSE proclama, a grandi lettere rosse, una delle 42 heures du loup dipinte da Sardis. Intrigante affermazione, che suona come una promessa o una minaccia e che mi richiama le immagini di Alisa Resnik, vacillanti tra sogno e incubo. Immagini che appartengono ad un enigmatico racconto di un’unica interminabile notte, una notte che non conosce la luce dell’alba, si dilata su città deserte, da Berlino a San Pietroburgo, scivola dentro le case, nei bar dove la solitudine cerca riparo e occupa tutto lo spazio. Alisa Resnik fotografa la vita e il suo riflesso, la fragilità, la grazia, la malinconia, la solitudine. Di un universo che respira inquietudini e angosce, restituisce un’immagine da cui trapela soprattutto la sua empatia profonda per le persone e i luoghi.

I personaggi che s’incontrano nel suo viaggio notturno, appaiono ora persi, ora «abitati»; visitatori inattesi, maestri di strane cerimonie, domatori di chissà quali demoni, sembrano nascondere misteri e giocare ruoli a noi ignoti. Nelle immagini di Alisa Resnik lo spettacolo si improvvisa, senza copione, la realtà appare trasformata da una sorta di occhio magico. Come dei fondali di teatro , i corridoi deserti, le fabbriche in disuso, le case all’apparenza disabitata dove luci fioche forse dimenticate interrompono il buio, gli alberi tristemente scintillanti sotto la neve o sotto le ghirlande, ritmano la galleria dei ritratti e la marcia dei sonnambuli.

Le sue immagini, come visioni, non raccontano, trasmettono sensazioni. E ispirano un forte sentimento di nostalgia che avvolge non solo le immagini più direttamente legate al mondo dell’infanzia pervase da un’atmosfera fiabesca o dalla magia di un vecchio circo. Una nostalgia mista a melanconia, come una nebbia leggera, trasforma ovunque in realtà poetiche le persone, i paesaggi, le cose e persino gli animali più provati. Nel mondo di Alisa Resnik, costruito nel corso del tempo, risuona l’eco dei suoi viaggi, degli incontri e della sua vita tra l’Est e l’Ovest, tra il prima e il dopo la caduta del muro di Berlino, che ha vissuto da adolescente.

La scoperta della pittura classica in Italia, l’esperienza dei primi workshop e della Reflexions masterclass, saranno le basi dell’elaborazione spontanea di un linguaggio originale e giusto, espressione d’ incertezze e tormenti profondi. Lo spettro cromatico d’Alisa Resnik è fatto dei colori dell’oscurità, di rossi e verdi profondi che assorbono le rare luci e ricordano i toni tragici della pittura caravakggesca. La sua scrittura fotografica magnetica, traduce un approccio spesso fusionale e un effetto specchio con le persone ritratte. L’insieme assomiglia ad un ritratto di famiglia, di un clan un po’ maledetto forse…, ma dove i legami esistono e resistono contro il buio, la solitudine, il freddo e le paure di andare più lontano.

dall’8 giugno al 26 giugno 2017 – Officine Fotografiche MIlano

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Trump – di Christopher Morris

L’esposizione presenta una selezione di foto scattate da Christopher Morris ai sostenitori di Trump in occasione delle ultime elezioni presidenziali americane. Si tratta di immagini perfettamente composte e dal carattere fortemente cinematografico, in grado di spingersi oltre alla pura descrizione della realtà e di offrire all’osservatore una sorta di commentario politico e sociale. Fotografie dense di simbolismi e significati, che, aprendosi a diversi livelli d’ interpretazione, mettono in luce la teatralità della retorica politica e le contraddizioni e i fanatismi degli elettori.
Morris è un profondo conoscitore della società americana avendo dedicato anni allo studio della rappresentazione del proprio Paese e della sua classe politica, grazie soprattutto all’impegno come fotografo per Time magazine alla Casa Bianca, dal 2000 al 2009.
In mostra sarà presente anche una sequenza particolarmente incisiva di ritratti in bianco e nero di Donald Trump, in cui la mimica facciale del presidente assume un aspetto caricaturale e a tratti inquietante, e una selezione di video in slow motion ai principali candidati presidenziali.
Servendosi di una camera mai utilizzata prima per la documentazione di eventi politici, la Phantom Miro, in grado di riprendere ad una velocità di 720 frames al secondo, Morris ha ideato una nuova forma di narrazione fotogiornalistica. Quando il filmato viene riprodotto ad una velocità di 24 frames al secondo, la realtà appare infatti rallentata in modo spettrale, come se fosse un’animazione sospesa.
Morris elogia la lentezza, creando un’esperienza visiva in cui ogni piccolo dettaglio acquista importanza.
I suoi video potrebbero essere visti in loop per ore e si troverebbe sempre qualche nuovo motivo di riflessione. L’atmosfera è epica, solenne, quasi religiosa; è come se ci trovassimo di fronte a un’epifania dei gesti politici: la camera rivela l’essenza delle pose e dei movimenti misurati del corpo di cui i candidati si servono per persuadere il proprio pubblico. Il suono estraniante e lo slow motion costringono lo spettatore ad una fruizione diversa, hanno un effetto ipnotico, paragonabile a quello delle opere di Bill Viola.
Come ha sottolineato Alessia Glaviano: «Se il video fosse a velocità reale sarebbe semplicemente una cronaca e la situazione sarebbe leggibile per quello che è; rallentandolo, i singoli movimenti si decontestualizzano, si sganciano dalla narrazione di fondo (la campagna ecc.) e si mostrano per quello che sono, nella loro idiozia. Ogni gesto assume una qualità teatrale, e come nel teatro qualsiasi movimento diventa ipersignificante. Il suono, così come il ritmo rallentato, danno ai video una dimensione epica. Sono ipnotici, non puoi smettere di guardarli, senza alcuna aspettativa sulla “trama”: non ti aspetti un inizio, uno svolgimento e una fine ma vieni totalmente assorbito dal tempo dilatato della rappresentazione, vedi i gesti ma non senti i discorsi; in questo modo i gesti assumono più potere ma meno significato, non si sa a cosa farli corrispondere, il dito puntato di Trump diventa Trump stesso, così come la mani aperte di Hillary».

4 Maggio – 11 Giugno 2017 – Linke.lab, Milano

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Sea(e)scapes. Visioni di mare

Contrasto

Una mostra collettiva dei più importanti artisti rappresentati dalla galleria, sul tema del mare: opere fotografiche di Bill Armstrong, Gianni Berengo Gardin, Piergiorgio Branzi, Lorenzo Cicconi Massi, Mario Giacomelli, Irene Kung, Sebastião Salgado, Ferdinando Scianna, Massimo Siragusa.

Le 35 opere in mostra compongono un percorso variegato che si sofferma sulle diverse interpretazioni del tema da parte degli artisti scelti.

Accanto agli scatti di Bill Armstrong, teorie di colore dove il mare è una suggestione da ricercare, la mostra propone i forti contrasti del bianco e nero di Mario Giacomelli e del suo conterraneo Lorenzo Cicconi Massi; le visioni oniriche del mare di Capri di Irene Kung, nelle quali il paesaggio reale è idealizzato in una forma sospesa, senza tempo; la durezza del mare, con una selezione del famoso reportage sulla mattanza del tonno in Sicilia di Sebastião Salgado; così come la leggerezza ironica delle visioni di Gianni Berengo Gardin e le spiagge “metafisiche” di Piergiorgio Branzi. Completano la mostra un insolito Ferdinando Scianna a colori e le vedute, quasi acquarelli, di Massimo Siragusa.

Dal 22 maggio all’8 settembre 2017 – Contrasto Galleria Milano

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 Steve McCurry. Mountain Men

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Un inedito progetto espositivo firmato da uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea internazionale. Steve McCurry. Mountain Men è il titolo della coproduzione Forte di Bard, Steve McCurry Studio, Sudest57 che affronta i temi della vita nelle zone montane e della complessa interazione tra uomo e terre di montagna.
La mostra sarà aperta al pubblico dal 28 maggio al 26 novembre 2017. Una selezione di paesaggi, ritratti e scene di vita quotidiana mette in evidenza il continuo e necessario processo di adattamento delle popolazioni al territorio montano che influenza ogni aspetto dello stile di vita delle persone: dalle attività produttive al tempo libero, dalle tipologie di insediamento, di coltivazione e di allevamento ai sistemi e mezzi di trasporto.
Il percorso presenta 77 immagini raccolte da McCurry nel corso dei suoi innumerevoli viaggi: dall’Afghanistan all’India, dal Brasile all’Etiopia, dalle Filippine al Marocco. La mostra propone in anteprima assoluta anche il risultato di una campagna fotografica condotta in tre periodi di scouting e shooting tra il 2015 e il 2016 in Valle d’Aosta. Dieci scatti destinati a entrare nell’archivio del più richiesto fotografo al mondo; un racconto visivo ed emotivo ricco di suggestione.

Forte di Bard (AO) – dal 28 maggio al 26 novembre 2017

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La forza delle immagini

La Fondazione MAST presenta una nuova mostra tratta dalla propria collezione di fotografia industriale. Sessantasette autori dagli anni venti a oggi mostrano con oltre cento opere – alcune costituite da decine di scatti – il dirompente potere espressivo del linguaggio fotografico nei suoi molteplici significati.

L’esposizione è un tripudio di immagini, un’epopea illustrata, una danza di visioni del mondo del lavoro, una pletora di impressioni dell’industria pesante e di quella meccanica, della digitalizzazione, della società usa e getta.

Lo sguardo di numerosi fotografi ci guida nel regno della produzione e del consumo, rivelando la sorprendente ricchezza dell’universo iconografico del lavoro, della fabbrica e della società. L’esposizione mette a fuoco gli ambienti che caratterizzano il sistema industriale e tecnologico, tocca questioni chiave di natura economica, sociale e politica, ma più che i fatti puri e semplici le immagini cercano di raffigurare nessi e riferimenti articolati, profondi, presentando all’osservatore realtà complesse, che determinano un coinvolgimento emotivo e sensoriale.

I territori visivi cui questa mostra dà vita sono attraversati dall’idea della pluridimensionalità: molti livelli diversi, sentieri, linee temporali, atmosfere che corrono parallele o si incrociano – come l’uomo sul carro trainato da un asino ritratto di fronte a uno stabilimento industriale nella foto di Pepi Merisio o l’accostamento di un piccolo campanile alle torri gemelle del World Trade Center nell’immagine di André Kertész, immagini simbolo dell’intero progetto espositivo.

