Nozze d’argento con Photoshop (prima parte)

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Francesco Zizola, Noor – Raw + Digital imaging by 10b Photography

In questi giorni il programma di fotoritocco più amato e discusso, festeggia le nozze d’argento con milioni di produttori di immagini e come ogni matrimonio che si rispetti, passione e contrasti si alternano; chi ne è innamorato ossessivamente e non riesce ad aprire un’immagine dal proprio archivio, senza riporvela anche minimamente modificata o chi lo vede come fosse un peccato mortale, tale da precludere l’olimpo fotografico a chiunque ne facesse un uso anche morigerato. Sempre di questi giorni sono le ormai consuete discussioni sulle immagini premiate o escluse dal WPP; mi è sembrato così interessante, rileggere un’intervista rilasciata un paio di anni fa ,da Claudio Palmisano, post-produttore e “vincitore occulto” di una quindicina di WPP; intervista curata da Antonio Politano per “Sguardi84” Vi invito alla lettura ed al commento.

“Dopo lo scatto… Etica e tecniche della post-produzione

(AP)Partiamo da un chiarimento sulla definizione del tuo lavoro. Prima si parlava di stampatore, oggi di post-produttore. Ti riconosci in questa definizione?

(CP)A me sta bene, il problema è che non sta bene a tanti fotografi. Il prefisso “post” evoca scenari di interventi effettuati in fase successiva allo scatto, come manipolazioni e imbrogli. Il concetto di Photoshop stesso è associato a seni ritoccati e gambe allungate. Per contenere questo pregiudizio, in ambito fotogiornalistico da qualche anno si usa la parola “toning”, intonazione. Forse è un espediente un po’ ipocrita, ma va bene lo stesso se è un modo per essere citati in una mostra o un libro.

(AP)L’immagine finale è per te, spero di citare correttamente, «una sintesi dei desiderata estetici dei fotografi e della nostra autorialità». Ecco, come lavori con i fotografi? Che rapporto di comunicazione, collaborazione, analisi e ri-esame si stabilisce? E cos’è, per te, quello che definisci la tua autorialità? Come fa i conti con quella dell’autore dello scatto? Che cosa prova a restituire la tua sensibilità? Un carattere, un’atmosfera, un’espressività?

(CP)Come tutti i rapporti, ogni volta è leggermente diverso. Esiste naturalmente un flusso di lavoro standard. In genere i fotografi inviano una mail con la richiesta di lavorazione, fornendo indicazioni stilistiche e spesso alcune immagini di riferimento. I file da lavorare sono invece caricati su un apposito ftp. In laboratorio sviluppiamo i RAW nel modo più completo e cominciamo a fare delle prove interpretative. Nel caso di un nuovo fotografo, la prima foto viene spesso lavorata da più persone. Prima di procedere, studiamo i lavori precedenti di quel fotografo e proviamo a immaginare un’interpretazione stilistica adatta alla sua storia. Ci facciamo ispirare dai grandi maestri, dal cinema e dalla pittura. In studio abbiamo culture e caratteri molto diversi. Manuela viene dal cinema, è un’attrice formatasi presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Daphne stampava in camera oscura, la sua estrema scrupolosità la rende la figura più adatta per i lavori di precisione, come scontorni e selezioni complicate. Portate a termine le nostre lavorazioni sulla prima foto, ci confrontiamo tra noi, e dopo aver paragonato i nostri file, mandiamo delle basse risoluzioni al fotografo per avere un parere. Una volta ricevute le indicazioni definitive dall’autore, concludiamo la lavorazione di tutta la storia e inviamo i file lavorati in alta risoluzione tramite ftp. Se necessario, effettuiamo piccole modifiche finali, foto per foto. Con alcuni fotografi si creano dei rapporti speciali, creativi e magici. In questo caso, la fase preliminare di studio e confronto non è più necessaria, dato che il rapporto è talmente consolidato da aver instaurato una perfetta intesa creativa tra noi. Quando le foto arrivano in ftp, noi sappiamo benissimo quello che il fotografo si aspetta da noi e procediamo in modo sicuro. Il nostro lavoro si è integrato perfettamente a quello del fotografo: chi scatta pensa già a quello che succederà alle sue foto in fase di post-produzione e chi post-produce si aspetta dei file adeguati a queste aspettative condivise.

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Yuri Kozyrev, Noor. Raw + Digital imaging by 10b Photography

(AP)Dopo lo scatto, “istante decisivo”, l’altro momento chiave è lo sviluppo, l’interpretazione del negativo. Prima (in era analogica), come oggi (in era digitale). Il RAW è un negativo fatto di bit, come ha cambiato il lavoro fotografico l’introduzione di questo formato?

(CP)Credo che il RAW – un file completo, con una grande latitudine di posa e bilanciabile a posteriori – abbia finalmente riportato l’artigianalità nella fotografia. So che sembra un paradosso, ma credo di avere delle buone ragioni per pensarla così. I primi file digitali erano molto caratterizzati, assomigliavano a chi aveva scritto il software della macchina, a chi aveva progettato il sensore. Tuttavia anche in era analogica si sceglieva una marca di diapositiva piuttosto che un altra per i risultati che forniva. Il rosso della Kodak o il verde della Fuji, ad esempio. Con il digitale il rosso può avere la resa che si preferisce, dato ognuno può scegliere l’approccio con la gestione del colore a lui più congeniale. Matematico, creativo, percettivo, reazionario o sperimentatore, ma puoi fare quello che vuoi. Questa vasta gamma di possibilità spaventa molto chi non ha esperienza di gestione del colore o chi semplicemente non ha voluto sviluppare un pensiero in merito.