Fotografie di: BERENICE ABBOTT – MAX ALPERT – TAKASHI ARAI – RICHARD AVEDON – LEWIS BALTZ – GABRIELE BASILICO – BERND E HILLA BECHER – MARGARET BOURKE-WHITE – BILL BRANDT- JOACHIM BROHM – GORDON COSTER – STÉPHANE COUTURIER – THOMAS DEMAND – SIMONE DEMANDT – CÉSAR DOMELA – PIETRO DONZELLI – ARNO FISCHER – FLOTO + WARNER – MASAHISA FUKASE – GEISSLER / SANN – LUIGI  GHIRRI – JIM GOLDBERG – BRIAN GRIFFIN – FERENC HAÁR – HEINRICH HEIDERSBERGER – LEWIS W. HINE – RUDOLF HOLTAPPEL – I.N.P. – INTERNATIONAL – NEWS PHOTOS – COLIN JONES – PETER KEETMAN – ANDRÉ KERTÉSZ – TAKASHI KIJIMA  – HIROKO KOMATSU – GERMAINE KRULL – DOROTHEA LANGE –  FRANZ LAZI – CATHERINE LEUTENEGGER – O. WINSTON LINK – RÉMY MARKOWITSCH – EDGAR MARTINS – REINHARD MATZ – PEPI  MERISIO – NINO MIGLIORI – RICHARD MISRACH – JAMES MUDD – NASA PHOTOGRAPHS – WALTER NIEDERMAYR – KIYOSHI NIIYAMA – FEDERICO PATELLANI – MARION POST WOLLCOTT – TATA RONKHOLZ – SEBASTIÃO SALGADO – VICTOR SHAKHOVSKy – CHARLES SHEELER – GRAHAM SMITH – W. EUGENE SMITH – JULES SPINATSCH – HENRIK SPOHLER – ANTON STANKOWSKI – EDWARD STEICHEN – OTTO STEINERT – THOMAS STRUTH – JÁNOS SZÁSZ – YUTAKA TAKANASHI – SHOMEI TOMATSU – JAKOB TUGGENER

MAST Bologna dal 3 amggio al 21 settembre.

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Tina Mazzini Zuccoli – ReVisioni di un archivio

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Fondazione Fotografia Modena partecipa all’edizione 2017 del festival Fotografia Europea di Reggio Emilia sul tema “Mappe del tempo. Memoria, archivi, futuro” con una mostra che ha origine dall’archivio privato di Tina Mazzini Zuccoli (Imola 1928 – Modena 2006), una maestra elementare degli anni Sessanta dalla personalità fuori dal comune.

Accompagnata dal marito Enzo, tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, la Zuccoli affiancò al suo ruolo di insegnante quello di esploratrice curiosa, compiendo numerosi viaggi nell’Artico e negli Stati Uniti, in particolare nella base spaziale americana di Cape Canaveral, dove fu invitata ad assistere al lancio dell’Apollo 11.

La mostra, a cura di Silvia Vercelli e Andrea Simi, presenta una selezione di immagini e documenti provenienti dall’archivio fotografico “Tina Zuccoli”, di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e conservato presso Fondazione Fotografia, proponendone una rivisitazione fotografica contemporanea, arricchita dalle immagini di Andrea Simi e dalle video-testimonianze di persone legate all’autrice.

4 maggio – 4 giugno 2017 – Fondazione Fotografia Modena

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FACE(S) to FACE – Ivano Mercanzin

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[..] In punta di piedi, in una dimensione quasi ipnotica, ritraggo i miei personaggi, appropriandomi con discrezione di un pezzetto della loro vita.

Con queste parole alcuni mesi fa Mercanzin ha esordito in occasione dell’incontro singolare, eppure fertile, con i Dottori Giuseppe e Costantino Vignato dell’omonima Fondazione che hanno visto nelle sue fotografie quello stile narrativo che con la filosofia Vignato ha molto in comune.
Tanto è che il 29 maggio prossimo, in occasione dell’opening della mostra fotografica FACE(S) to FACE, dedicata ai suoi ritratti di una New York underground, in cui molti dei quotidiani spostamenti avvengono in uno dei non-luoghi della modernità per eccellenza, come la metropolitana, si potrà assistere a un’inedita chiacchierata su quanto possano avere in comune
Fotografia e Ortodonzia.
Effettivamente non giunge immediato il collegamento tra queste due professioni, tuttavia il rispettivo racconto delle filosofie che guidano lo sguardo del Fotografo che sceglie come catturarequell’hinc et nunc che lo convince maggiormente, e l’Odontoiatra che osserva un volto, lavora sul
sorriso e al contempo si relaziona con le emozioni del paziente, ha portato a parlare lo stesso linguaggio e affrontare gli stessi temi, ora dal medesimo punto di vista, ora da ottiche opposte.
Un sorriso rubato, ricostruito, o solamente cercato svela un mondo spesso non facile da afferrare in tutta la sua complessità e che apre la strada a un viaggio – inteso come modificazione di sé – che può far riflettere e guardare da punti di vista non sempre esplorati.
Ecco dunque la Fondazione Vignato aprire le porte della sua sede in Contrà Torretti 52 a Vicenza a un vero e proprio face to face, un interscambio tra professionisti dell’osservare e del fare – Fotografo e Odontoiatri – che parlerà di relazioni, maschere e solitudine, ma anche di tecnica e
artifizio, etica e estetica per il puro piacere di raccontarsi e sentirsi vivi, in un mondo in cui sempre più il confine pubblico-privato, così come socialmente inteso slitta e subisce ora contrazioni, ora grandi dilatazioni che fanno sorridere e riflettere. A partire proprio dalle fotografie di Mercanzin, che quelle foto le ha scattate nel suo viaggio newyorkese quando da Manhattan al Queens, andata e ritorno in metrò, si è mescolato alla scia di
pendolari giornalieri che si recano e tornano dal lavoro, si proverà a delineare un ideale percorso che tra i bianchi e i neri degli scatti esposti racconterà molto dell’artista, ma anche di cosa significa oggi essere Odontoiatra, prima di tutto Medico che cura la persona.

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Gianni Berengo Gardin – In festa.

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La mostra è realizzata per i Dialoghi da un maestro della fotografia contemporanea per continuare il percorso sul tema della cultura, e in particolare della cultura popolare, in Italia. Attraverso sessanta fotografie in bianco e nero, realizzate fra 1957 e il 2009, Gianni Berengo Gardin ci mostra la società italiana, i riti, i mutamenti, documentando attentamente non solo il paesaggio socioculturale del nostro paese, ma specialmente i piccoli e grandi cambiamenti. Un piccolo meraviglioso atlante fotografico delle feste popolari, che racconta di costumi e tradizioni antiche e meticce di tutte le regioni, con uno sguardo dal taglio etnografico, ma allo stesso tempo di intenerita curiosità. Una sorta di metodo del “doppio sguardo” alla De Martino, un’andata e ritorno verso “l’altro”. Così un affascinante mondo popolato di bambini, di zingari, di anziane o giovani signore vestite per la festa, di danzatori di ogni età, diviene il racconto di un’Italia “in festa”, dove ognuno celebra la propria cultura e la propria storia con riti vecchi e nuovi. Sempre sapientemente catturati nel loro attimo essenziale da un antropologo che ha deciso di fare il fotografo.

A cura di Giulia Cogoli

26 maggio – 2 luglio – Sale affrescate Palazzo Comunale – Pistoia

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FAMILY TREE | Donatella Izzo

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ORIGINE intesa come mutamento, come nuovo stimolo visivo, come base di partenza ma anche come inevitabile epilogo. ORIGINE è infatti osservazione dell’essere umano nell’analisi che egli compie su se stesso, tra capacità creative indiscutibili e inevitabili quanto connaturate dinamiche distruttive. Nella più generale ricerca di un equilibrio difficilmente accessibile, l’intera stagione si concentra sul Tempo – quello dell’uomo e quello del mondo – e sulle regole che lo governano, ponendo l’accento sul rapporto antinomico tra vita e morte, uomo e natura, storia ed eternità.

Concepito sulle rivelazioni di una anti-identità estetica e sulla personale eredità genetico-emotiva dell’individuo, Family Tree dell’artista Donatella Izzo, è il secondo intervento espositivo del progetto ORIGINE che LABottega propone per la stagione 2017.

Un’indagine introspettiva sul ritratto e sull’autoritratto concettuale e narrativo, come esplicitazione del rapporto tra esteriorità e interiorità, tra apparenza ed effettiva crisi di contenuti nella società contemporanea. Un diverso ideale di bellezza, indagato attraverso una personale rielaborazione della tematica del ritratto: al cospetto di una realtà forzatamente basata sull’apparire, l’artista procede alla definizione di una nuova estetica dominante, di un’anti-identità, nella quale l’imperfezione diviene qualità, il difetto vita. Immagini reali, crude e taglienti, lacerate, assenti o disilluse, restituite al loro valore familiare, letterario, narrativo, visivo: un diario personale di ricordi per immagini e un’indagine psicologica al contempo, genealogia completa e futuribile del proprio animo. Attraverso la contaminazione stilistica di identità inesistenti comunque plausibili, la Izzo genera dunque una nuova comunità di individui dotati di carattere e relazioni, affetti e insicurezze, soggetti reali come simboli del proprio io – in quanto singolo; e campioni delle aspirazioni altrui – in quanto comunità.

dal 20 Maggio al 9 Luglio 2017 – LABottega – Marina di Pietrasanta

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World Press Photo 2017

Da ventitré anni la Galleria Carla Sozzani presenta a Milano il World Press Photo, uno dei più significativi premi di fotogiornalismo del mondo, quest’anno alla sua 60° edizione.

Il World Press Photo premia il fotografo che nel corso dell’ultimo anno, con creatività visiva e competenza, sia riuscito a catturare o a rappresentare un avvenimento o un argomento di forte rilevanza giornalistica.

Vincitore della Foto dell’anno 2016 e della categoria Spot News, è stato nominato Burhan Ozbilici, fotografo turco dell’Associated Press da 28 anni che, con An Assassination in Turkey,  ha ritratto Mevlüt Mert Altıntaş l’attentatore dell’ambasciatore russo in Turchia, Andrei Karlov, dopo l’omicidio del 19 dicembre 2016, in una galleria d’arte ad Ankara.

 Tra i fotografi italiani, quattro i premiati: Giovanni Capriotti con Boys Will Be Boys, primo classificato nella sezione Sport-storie; Francesco Comello con Isle of Salvation terzo posto nella sezione Vita Quotidiana-storie; Antonio Gibotta, dell’agenzia Controluce con Enfarinat, terzo classificato nella categoria Ritratti-storie e Alessio Romenzi con We are not Taking any Prisoners terzo nella categoria Notizie Generali-storie.

La giuria internazionale di quest’anno, presieduta da Stuart Franklin, fotografo di Magnum Photos, ha esaminato 80.408 immagini scattate nell’anno precedente da 5.034 fotografi provenienti da 125 Stati.

I premi sono suddivisi in otto categorie, ciascuna distinta in “scatti singoli” e “storie”: Attualità,
Vita Quotidiana, Notizie Generali, Progetti a Lungo Termine, Natura, Ritratti, Sport e Spot News,
e destinati a 45 fotografi di 25 nazioni: Australia, Brasile, Canada, Cile, Cina, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, India, Iran, Italia, Pakistan, Filippine, Romania, Russia, Sudafrica, Spagna, Svezia, Siria, Nuova Zelanda, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti.

La World Press Photo Foundation è un’organizzazione indipendente, senza scopo di lucro, con sede ad Amsterdam nei Paesi Bassi. Questo premio fu fondato nel 1955 dal sindacato dei fotoreporter olandesi, che ebbero l’idea di creare un concorso internazionale per estendere i confini del loro concorso locale, “Camera Zilveren”. Speravano in questo modo di trarre beneficio dal confronto con il lavoro dei colleghi internazionali. Così, fin dall’inizio, la WPP Foundation sostiene il giornalismo visivo attraverso mostre e programmi di ricerca e di formazione, per ispirare e educare i fotografi e il loro pubblico con nuove intuizioni e prospettive.

Una segreteria senza diritto di voto tutela l’equità del processo di selezione ed esposizione, con l’unico vincolo che tutte le immagini premiate vengano esposte senza censura.

Ogni anno la World Press Photo Foundation riunisce le fotografie vincenti in una mostra itinerante in 45 paesi, tra cui Cina, Danimarca, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Emirati Arabi, ed è vista da più di 4 milioni di persone.

dal 7 maggio all’11 giugno 2017 – Galleria Sozzani Milano

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INTERNO-ESTERNO L’esterno è sempre un interno

Cirenei

Inaugura martedì 30 maggio 2017 alla Galleria Anna Maria Consadori la mostra “Interno-Esterno. L’esterno è sempre un interno”
inserita all’interno di Milano PhotoFestival, la rassegna di fotografia giunta alla dodicesima edizione.

In linea con l’indirizzo artistico della galleria, orientata alla promozione dell’arte e del design del XX secolo, l’esposizione cita l’espressione di Le Corbusier “Le dehors est toujours un dedans” (1923) e raccoglie fotografie di interni ed esterni architettonici realizzate da:  Valentina Angeloni, Matteo Cirenei, Giancarlo Consonni, Daniele De Lonti, Tancredi Mangano, Marco Menghi, Antonio Salvador.

Accanto ai fotografi emergenti, la galleria propone un focus sulla fotografia d’epoca, con scatti di: Eric Mendelsohn, Theo Van Doesburg, Ezra Stoller, Mario Crimella, William H. Short.
Anche in questo caso interni ed esterni architettonici saranno gli assoluti protagonisti degli scatti in mostra.

“Interno-Esterno. L’esterno è sempre un interno” sarà aperta alla Galleria Anna Maria Consadori fino al 20 giugno.

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Mostre da non perdere a febbraio

Rieccoci con alcune mostre che vi consigliamo per il mese di febbraio.
Io quasi quasi faccio ua capatina a Parigi… 🙂

Ricordatevi di consultare la pagina delle mostre sempre aggiornata.

Ciao

Anna

Joel Meyerowitz – Taking My Time – Part II

Polka Galerie – Parigi – dal 14 gennaio 2017 al 4 marzo 2017

La galerie Polka présente le second volet de l’expoistion « Taking My Time », un cycle rétrospectif en deux tableaux consacré au grand photographe américain Joel Meyerowitz. Autobiographique et méditative, l’exposition plonge dans la mémoire d’un artiste spectateur qui a traversé l’histoire récente de la photographie. La deuxième partie du voyage se consacre aux paysages et à la lumière, laissant les rues de New York de la « Part. I » derrière elle.

A la  fin des années 1960, l’auteur de Bystanders (1994) interroge les secrets de la couleur, en explorant sa finesse, ses tonalités, ses contrastes et ses saturations veloutées. Le bouleversement sémantique que présuppose l’abandon du noir et blanc conduit Meyerowitz vers le contexte de ses images. Le grand format joue ici un rôle prépondérant. En 1976, l’artiste fait l’acquisition d’une chambre photographique grand format, une Deardorff 8×10. C’est à Cape Cod, où il passe ses vacances, que Meyerowitz l’utilise pour la première fois. Avec sa lumière, ses paysages vides, plats, silencieux voire figés, la presqu’île balnéaire du Massachusetts est à l’exact opposé de l’énergie new-yorkaise qu’il photographie à ses débuts, au 35mm. Mécaniquement et symboliquement, la vision change. Le dispositif et les règles aussi.

L’expérience de la chambre photographique permet à Joel Meyerowitz de résoudre un paradoxe esthétique et artistique auquel il s’est confronté dès ses débuts, au moment où la photographie couleur, médium de masse par excellence, gagnait son statut d’œuvre d’art. Là où Fred Herzog ou Stephen Shore, pour s’en libérer, neutralisent les nuances, Meyerowitz fait le contraire, assumant la richesse et la puissance des pigments. La couleur n’est plus seulement un procédé, elle devient un langage. Et la photographie un métabolisme, un théâtre, un lieu de contemplation qui se joue des hors-champs et des harmonies chromatiques. « L’action n’est plus au cœur, elle devient presque accessoire. Mon image a d’autres ambitions. » En 1979, paraît Cape Light, son livre culte, clin d’œil au passé et pré guration de ses futures séries.

Après les piscines de Cape Cod viendront d’autres paysages, d’autres formes, d’autres architectures. Des forêts de Toscane aux ruines du World Trade Center en passant par les ateliers du grand peintre italien Giorgio Morandi. Le voyage de Meyerowitz devient alors intérieur.

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William Klein – Paris+Klein

Polka Galerie – Parigi – dal 14 gennaio 2017 al 4 marzo 2017

« Paris+Klein » est une installation originale où l’artiste raconte son goût pour le désordre et sa fascination pour Paris, sa ville d’adoption. Construite comme un hommage à la capitale, l’exposition s’organise autour d’une mosaïque de 33 tirages à laquelle répondent une épreuve grand format d’un mannequin salué par des marines américains sur le Pont Alexandre III et des contacts- peints réalisés par l’artiste au début des années 90.

Klein le new-yorkais, à propos de Paris, raconte : « J’ai constaté qu’en général le Paris des photographes, même celui des plus grands, était romantique, brumeux et surtout mono-ethnique : une ville grise peuplée par des blancs. Or, pour moi, Paris était – autant et peut-être plus que New York – un melting-pot. Une ville cosmopolite, multi-culturelle et totalement multi-ethnique, n’en déplaise à Le Pen. Puis si je parle de New York, ma ville natale, je suis frappé par combien Paris est une ville moderne en comparaison, qui se transforme et où les choses marchent : le métro, le RER, et même le trafic, contrairement aux idées reçues.  Et puis Paris est drôle. Evidemment, pas pour tout le monde, mais, comparé à l’angoisse de New York… ».

De New York à Tokyo et de Rome à Paris en passant par Moscou, William Klein a toujours aimé la ville. Ses rues, ses trottoirs, ses cafés et terrasses, les passants, les amoureux, les manifestants. Il la photographie toujours dans la vérité de l’instant, de l’inattendu et de l’accident. Son credo: «No rules, no limits». Tout lui est permis. Il prend ce que l’on lui refuse, brise les interdits comme il casse les angles et néglige les réglages. Sa frénésie à se saisir de tout ce qui bouge et frétille provoque chez lui une transe créatrice. C’est sa danse.

« Pourquoi tant de rassemblements, de manifestations de fêtes et de foules. D’abord parce qu’il y en a. Et puis, il est vrai que j’ai toujours adopté une façon de cadrer basée sur le bordel des corps qui s’entremêlent, les regards qui s’entrecroisent et qui finissent par s’ordonner. Mais en réfléchissant, je me demande s’il n’y a pas autre chose. Je vis ici depuis un bon moment, mais je me sens toujours étranger. Mêlé aux foules, je me demande si ce n’est pas un désir d’appartenir. ».

L’exposition « Paris +Klein » à la galerie Polka est présentée en parallèle de « 5 Cities », une rétrospective du travail de William Klein, à découvrir jusqu’au 5 février 2017 au Centre Culturel Le Botanique de Bruxelles.

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JESSICA BACKHAUS –  SIX DEGREES OF FREEDOM

Six Degrees of Freedom è l’ultimo lavoro di Jessica Backhaus. Il titolo è un riferimento alla libertà di movimento di un corpo nello spazio, in ogni direzione possibile.
Sei gradi di libertà è una definizione mutuata dalla scienza. Allo stesso tempo esprime perfettamente l’idea che siamo il risultato delle nostre scelte in un dato contesto.

In questo lavoro autrice ha guardato alla propria vita; nel suo complesso, questa serie di immagini esprime il desiderio della Backhaus di indagare le proprie radici. Jessica Backhaus ha visitato i luoghi della propria infanzia e adolescenza, cercando di esprimere simbolicamente il senso di questa ricerca e le diverse fasi della vita.

Allo stesso tempo, le fotografie sono aperte all’interpretazione dell’osservatore. In Six Degrees of Freedom i temi ricorrenti sono la memoria, il contesto, il desiderio, l’identità e il destino. La ricerca delle nostre radici, nel lavoro dell’artista, è il desiderio di trovare la nostra vera identità e infine un invito a vivere secondo le nostre convinzioni, senza compromessi.

Tutto questo, attraverso meravigliosi still life.

Come ha scritto Jean Christoph Amman nell’introduzione a un precedente lavoro (Once, Still and Forever, pubblicato da Kehrer Verlag nel 2012)
‘A volte, comprendere il significato del lavoro di un artista richiede tempo. Quante volte l’attenzione è catturata da un tratto evidente. Nel caso di Jessica Backhaus, tale caratteristica evidente rappresenta anche l’occasione per contemplare ‘i modi del mondo, l’ordine delle cose (che il disordine rende necessario), in quanto luce e colore diventano, nel suo lavoro, generatori di vita. Ma non è tutto qui, c’è anche una sottile malinconia, a suggerirci che non possiamo cambiare il flusso delle cose. In altre parole, che dovremmo piuttosto seguirlo.’

Six Degrees of Freedom è anche un libro, pubblicato da Kehrer Verlag nel 2015

20 gennaio 2017–25 febbraio 2017
Micamera – lens based arts Milano

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CONTEMPORARY CLUSTER #02 FEAT. MUSTAFA SABBAGH

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Reduce dal recente successo della sua prima mostra antologica, che gli è valsa il conferimento della cittadinanza onoraria di Palermo, e dal trionfo della pièce teatrale dedicatagli dalla trentennale compagnia performativa NèonTeatro, Mustafa Sabbagh (Amman, 1961) sceglie Roma – e la Fluxhall intermediale di Contemporary Cluster, concept espositivo che eleva l’Arte e ne esalta il Feticcio – per consacrare Onore al Nero, serie fotografica che lo ha reso celebre nel panorama artistico internazionale, e per scavare più a fondo del suo Nero, iniettandolo di lavori inediti e concepiti ad hoc per Cluster.

In [contemporary cluster #02 feat. mustafa sabbagh], l’artista coniuga il delirio visionario del Demiurgo al rigore clinico del Chirurgo, nella perfetta economia di un post-barocco sorprendentemente, sapientemente minimal. L’unico senso possibile è il non-sense dell’ossessione: la morbosità del dettaglio diventa padronanza di ogni fase della creazione, dalla raffinata ossatura scenica nella cui composizione è maestro, alla capacità di immergersi e fare suoi, attraverso il gesto artistico che lo connota, territori inesplorati o mai rivelati – scent, jewel, furniture e sound design, in collaborazione diretta con eccellenze di ognuno dei settori di appartenenza.

Contemporary Cluster #02 – Roma – Dal 28 gennaio 2017 al 15 aprile 2017

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Mario Cresci

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10 Febbraio 2017 to 17 Aprile 2017 – 7:00pm— A cura di: M. Cristina Rodeschini e Mario Cresci
Inaugurazione: giovedì 9 febbraio, ore 19:00

Dal 10 febbraio al 17 aprile 2017 la GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo presenta la prima grande mostra antologica dedicata al lavoro fotografico di Mario Cresci (Chiavari, 1942), la cui figura artistica può essere considerata tra le più ricche e complete, per intenti ed esiti, della scena italiana del dopoguerra.

A cura di M. Cristina Rodeschini e Mario Cresci, la mostra offre una panoramica completa della poetica dell’artista, dalle origini del suo lavoro fino a oggi, evidenziandone l’attualità della ricerca nel contesto delle tendenze artistiche contemporanee.

Cresci utilizza il linguaggio della fotografia per approfondire aspetti legati alla memoria, alla percezione, alle analogie, in un’analisi suggestiva che diventa un invito a confrontarsi in modo inedito con la realtà, con i luoghi, intesi come deposito di relazioni, memorie, tracce.

La mostra attraversa la produzione dell’artista dalle prime sperimentazioni sulle geometrie alle indagini di carattere antropologico sulla cultura lucana della fine degli anni Sessanta, ai progetti dedicati alla ricerca della scrittura fotografica e all’equivocità della percezione, in un percorso espositivo articolato in dodici sezioni capace di mettere in risalto analogie formali e correlazioni concettuali fra le diverse opere, privilegiando, così, uno sviluppo non necessariamente cronologico della sua produzione e poetica.

Sarà inoltre presentata la rivisitazione di alcune sue famose installazioni poste in dialogo con opere più recenti, attraverso la ricerca di un’articolazione studiata per i diversi spazi espositivi; installazioni che presenteranno materiali eterogenei, non appartenenti unicamente allo specifico della tecnica fotografica, poiché, fin dagli esordi, Cresci è autore di opere composite caratterizzate da una libertà che attraversa il disegno, la fotografia, le installazioni e l’esperienza video.

La mostra si propone, infatti, di presentare il lavoro dell’artista mettendo in risalto questo continuo e proficuo scambio tra l’arte, la grafica e la fotografia, intesa quest’ultima come medium della ricerca artistica e al tempo stesso come riflessione teorica connessa con altri saperi e discipline. La profonda riflessione condotta da Cresci sulle potenzialità del linguaggio fotografico si è sviluppata, da sempre, in dialogo stringente con la più aggiornata ricerca artistica.

Il titolo della mostra, La fotografia del no, si rifà al libro di Goffredo Fofi Il cinema del no. Visioni anarchiche della vita e della società (Elèuthera, 2015), che rispecchia in gran parte il pensiero dell’artista riguardo alla fotografia, intesa come mezzo privilegiato, ma non unico, per le sue scelte di vita e di relazioquane con gli altri. Per Cresci, infatti, la fotografia è un “atto globale, non circoscrivibile al singolo scatto”, che si contamina, diventando argomento di testi e oggetto di docenza, nella ricerca di un dialogo con le giovani generazioni, per lui cruciale.

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Joel Sternfeld  – Colour Photographs: 1977-1988

 

Beetles+Huxley is pleased to present Colour Photographs: 1977-1988, the first solo exhibition in the UK by the American photographer, Joel Sternfeld for 15 years. Featuring 30 vintage dye transfer and chromogenic prints, the exhibition will include well known images by the artist as well as works that have never been seen before.

The exhibition will showcase several examples of vintage dye transfer prints from one of Sternfeld’s best-known bodies of work, “American Prospects”. Sternfeld traversed the United States with his 8 x 10 inch camera, in order to capture the essential character of the country. First exhibited at the Museum of Modern Art, New York and then published in book form in 1987, “American Prospects” is regarded as one of the most influential bodies of photographic work from this period.

“American Prospects” is seen as a continuation of the American documentary tradition established in the 1930s by Walker Evans and continued by Robert Frank twenty years later. Sternfeld expanded the trajectory of the medium by photographing scenes rich with implied narrative, which were also distinct in their colour and composition. Pictures included in the exhibition demonstrate early experiments with colour and conceptual strategies that the artist would develop later on into complete bodies of work.

Sternfeld’s work is characterised by its attention to societal issues, delicately balanced by subtle irony and humour. “McLean, Virginia, December 1978” is an example of this; here we see a fire fighter shopping for a pumpkin at a farm market whilst a house on fire blazes in the background. Despite appearances, the scene that Sternfeld had captured was a controlled training exercise, and a chief who was able to leave his post when the house was allowed to burn to the ground. The hidden story of this photograph shows Sternfeld to be engaging with the problematic ‘truth value’ of photography.

Born in 1944 in New York City, Sternfeld earned a BA in Art from Dartmouth College in 1965. His work has been the subject of multiple exhibitions in museums and galleries worldwide, including the Museum of Modern Art, New York, The Art Institute of Chicago, the Museum Folkwang Essen, the Albertina Museum of Vienna and C/O Berlin. He has received numerous awards including two Guggenheim fellowships, a Prix de Rome and the Citibank Photography Award. He holds the Noble Foundation Chair in Art and Cultural History at Sarah Lawrence College.

Giles Huxley-Parlour, director of Beetles+Huxley, has stated: “Sternfeld’s work has become an influential part of art history and has shaped the way that the world looks at American life and culture. His pioneering early colour photographs present a country of immense beauty and opportunity, but one seemingly stuck at a turning point: proud of its past as a noble experiment in democracy, but fraught with various new and disturbing forces. His work resonates strongly today at a time of such upheaval in American politics and society.”

27 January – 18 February  – Beetles+Huxley  – London

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Henri Cartier-Bresson – Images à la Sauvette

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From January 11 to April 23, 2017, the Foundation devotes an exhibition to Cartier-Bresson’s famous publication Images à la Sauvette. Initated by the French publisher Tériade, the project is finally achieved on October 1952 as a French-American co-edition, with the contribution of Matisse and the American publishers Simon and Schuster. The latter chose “The Decisive Moment” as the title of the American version, and unintentionally imposed the motto which would define Cartier-Bresson’s work. Since its publication in 1952, Images à la Sauvette has received an overwhelming success. It is considered as “a Bible for photographers” according to Robert Capa’s words. The innovative design of the publication stroke the art world with its refine format, the heliogravure quality and the strength of the image sequences. The publication reveals the inherent duality of Cartier-Bresson’s work; between the photographer’s intimate interpretation and his documentary approach.

Images à la Sauvette is the fruit of joined efforts of a famous art publisher, Tériade, a talented photographer, a painter at the peak of his career, Matisse, and two American publishers, Simon and Schuster. From his beginnings, Cartier‑Bresson considers the book as the outcome of his work. In the thirties, he met the publisher of Verve, Tériade, who he would later likely acknowledge to be his mentor. They plan, at the time, to carry out a book project on large cities rough areas together with Eli Lotar, Bill Brandt and Brassaï, but this ambitious project will never see the light of day.

Images à la Sauvette established itself as an extremely pioneering work by its wish to claim the images strength as the unique narrative form and the emphasis on the photographer text. It proposes a daring purity, allowing the 24 x 36 to spread out on its very large format pages. A model of its kind with the heliogravure printing by the best craftsmen of the era, the Draeger brothers, and the splendid Matisse cover has been called “A bible for photographers” by Robert Capa. In Spring 1951, Cartier-Bresson explains, “While our prints are beautiful and perfectly composed (as they should be), they are not photographs for salons […] In the end, our final image is the printed one”. This affirmation definitely proclaims Images à la Sauvette as an artist’s book.

The exhibition presents a selection of vintage prints as well as numerous archival documents to recount the history of this publication, until its facsimile reprint by Steidl Verlag, in 2014. This edition comes with an additional booklet containing an essay by Clément Chéroux.

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Paolo Ventura. I pagliacci

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Per la prima volta, il Teatro Regio e CAMERA collaborano alla presentazione di un progetto artistico importante per la città. Si tratta del lavoro studiato e realizzato per il Teatro Regio da Paolo Ventura, autore delle scene, dei costumi e dei video di Pagliacci, l’opera di Ruggero Leoncavallo in scena al Teatro Regio dall’11 al 22 gennaio. Contemporaneamente il Regio e CAMERA esporranno il materiale artistico prodotto da Ventura: il Regio alcuni bozzetti delle scene e dei costumi, che saranno visibili durante le recite nel Foyer d’ingresso del Teatro; CAMERA, le fotografie, altri bozzetti e le sculture realizzate dall’artista, a testimoniare l’approccio originale di Ventura al mondo dell’immagine nella sua interezza, di cui la fotografia è parte fondamentale.

Ventura si è imposto all’attenzione internazionale grazie alle sue fotografie di mondi ricostruiti, malinconici e talvolta ironici ai quali egli dà una nuova vita. Simili a teatrini, dove si aggirano personaggi solitari, misteriosi, in un tempo come sospeso, difficilmente identificabile, le sue opere trasportano gli spettatori in un universo onirico, con atmosfere irreali e al contempo famigliari. Costruendo egli stesso  le scene e i costumi, Ventura ricrea un immaginario dove i protagonisti, le scene e i costumi mescolano il reale alla finzione, la suggestione al sogno. Sembra così naturale un suo passaggio al mondo del teatro e della scenografia: l’artista nel 2014 viene chiamato dal Teatro dell’Opera di Chicago per realizzare le scenografie dell’opera Carousel di Rodgers e Hammerstein, che riscuotono un grande successo. Nel 2015 il regista Gabriele Lavia  e il Teatro Regio di Torino lo invitano alla realizzazione delle scenografie dell’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.

Il progetto delle scenografie, prevede da parte dell’artista un lungo studio e la realizzazione di molte opere, che diverranno infine la scenografia teatrale vera e propria. Paolo Ventura realizza numerosi bozzetti dei paesaggi e dei costumi dei personaggi;  successivamente, coerentemente con il suo metodo di lavoro e la sua poetica, crea alcune sculture di piccole dimensioni, che diventano protagoniste assieme ai fondali da lui dipinti, di fotografie, tutti materiali che il teatro utilizza poi per costruire le sue scenografie praticabili.

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Broomberg & Chanarin: Trace Evidence

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20 January – 17 March 2017 – Lisson Gallery Milano

Broomberg & Chanarin’s first solo exhibition at Lisson Gallery Milan provides a broad overview of the artists’ work through eight different photographic series from 2006 to 2016, presented alongside a new work created especially for the show.
Trace evidence is created when objects collide or connect and some material is transferred by friction between them. The term is associated with forensic science and the reconstruction of crimes, often describing how people, places and inanimate things interact with each other. An examination of Broomberg & Chanarin’s work over the past decade unearths an approach to photography that is both anthropological and political in nature, characterised by an inherently investigative quality. The artists use photography as a form of conceptual ethnography, immersing themselves into spaces and situations that reveal evidence, residue or traces of past human presence. With abstracted imagery deliberately lacking a central subject or focal point, their refusal to depict or narrativise has become one of their primary tools for communicating the ineffable in war and conflict.
Works on display bring to the fore the duo’s constructions of identity and human behaviour and can be understood as surrogates for missing objects or persons. The exhibition title draws directly from a recent work by Broomberg & Chanarin, created in 2015 for the Freud Museum in London, in which they commissioned a police forensics team to gather DNA samples of hairs and other fibres from the rug covering Freud’s couch. These findings were transformed into a large woven tapestry, mirroring the scale and texture of the original, as well as a number of high-resolution radiographic quartz images, all collated under the rubric of Trace Evidence. When the artists were embedded with the British Army in Afghanistan, rather than photographing the landscape or soldiers in combat, they unrolled lengths of photographic paper to ‘record’ abstract moments. Only the titles the artists later assigned to these compositions – The Day Nobody Died or Repatriation (all 2008) – allude to a time, place or death, combining to create an alternative war diary.

The idea of staging, rehearsal and artifice relates to the artists’ on-going interest in German poet Bertold Brecht and his experiments in poetry and theatre, an influence that is also evident in Portable Monuments (2012). Here the artists use coloured blocks as stand-ins for significant events or characters from newspaper photographs, the resulting fictions are vehicles to explore the documentation, dissemination and currency of media imagery.
Subversive investigations into the mainstream continue in American Landscapes (2009), which spotlight the interiors of commercial photography studios across the USA where images are manufactured, again in opposition to the rules of representation. Physical restriction and personal expression are more closely observed in Red House (2006) – photos of marks and drawings made on the walls of a building in Iraq by Kurdish prisoners – the recorded traces of oppression.

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Diane arbus – in the beginning

January 21–April 30, 2017 – San Francisco Museum of Modern Art

diane arbus: in the beginning considers the first seven years of the photographer’s career, from 1956 to 1962. A lifelong New Yorker, Arbus found the city and its citizens an endlessly rich subject for her art. Working in Times Square, the Lower East Side, and Coney Island, she made some of the most powerful portraits of the twentieth century, training her lens on the pedestrians and performers she encountered there. This exhibition highlights her early and enduring interest in the subject matter that would come to define her as an artist. It also reveals the artist’s evolution from a 35mm format to the now instantly recognizable and widely imitated look of the square format she adopted in 1962. Bringing together over 100 photographs from this formative period, many on display for the first time, diane arbus: in the beginning offers fresh insights into the distinctive vision of this iconic American photographer

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Attraverso – Lia Pasqualino

 

È stato Walter Benjamin a notare come l’osservatore, il protagonista del racconto di Edgar Allan Poe intitolato L’uomo nella folla, guardando attraverso i vetri di un locale pubblico, cioè da un’apparente posizione di sicurezza, finisca per “soccombere a un’attrazione che lo trascinerà nel vortice della folla”.Attraverso è il titolo scelto per la mostra di Lia Pasqualino che si terrà alla Galleria del Cembalo da sabato 14 gennaio a sabato 1 aprile 2017. Saranno esposte venti fotografie inedite in bianco e nero della fotografa palermitana che ritraggono persone in posa o in situazioni viste attraverso la superficie di un vetro. Foto in cui il vetro svolge la funzione di filtro da cui partire per creare ciò che si realizza nell’inquadratura, ossia quel legame speciale e irripetibile tra la persona, l’emozione, la memoria, e il silenzio, coagulato nel tempo dello scatto.

Come l’osservatore di Poe, Lia Pasqualino ritaglia la visibilità del mondo nella distanza imposta da una finestra e, come lui, ne estrae la misura incandescente di una relazione essenziale con la vita. Dietro il vetro tutto appare senza tempo, allucinatorio, e ricorrente.

Se è vero che c’è uno strano silenzio quando si guarda il mondo attraverso una parete di vetro, è anche vero che si tratta del silenzio più ammaliante e catturante che esista. La finestra è un dispositivo usato da sempre, e che la pittura, la fotografia, il cinema hanno variamente celebrato.

Leon Battista Alberti definiva il quadro “come una finestra onde si possa vedere l’historia”. E Ortega y Gasset scriveva che “un angolo di città o di paesaggio, visto attraverso il riquadro della finestra, sembra distaccarsi dalla realtà e acquistare una straordinaria palpitazione ideale”. Anche Luigi Ghirri definiva la fotografia “una finestra aperta sul mondo”. E infatti le sue immagini sono piene di finestre.

La finestra e il vetro svolgono da sempre una funzione essenziale: esaltano la relazione tra il dentro e il fuori. E gli sguardi che Lia Pasqualino scopre o mette in posa sembrano nello stesso tempo rivolgersi all’interno e all’esterno, sempre trasognati o impegnati a guardare oltre se stessi, verso quel punto fermo del mondo che ruota di cui parla in una sua celebre poesia T. S. Eliot.

La finestra ritratta da Lia Pasqualino è il confine per far passare nello sguardo, simultaneamente, quello che siamo e quello che vorremmo essere, quello che sembriamo e quello che pensiamo, la cornice, sospesa nel vuoto, attraverso cui catturare uno stato di coscienza, l’attimo infinito in cui lo sguardo oscilla indeciso tra l’opacità e la trasparenza – un punto di trasmigrazione dell’anima.

Non è un caso che nella mostra sia dedicato uno spazio speciale a una sequenza di scatti che ritraggono un grande attore di Tadeusz Kantor, Roman Siwulak, uno dei leggendari protagonisti de La Classe Morta, lo spettacolo in cui la scena diviene per la prima volta il luogo di una esperienza di metamorfosi totale. Kantor diceva che non si può recitare a teatro, bisogna prima trovare il luogo della vita, e il suo teatro della morte era infatti concepito come una grande finestra da cui lasciar spiare agli spettatori sogni e ricordi, incarnati nel viaggio dei suoi attori, manichini sospesi tra la vita e la morte.

Come scrive Cortazar a proposito della fotografia, l’insolito non si inventa. Lo si incoraggia aspettando che si manifesti senza che lo si debba separare con violenza dal consueto. Era questa la ragione per cui il grande scrittore argentino preferiva definire le fotografie come finestre verso l’insolito.

Dal 14/1/2017 al 1/4/2017 – Galleria del Cembalo – Roma

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ALIX MARIE – La Femme Fontaine e MAIJA TAMMI – White Rabbit Fever

La galleria Matèria è lieta di inaugurare, sabato 14 gennaio, il programma espositivo 2017/2018 con una doppia mostra: ‘La Femme Fontaine’, la prima personale in Italia dell’artista francese Alix Marie (Parigi, 1989) e ‘White Rabbit Fever’ dell’artista Finlandese Maija Tammi (Helsinki , 1985) anche questa un’anteprima in Italia.

Fino al prossimo 25 febbraio, presso le sale della galleria romana, Alix Marie e MaijaTammi presentano al pubblico una combinazione di opere fotografiche e scultoree, stratificando un dialogo dai labili confini tra arte e scienza, dai tratti quasi ossessivi, accademici e profondamente autobiografici.

Ripercorrendo la storia della fotografia stessa, che nel suo primo decennio di vita fu mero strumento a servizio della scienza, realtà tangibile e visione si fondono nell’opera delle due artiste in mostra.

Tra mito e introspezione si colloca l’istallazione scultorea di Alix Marie, realizzata con  calchi in cemento del suo corpo; mentre i confini tra la vita e la morte, il bello e il rivoltante diventano labili nel lavoro di Maija Tammi, in dialogo con la fascinazione umana alla ricerca della vita eterna.

La Femme Fontaine e White Rabbit Fever offrono visioni dissonanti e una profonda  riflessione sulla  costante e inviolabile azione del tempo, valore universale, cui si contrappone la nostra umana, inesausta ricerca utopica dell’invincibilità.

La mostra sarà visitabile fino al 25 febbraio 2017, dal martedì al sabato dalle 11.00 alle 19.00, presso Matèria Gallery, via Tiburtina, 149-Roma.

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Paolo Ventura – Early works and rare prints + Danila Tkachenko – Restricted area /rurals

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In concomitanza con Arte Fiera, la Galleria del Cembalo presenta a collezionisti e appassionati, una selezione di opere di Paolo Ventura e Danila Tkachenko. Diversi per generazione, per stile, per provenienza, per cultura familiare, i due artisti traggono ispirazione per i loro progetti dal passato, dalla memoria storica della propria nazione, dalla tragedia. Il rigore storiografico si traduce in visione, in teatro.

 Paolo Ventura. Early Works and Rare Prints

Una scatola ritrovata. All’interno, work print di progetti inediti e delle ormai rare immagini di War Souvenir. Il sorprendente contenuto è all’origine della mostra che sarà aperta al pubblico all’inizio di febbraio nelle sale della Galleria del Cembalo a Roma. Una selezione di polaroid di Civil War, de L’automa, e dieci pezzi unici tratti da War Souvenir sono presentati in anteprima a Bologna.

 Danila Tkachenko. Restricted Areas

Una scoperta, un successo globale. Difficile trovare espressioni diverse per definire il fenomeno “Danila Tkachenko” e di Restricted Areas.

Il lavoro propone i simboli dell’utopia e oggi rovine di una potenza che voleva conquistare il mondo, dal sottosuolo allo spazio. Per tre anni Danila Tkachenko (Mosca, 1989), giovanissimo e straordinario talento della fotografia russa, in linea con le istanze più internazionali e contemporanee, ha viaggiato il suo paese, dal Kazakistan alla Bulgaria, al Circolo Polare Artico, alla ricerca di quelle restricted areas, che dalla seconda guerra mondiale alla caduta dell’Urss, sono rimaste segrete, mute persino sulle carte geografiche.

Danila Tkachenko. Ritual

Il nuovo progetto di Danila Tkachenko nasce da una riflessione sul centenario dalla Rivoluzione Russa (1917-2017). L’autore rende tangibile e concreta la metafora di “bruciare tutto ciò che è caro” e letteralmente brucia i simboli dell’era che si lascia alle spalle, creando spazio libero per un futuro promettente.

Già gli artisti delle avanguardie all’inizio del ventesimo secolo misero in risalto ed anticiparono i drammatici cambiamenti che si venivano a creare nella struttura sociale. Da ciò, la necessità di costruire il futuro sulla base di nuovi ideali: per raggiungere questa utopia, sembra suggerire Danila, è indispensabile bruciare, cancellare tutto ciò che è statico, legato al mondo precedente e che ostacola il nuovo modo di pensare.

Le strutture in fiamme sono fotografate in zone rurali, in un iconico “campo libero”, e la luce del crepuscolo lascia a chi osserva la domanda irrisolta se si tratti del tramonto del vecchio mondo o dell’alba della nuova era. Otto immagini sono presentate in anteprima assoluta.

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Mostre: Bresson, Lartigue, Woodman, Kusterle e altre interessanti mostre.

Flaneur di Piergiorgio Branzi

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Inaugura il 30 giugno presso la Leica Galerie Milano la mostra Flâneur: in esposizione oltre 30 scatti del giornalista e celebre fotografo fiorentino Piergiorgio Branzi, realizzata in collaborazione con Contrasto Galleria Milano.

La parola Flâneur che dà il titolo alla mostra, resa celebre da Charles Baudelaire, e in seguito da Walter Benjamin, indica il gentiluomo che, vagando per le vie delle città, si immerge nelle atmosfere dei luoghi e assapora le emozioni provate osservandone il paesaggio. Come mostrano le fotografie di questa piccola mostra personale, Piergiorgio Branzi, classe 1928, ha fatto della flânerie – l’andare a zonzo, il gironzolare, il bighellonare – un vero e proprio approccio alla fotografia.

Incarnando l’anima più colta e aristocratica della fotografia italiana, Branzi si è formato nella tradizione figurativa rinascimentale toscana, presto abbandonando la ricerca formale per diventare un maestro del “ritratto ambientato”. Monsignori, bambini, borghesi, paesani, colti di sorpresa, con sottile sarcasmo, restano in equilibrio tra un lirismo sommesso e una vivida caratterizzazione psicologica. L’immagine, rigorosamente bilanciata nella composizione, è per Branzi il prodotto di previsioni, riflessioni, aggiustamenti di tono e tagli in camera oscura, di equilibrio formale e momento decisivo nella ripresa.

Fondamentale nell’evoluzione stilistica dell’autore toscano è stato l’incontro con Mario Giacomelli, di cui Branzi ha detto: “Aveva più o meno la mia età, e con lui stabilii un certo sodalizio artistico, perché tutti e due impegnati, in quel momento, a scandagliare le possibilità d’impianto espressionista: toni definitivamente neri e bianchi bucati, mangiati nella ripresa e nella stampa. In accordo definimmo questo segno l’identificazione stessa del fare fotografia, e su questo richiamo alla grafica stabilimmo un rapporto di intesa che contribuì ad avvicinarci anche sul piano dell’amicizia.

Con la tecnica della stampa giclée, utilizzata per la maggior parte delle fotografie in mostra, le sue immagini dal denso contrasto sembrano animarsi di una luce nuova. Particolari rimasti sepolti sulla pellicola riaffiorano, diventano materia, intessono di spessore il nero e il bianco della trama e le fotografie trovano una dimensione diversa, più nuova e insieme antica.

30 giugno – 12 settembre 2015
Leica Galerie Milano
Via Mengoni 4, angolo Piazza Duomo
Ingresso Libero

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LA LUCANIA DI HENRI CARTIER-BRESSON IMMAGINI DI UNA TERRA RITROVATA

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Inaugurazione: 23 giugno ore 11:00 – Foyer Sala Buzzati – Milano
Intervengono: Vittorio Sgarbi, Vincenzo Trione, Carmen Pellegrino, Gianpiero Perri.

Organizzazione: Galleria Ceribelli – Bergamo.
In collaborazione con: APT Regione Basilicata.
In mostra le fotografie scattate da Henri Cartier-Bresson nei suoi reportage in Basilicata nel ‘51-‘52 e nel ‘72-‘73, tratte dal Fondo Cartier-Bresson del Centro di documentazione Rocco Scotellaro di Tricarico (MT).

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FRANCESCA WOODMAN & BIRGIT JÜRGENSSEN
Opere dalla COLLEZIONE VERBUND, Vienna

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Inaugurazione: venerdí 26 giugno 2015, ore 19.00

Durata della mostra: 27 Giugno – 20 Settembre 2015
A cura di Gabriele Schor
Direttrice della COLLEZIONE VERBUND, Vienna
Merano Arte presenta un’ampia selezione di opere realizzate da due tra le più importanti esponenti femminili dell’arte contemporanea: la fotografa italoamericana Francesca Woodman (1958–1981) e l’artista austriaca Birgit Jürgenssen (1949–2003). La collaborazione con COLLEZIONE VERBUND è la seconda dopo la mostra personale dedicata all’opera giovanile dell’artista Cindy Sherman.

I lavori delle artiste, oltre che a livello estetico e concettuale, dialogano felicemente anche in senso storico, poiché rappresentano due degli esempi più alti dell’Avanguardia Femminista degli anni Settanta, termine coniato tra l’altro dalla direttrice della COLLEZIONE VERBUND Gabriele Schor.Nonostante non si siano mai incontrate, numerosi sono i parallelismi possibili tra le loro opere: la messa in scena del soggetto, la fragilità dell’esistenza umana e soprattutto il confronto critico con la tematica del corpo femminile nell’espressione artistica. Le fotografie performative realizzate dalle due artiste sono state scattate nella sfera protetta dell’atelier, solitamente utilizzando l’autoscatto. Entrambe si sono avvalse di pratiche di matrice surrealista per emancipare il loro linguaggio espressivo e hanno utilizzato il corpo come strumento formale per interrogare e mettere in discussione il proprio essere e la propria identità, ma anche per delineare una nuova immagine della donna. Il corpo nella loro opera è concepito tutt’altro che come “natura” o “oggetto sessuale”, è opera d’arte in sé.

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LARTIGUE – LA VIE EN COULEURS

Maison Européenne de la Photographie – Paris | 24/06/2015 – 23/08/2015

« Depuis que je suis petit, j’ai une espèce de maladie : toutes les choses qui m’émerveillent s’en vont sans que ma mémoire les garde suffisamment », écrit Lartigue dans son journal de l’année 1965. Il n’en faut pas plus à Lartigue pour glaner et collectionner dès l’âge de 8 ans et pendant 80 ans ces milliers d’instants fugitifs.

Ce n’est qu’en 1963 que Jacques Henri Lartigue – qui a déjà 69 ans – expose pour la première fois au Museum of Modern Art de New York quarante-trois des quelque 100 000 clichés réalisés au cours de sa vie. La même année, le magazine Life lui consacre un portfolio qui fait le tour du monde. Il devient alors immédiatement célèbre pour ses clichés noir et blanc de la Belle Epoque et des années folles (femmes élégantes au Bois de Boulogne, courses automobiles, début de l’aviation…).

À son grand étonnement, Lartigue le dilettante devient du jour au lendemain l’un des grands noms de la photographie du XXe siècle, lui qui se croyait peintre.

L’exposition “Lartigue, la vie en couleurs“, présentée à la Maison Européenne de la Photographie du 24 juin au 23 août 2015, dévoile un pan inédit de son œuvre. Bien que la couleur représente plus d’un tiers de la totalité de ses clichés, celle-ci n’a jamais été montrée ou exposée en tant que telle. Il s’agit d’une réelle découverte pour le public, non seulement parce que les photos présentées le sont pour la première fois ou presque mais aussi parce qu’elles révèlent un Lartigue inconnu et surprenant.

Lartigue a pratiqué la couleur à deux périodes de sa vie.

De 1912 à 1927 : Les autochromes

Ils sont rares et précieux. Une trentaine sur les 87 conservés à la Donation Lartigue sont montrés dans l’exposition.

Avec l’enthousiasme de la jeunesse (il a 18 ans) et une fascination pour les “nouvelles technologies”, Lartigue expérimente le procédé autochrome, technique récemment commercialisée par les frères Lumière. Les plaques de verre de format 6×13, stéréoscopiques qu’il utilise permettent de voir en relief et supposent des perspectives choisies. La couleur, le mouvement et le relief sont autant de manières d’attraper l’insaisissable et la vie. Cependant la lourdeur de l’équipement et la lenteur du temps de pose l’amènent à délaisser cette technique et donc la couleur.

À partir de 1949 : le film couleur

Après vingt ans de photographie en noir et blanc, Lartigue s’intéresse de nouveau à la couleur. Avec son Rolleiflex, il privilégie le format carré jusque dans les années soixante-dix tout en pratiquant avec son Leica le format 24×36.

Toujours fidèle à lui-même, il continue à documenter sa vie, à enregistrer les moments qui lui sont chers : “Je suis empailleur des choses que la vie m’offre en passant“ (journal manuscrit, Paris, 1968). Par exemple, heureux avec sa jeune épouse Florette, il photographie Florette. Ses photographies sont si bien composées qu’on pourrait les croire mises en scène ou retouchées, en un mot fabriquées alors qu’elles sont toujours le fruit de la spontanéité et le miroir des plaisirs qu’il prend dans la vie. Pour ce photographe instinctif, la couleur célèbre la joie, la sensualité et se prête, mieux que tout, à la célébration du printemps, des saisons, du ciel et de la beauté sous toutes ses formes sensibles.

Qu’il ait été jeune ou âgé, Lartigue a toujours eu l’esprit juvénile. Rares sont ceux qui conservent leur vie durant une fraîcheur enfantine, une curiosité et un émerveillement comparables. “Lartigue n’a pas vieilli d’une heure depuis sa première photo” écrit René Barjavel en avril 1972. Est-ce cela qui explique la modernité évidente de ses photographies ? Une modernité – faut-il le préciser – que la couleur exacerbe au point de lui donner une sensibilité quasi contemporaine. Preuve supplémentaire, si elles datent bien des années 1950 ou 1960, ses images ne sont jamais nostalgiques pour autant. Leur énergie n’est pas celle du passé et Lartigue est définitivement une créature du futur.

Conscientes de la responsabilité qu’il y a à exposer plus d’une centaine de photographies inédites et dans le souci de rester fidèles à Lartigue, nos avons opéré une sélection à partir des choix de Lartigue lui-même. Les albums qu’il a réalisés au fil des ans, permettent d’en garder la trace. Quelques pages seront d’ailleurs exposées.

Nous avons décidé de privilégier le format 6×6 qui traduit à la perfection la vision achevée de Lartigue. Preuve en est qu’il ne les recadrait jamais.

Comme il n’existe pas de tirages couleurs de l’époque, excepté ceux que Lartigue a collés dans ses albums, les épreuves de l’exposition sont des tirages pigmentaires faits à partir des positifs originaux.

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 HUNGRY EYES

4 | 30 GIUGNO
WILLIAM ALBERT ALLARD PORTRAITS OF AMERICA

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William Albert Allard ha contribuito a definire l’America in tutta la sua diversità: esplorando le comunità solitarie degli Amish e degli Hutteriti, indagando l’esistenza del coraggioso cowboy americano, o rivelando la quieta bellezza dei laghi del Minnesota. Dai rodei ai cantanti blues, dal Mississippi di William Faulkner al Minor League Baseball (lega professionistica americana di baseball), Allard ha rivolto la sua macchina fotografica verso quei soggetti del patrimonio americano spesso trascurati.
William Albert Allard è figlio di un emigrante svedese ed è nato a Minneapolis, in Minnesota nel 1937. I suoi lavori sono esposti in molti musei e collezioni in tutto il mondo.

2 LUGLIO | 1 SETTEMBRE
TERRAPROJECT LAND INC.

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LAND Inc. è un viaggio attraverso Brasile, Dubai, Etiopia, Indonesia, Madagascar, Filippine e Ucraina per documentare quella che alcuni definiscono una forma di neocolonialismo e altri come una nuova possibilità di sviluppo: l’accaparramento della terra e i crescenti investimenti nell’agricoltura industriale e nelle piantagioni.
LAND Inc. nasce dal tentativo di quattro fotografi di comprendere e rappresentare visivamente gli attori e le forze che stanno dietro questo fenomeno. In vista di una popolazione mondiale in rapida crescita, e una ancor più crescente domanda di prodotti alimentari, il nostro progetto mira a fornire la base per generare spunti di riflessione su questo cruciale e poco documentato problema globale.
TerraProject Photographers è un collettivo di fotografi documentaristi fondato in Italia nel 2006. Ne fanno parte
MICHELE BORZONI, SIMONE DONATI, PIETRO PAOLINI E ROCCO RORANDELLI

3 | 29 SETTEMBRE
 TOMASZ TOMASZEWSKI OVERWHELMED BY THE ATMOSPHERE OF KINDNESS. PODLASKIE

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Quando Tomasz è arrivato nella regione Podlaskie è rimasto incantato dalla bellezza del paesaggio. Nonostante ciò, le sue immagini si concentrarono sulle persone: interessate e aperte al confronto con gli stranieri, tolleranti e allo stesso tempo fermamente aggrappate ai propri riti e alla propria identità.
Tomasz Tomaszewski è un fotografo polacco. Ha pubblicato diversi libri, tra cui “Remnants, The Last Jews of Poland”; “Gypsies, The Last Once”; “ In Search of America”; “In The Centre”; “Astonishing Spain”; “A Stone’s Throw”.

1 | 30 OTTOBRE
JOEL MEYEROWITZ TAKING MY TIME

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«Il movimento è tutto per me, è la Vita stessa, traccia il momento che scompare, e, insieme al Tempo, è l’essenza dell’esperienza Fotografica. Più di ogni altra cosa è la ragione per cui ho cominciato a fotografare 50 anni fa…».
Taking my time è una retrospettiva dedicata al lavoro del grande fotografo americano Joel Meyerowitz.
Dai tempi degli esordi a New York negli anni 60, alla produzione più recente. Un corpo di lavoro eterogeneo che ha come nucleo centrale il concetto di “movimento”, inteso come quell’istante effimero, gioioso, tragico, o insignificante che cattura l’occhio del fotografo e diventa il cuore di ogni suo scatto.

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KUSTERLE. Il corpo eretico

Si tratta della prima esposizione di carattere antologico dell’artista goriziano, che presenta un suo articolato percorso, teso ad argomentare il rapporto dell’uomo con la natura, la psiche e l’anima, attraversando territori universali e senza tempo, ma quanto mai attuali per le dinamiche e le trasformazioni profonde cui la contemporaneità le costringe.

La mostra si snoda nelle sale del primo e del secondo piano dello spazio espositivo e rispetta il procedere per cicli, che caratterizza dalle origini l’attività di ricerca dell’artista. Al primo piano il visitatore incontra le opere del ciclo Αναχρονος (2004-06) e, in successione, quelle di Mutazione silente (2007-08) e di Segni di pietra (2011-12). La parte centrale dello spazio espositivo è invece dedicata alle immagini dei Riti del corpo (1991-2014), ciclo che costituisce una sorta di contenitore tematico, dove l’autore ha riunito fotografie scattate in un largo lasso di tempo sul tema del corpo e della sua ibridazione. Al secondo piano trovano collocazione i cicli più recenti: Mutabiles Nymphae (2009-10), I segni della metembiosi (2012-13), Abissi e basse maree (2013) e L’abbraccio del bosco (2014). A completare il percorso espositivo, una sala è dedicata ai video d’arte realizzati da Roberto Kusterle e Ferruccio Goia (2008-09).

Le scelte curatoriali ed espositive, sostenute dalle caratteristiche degli spazi della Galleria, si sono orientate su un percorso non impositivo, ma aperto a itinerari d’interesse, alla suggestione dell’incontro, all’emozione; vi è una sorta di rappresentazione teatrale per immagini che, a dispetto di ogni idea purista circa la verosimiglianza della fotografia, pone al riguardo interrogativi circa il rapporto tra realtà e finzione, storia e mito, natura e artificio, tra presente e passato, il tempo e la contingenza del vivere. Per il visitatore, inoltre, sarà come entrare nel corpo vivo della fotografia come arte (attualissima) della metamorfosi, della contaminazione dei linguaggi, della varietà dei rimandi iconici, dell’esigenza di profondità da contrapporre all’incombente superficialità pervasiva che circonda l’uomo contemporaneo.

L’esposizione, a cura di Francesca Agostinelli e Angelo Bertani, è promossa e organizzata dall’Assessorato alla cultura del Comune di Pordenone, in collaborazione con Associazione culturale “Venti d’arte” di Udine.

L’evento è patrocinato dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, dalla Provincia di Pordenone, dall’Università degli Studi di Udine e dall’Accademia di Belle Arti di Venezia. Gode del sostegno di FriulAdria Crédit Agricole e di Coop Consumatori Nordest.

Galleria Harry Bertona – Corso Vittorio Emanuele II, 60 – Pordenone

Quando: dal 18/04/2015 al 09/08/2015

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 Germaine Krull (1897-1985). A Photographer’s Journey

Germaine Krull (Wilda-Poznań, East Prussia [after 1919: Poland], 1897-Wetzlar, Germany, 1985) is at once one of the best-known figures in the history of photography, by virtue of her role in the avant-garde’s from 1920 to 1940, and a pioneer of modern photojournalism. She was also the first to publish in book form as an end in itself.

The exhibition at Jeu de Paume revisits Germaine Krull’s work in a new way, based on collections that have only recently been made available, in order to show the balance between a modernist artistic vision and an innovative role in print media, illustration and documentation. As she herself put it – paradoxically, in the introduction to her Études de nu (1930) –, ‘The true photographer is the witness of each day’s events, a reporter.’

If Krull is one of the most famous women photographers, her work has been little studied in comparison to that of her contemporaries Man Ray, László Moholy-Nagy and André Kertész. Nor has she had many exhibitions: in 1967, a first evocation was put on at the Musée du Cinéma in Paris, then came the Rheinisches Landesmuseum, Bonn, in 1977, the Musée Réattu, Arles, in 1988, and the 1999 retrospective based on the archives placed at the Folkwang Museum, Essen.

The exhibition at Jeu de Paume focuses on the Parisian period, 1926-1935, and more precisely on the years of intensive activity between 1928 and 1933, by relating 130 vintage prints to period documents, including the magazines and books in which Krull played such a unique and prominent role. This presentation gives an idea of the constants that run through her work while also bringing out her aesthetic innovations. The show features many singular but also representative images from her prolific output, putting them in their original context.

Born in East Prussia (later Poland) to German parents, Krull had a chaotic childhood, as her hapless father, an engineer, travelled in search of work. This included a spell in Paris in 1906. After studying photography in Munich, Krull became involved in the political upheavals of post-war Germany in 1919, her role in the communist movement leading to a close shave with the Bolsheviks in Moscow. Having made some remarkable photographs of nudes during her early career, noteworthy for their freedom of tone and subject, in 1925 she was in the Netherlands, where she was fascinated by the metal structures and cranes in the docks, and embarked on a series of photographs that, following her move to Paris, would bear fruit in the portfolio Métal, publication of which placed her at the forefront of the avant-garde, the Nouvelle Vision in photography. Her new-found status earned her a prominent position on the new photographic magazine VU, created in 1928, where, along with André Kertész and Eli Lotar, she developed a new form of reportage that was particularly congenial to her, affording freedom of expression and freedom from taboos as well as closeness to the subject – all facilitated by her small-format (6 x 9 cm) Icarette camera.

This exhibition shows the extraordinary blossoming of Krull’s unique vision in around 1930, a vision that is hard to define because it adapted to its subjects with a mixture of charisma and empathy, while remaining constantly innovative in terms of its aesthetic. It is essential, here, to show that Krull always worked for publication: apart from the modernist VU, where she was a contributor from 1928 to 1933, she produced reportage for many other magazines, such as Jazz, Variétés, Art et Médecine and L’Art vivant. Most importantly, and unlike any other photographer of her generation, she published a number of books and portfolios as sole author: Métal (1928), 100 x Paris (1929), Études de nu (1930), Le Valois (1930), La Route Paris-Biarritz (1931), Marseille (1935). She also created the first photo-novel, La Folle d’Itteville (1931), in collaboration with Georges Simenon. These various publications represent a total of some five hundred photographs. Krull also contributed to some important collective books, particularly on the subject of Paris: Paris, 1928; Visages de Paris, 1930; Paris under 4 Arstider, 1930; La Route Paris-Méditerranée, 1931. Her images are often disconcerting, atypical and utterly free of standardisation.

An energetic figure with strong left-wing convictions and a great traveller, Krull’s approach to photography was antithetical to the aesthetically led, interpretative practice of the Bauhaus or Surrealists. During the Second World War, she joined the Free French (1941) and served the cause with her camera, later following the Battle of Alsace (her photographs of which were made into a book). Shortly afterwards she left Europe for Southeast Asia, becoming director of the Oriental Hotel in Bangkok, which she helped turn into a renowned establishment, and then moving on to India where, having converted to Buddhism, she served the community of Tibetan exiles near Dehra-Dun.

During all her years in Asia, Krull continued to take photographs. Her thousands of images included Buddhist sites and monuments, some of them taken as illustrations for a book planned by her friend André Malraux. The conception of the books she published throughout her life was unfailingly original: Ballets de Monte-Carlo (1937); Uma Cidade Antiga do Brasil; Ouro Preto (1943); Chieng Mai (c. 1960); Tibetans in India (1968).

In her photojournalism, Krull began by focusing on the lower reaches of Parisian life, its modest, working population, the outcasts and marginal of the “Zone,” the tramps (subject of a hugely successful piece in VU), Les Halles and the markets, the fairgrounds evoked by Francis Carco and Pierre Mac Orlan (her greatest champion). The exhibition also explores unchanging aspects of her tastes and attachments: the love of cars and road trips, the interest in women (whether writers or workers), the fascination with hands, and the free, maverick spirit that drove her work and kept her outside schools and sects.
The works come from a public and private collections including the Folkwang Museum, Essen; Amsab, Institute for Social History, Ghent; the Ann and Jürgen Wilde Foundation, Pinakothek der Moderne, Munich; The Museum of Modern Art (MoMA), New York; the Centre Pompidou, Musée National d’Art Moderne, Paris; the Bibliothèque Nationale de France, Paris; the Collection Bouqueret-Rémy; the Dietmar Siegert Collection

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ART KANE – VISIONARY

Inaugura giovedì 25 giugno 2015 alle 18.30 a Palazzo Santa Margherita in corso Canalgrande 103 la mostra “Art Kane. Visionary”, a cura di Jonathan Kane, Holly Anderson e Guido Harari, allestita fino al 20 settembre 2015. Organizzata e prodotta dalla Galleria civica di Modena e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena in collaborazione con Solares Fondazione delle Arti di Parma e Wall of Sound Gallery di Alba, questa grande retrospettiva dedicata ad Art Kane a vent’anni dalla sua scomparsa e nel novantesimo anniversario della sua nascita, presenta per la prima volta in Italia un centinaio di fotografie classiche e inedite che hanno contribuito a formare l’immaginario visivo della seconda metà del Novecento.

Una parte della mostra sarà dedicata ai ritratti e alle celebri foto delle maggiori icone della musica degli anni Sessanta, una sezione non meno consistente all’impegno civile (soprattutto la lotta per i diritti civili degli afro-americani e degli indiani, il fondamentalismo religioso, il Vietnam, l’incubo nucleare di Hiroshima, il consumismo, il crescente degrado dell’ambiente), a visionarie riflessioni esistenziali ricavate dal “sandwich” di più diapositive (una tecnica pionieristica in un’epoca senza Photoshop), a illustrazioni fotografiche dei testi di Dylan e dei Beatles e alla moda, senza dimenticare le evoluzioni della società americana, il tutto fissato con sguardo tanto originale e visionario da conquistarsi onori, premi e le copertine dei più prestigiosi rotocalchi internazionali.

Art Kane è il leggendario fotografo che alle 10 di un mattino d’agosto del 1958 immortalò per la rivista “Esquire” ben 57 leggende del jazz su un marciapiede della 126ma strada, ad Harlem, ignaro di aver creato l’immagine più significativa della storia del jazz, universalmente nota come “Harlem 1958”. Una fotografia che gli è valsa la medaglia d’oro dell’Art Directors Club di New York e così potente da ispirare un libro, un documentario del 1994 che ottenne la nomination all’Oscar (“A Great Day in Harlem”), e più di recente un film di Spielberg, “The Terminal” (2004), con Tom Hanks.

“Voglio comunicare gli elementi invisibili in una personalità”, diceva Art Kane, racchiudendo in poche parole tutta la sua poetica.

“Penso ad Art Kane come ad un colore acceso, diciamo, come un sole color zucca in mezzo ad un cielo blu. Come il sole, Art fissa il raggio del suo sguardo sul suo soggetto, e quel che vede, lui fotografa, e di solito si tratta di un’interpretazione drammatica della sua personalità”. Così diceva di lui Andy Warhol.

“Art Kane è stato un mio idolo – ricorda Franco Fontana – quasi un miraggio per me che lo ammiravo da lontano. Poi l’ho conosciuto nel ’77 ad Arles e siamo diventati fratelli di ‘colore’ legati da un rapporto indimenticabile di amicizia e di intimità. Era un uomo geniale, di grande intelligenza e creatività. Animato dal mito impossibile di un’eterna giovinezza e di una continua rinascita, mordeva la vita fino in fondo: voleva addirittura ricavarne un musical. Girava per New York in Velosolex e una sera mi portò al mitico Studio 54, arrivando vestito di tutto punto da cowboy. Adorava le donne e le fotografava con una sensibilità e un erotismo in cui mi ritrovavo appieno. Amava l’Italia dov’era venuto più volte, anche per dei workshop organizzati da me. Ipercritico con gli studenti, li strigliava senza pietà, provocandoli e incoraggiandoli a scavare sempre in profondità nel loro subconscio”.
L’obiettivo di Kane si è posato poi altre volte sui grandi della musica, di ogni musica, dai Rolling Stones a Bob Dylan, ai Doors, a Janis Joplin, ai Jefferson Airplane, e ancora Frank Zappa, i Cream, Sonny & Cher, Aretha Franklin, Lous Armstrong, Lester Young, creando una serie infinita di icone, come, una su tutte, quella memorabile degli Who avvolti nella bandiera britannica. Ma Kane è stato molto di più: uno dei veri maestri della fotografia del XX secolo, le cui immagini visionarie hanno influito sulla coscienza sociale di più di una generazione e lasciato un segno sulla cultura mondiale.

Immagini che oggi sono nelle collezioni permanenti del Museum of Modern Art e del Metropolitan Museum of Art.

“Art Kane è stato un illusionista – scrive Guido Harari -, il maestro di un impressionismo fotografico che ancora oggi sollecita emozioni e distilla idee. Venezia è sempre in pericolo, i musicisti rock annunciano sempre l’avvento di un qualche Nuovo Mondo, la solitudine nell’era di Internet è ancora più cosmica, i diritti civili vanno rinegoziati ogni santo giorno, il degrado dell’ambiente ci spinge sempre più rapidamente verso l’estinzione, e Kane, con un’attualità stupefacente, proiettava già tutto questo in un mondo di fantasia che pare amplificare la realtà di oggi. In pochi anni ha rivoluzionato la fotografia, scoprendo tecniche nuove e personalizzandone altre per liberarla dal suo presunto “verismo”. La fotografia di Kane è energia pura, vera immaginazione al potere: “La realtà per me non è mai all’altezza delle aspettative visive che genera”, ha detto. “Più che registrarla con le mie foto, mi preme condividere il modo in cui sento le cose”.

Tutte le fotografie di Kane sono pervase dalla sua incontenibile passione per la vita, per l’uomo e per una cultura popolare da interpretare attraverso simboli. Le sue sono immagini pensanti, visioni che comunicano sempre un personalissimo punto di vista, sul razzismo e sulla guerra, sul misticismo o sul sesso, sulla moda o sulla musica. Nessuna preoccupazione di “stile”: la sua tecnica fotografica era intuitiva e disarmante nella sua semplicità, animata da una varietà impressionante di spunti, di improbabili angolazioni di ripresa, singolari ambientazioni e colori saturi. Nulla appare come ce lo aspetteremmo: le immagini suggeriscono, provocano, spiazzano, ma tocca a chi guarda completare il quadro.

Gli anni Cinquanta anticiparono anche la rivoluzione del colore che Kane colse al volo, sapendo bene, grazie alla sua pluripremiata esperienza di art director, come impaginare le sue visioni e soprattutto come selezionarle. Il suo editing ferocemente chirurgico ha lasciato rarissimi scatti alternativi nel suo pur sterminato archivio: “Capii subito che la fotografia può anche essere un atto di rifiuto, che ti lascia scegliere cosa lasciar fuori dall’immagine”.

Kane affinò il suo talento su testate mitiche come “Look”, “Life”, “Esquire” e “McCall’s”, ormai tutte defunte (tranne “Esquire”) ma all’epoca prodighe di compensi favolosi pur di ottenere immagini che “eliminano il piccolo e il brutto per enfatizzare il grande e l’eroico”, spingendo sulla strada della visionarietà anche quando la moda bussò alla sua porta nella persona di Diana Vreeland, la potente madame di “Vogue”. Dalla profondità di campo e dalla marcata distorsione del grandangolo 21mm (inventato proprio in quegli anni) al “fuoco selettivo” ottenuto con teleobiettivi come il 180mm e il 500mm, il suo vocabolario visivo si arricchiva anche di immagini concepite per essere guardate rovesciate a testa in giù e di geniali montaggi di due diapositive i suoi cosiddetti ‘sandwichs’, di cui questa mostra presenta numerosi esempi. “Uso il sandwich come uno strumento poetico per fuggire dal fotorealismo – ha detto Kane-. È come la vita: le cose accadono, ma non sono necessariamente drammatiche, finché non fai un passo indietro e ne catturi l’essenza basandoti sulla tua memoria. La memoria è straordinaria. Quando hai l’audacia di estrarre un’immagine dal mondo vivente e unidimensionale, hai eliminato odori, tatto, suono, e gli hai messo intorno una cornice eliminando la visione periferica. In questo senso nessuna foto è la verità, non importa quanto realistica sia l’immagine, o quanto normale sia l’obiettivo. Mentono tutte, perché noi montiamo sempre. Nella visione normale cogliamo una cosa alla volta, ma muoviamo sempre gli occhi combinando ogni cosa di continuo”.”

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Anna “°”