(AP)Sul sito di 10b Photography vi sono diverse immagini che mettono a confronto il prima e il dopo, lo scatto e l’elaborazione: da esempi di procedura analogica tradizionale, di interpretazione del negativo da parte di due famosi stampatori come George Fèvre (per Josef Koudelka) e Jean-Yves Brégand (per Sebastiao Salgado), a esempi di interpretazione del formato RAW. Perché hai scelto quegli autori e quelle immagini?

(CP)Ho scelto Koudelka e Salgado perché sono un buon esempio di che cosa si può fare quando c’è uno scambio intellettuale profondo tra chi scatta e chi rappresenta lo scatto.

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Sebastiao Salgado, Brasil, 1980. Printed by Jean-Yves Brégand. Analogic direct print + Dodge and burn print

(AP) Il lavoro del vostro laboratorio è caratterizzato, cito testualmente, «dalla capacità interpretativa fondata su un’attenta etica dell’immagine e del fotogiornalismo». Qual è per te il confine etico, il limite dell’intervento nella post-produzione? Qual è la frontiera tra interpretazione rispettosa del dato reale e la mistificazione, manipolazione della realtà? Oggi, le possibilità di intervento rese accessibili dalle cosiddette “camere oscure digitali”, tra hardware e software sempre più sofisticati, sono estese, facili. E molti dubbi derivano proprio da questo. Le stesse parole fotoritocco, post-produzione fanno a volte paura, scatenano posizioni integraliste, accuse di pratiche ossessive, non legittime. Alcuni dicono che il limite può essere quello che si faceva in camera oscura, altri argomentano che lo stesso bianco e nero è già una manipolazione cromatica, una reinterpretazione della realtà che è a colori. Come orientarsi?

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Yuri Kozyrev, Noor – Raw + Digital imaging by 10b Photography

(CP)Ci sono due risposte a questa domanda. La prima, la più facile, è tecnica. A mio parere, si tratta di manipolazione quando non si rispettano i contesti dei vari aspetti di una foto. Mi spiego meglio: se aggiungo del ciano a una foto, o meglio, tolgo una dominante rossa, ad esempio in una fotografia scattata al tramonto – dove la sorgente ha una temperatura colore molto bassa – ho solo deciso di interpretare in maniera matematica uno scatto. La luce del sole è rossa al tramonto, rispetto a ciò che lo standard industriale e fisico definisce, quindi aggiunge una dominante cromatica rossa agli oggetti rappresentati. Di conseguenza, un vestito bianco diventa rosso. Se elimino il rosso, il vestito torna bianco ma qualcuno potrebbe obiettare che non sembra più la luce del tramonto. Se mantengo la dominante rossa, come si sarebbe comportata una diapositiva daylight, il vestito diventa rosso, quindi non stiamo rispettando la matematica dei colori e qualcuno potrebbe dire che i colori rappresentati sono errati. Se invece decido di seguire una via di mezzo, le cose peggiorano. Questo è uno scenario tipico, in cui non si può dire che esista una correzione giusta o una sbagliata. Quel che conta è invece il pensiero interpretativo, per cui non esiste in assoluto una visione onesta e una disonesta. Nel caso in cui – sempre poco prima che il sole se ne scenda sotto l’orizzonte – decido di lasciare la dominante rossa, perché mi piace, ma faccio diventare il vestito bianco (numericamente bianco), sto alterando alcuni rapporti e quindi producendo un’immagine irreale, che nessun percezione visiva restituirebbe nella realtà. Lo stesso vale per il bianco e nero. Chi guarda un’immagine completamente priva di colore entra in contesto percettivo diverso e non ha di certo la sensazione che la scena fotografata potesse essere davvero in bianco e nero. Se invece, come andava di moda una trentina di anni fa – con pessimi risultati, tolgo colore ad un solo elemento all’interno di una foto, sto di nuovo alterando il contesto percettivo. Chiaramente, se questo discorso vale per i colori, figuriamoci per i pixel, gli elementi costitutivi di un’immagine digitale. Se sfoco l’intera foto è leale, se sfoco solo un elemento per farlo notare meno è pericoloso.L’altra risposta, se vogliamo, è più banale. Il limite etico lo si sorpassa quando si rompe il legame di fiducia tra le parti. Tra chi fotografa – forse addirittura tra chi è fotografato – e chi fruisce della foto, si instaurano tanti “patti fiduciari” fondati sul rapporto di corrispondenza tra referente e rappresentazione. Nel caso in cui anche una sola delle parti venga meno all’obbligo di lealtà con la precedente o la successiva, l’equilibrio si infrange e si apre la porta a molteplici possibilità di mistificazione. Un fotografo può mettere in posa il proprio soggetto, costruire una scena, inventare un contesto e perfino disseppellire cadaveri. Un post-produttore può eliminare porzioni dell’immagine originale, clonare pixel, allungare o accorciare oggetti, cambiare il colore di una bandiera. Un photoeditor può costruire o alterare una storia, selezionando alcune foto e non altre, manipolando con omissioni o scegliendo foto fuorvianti. Un editore può censurare, nascondere o semplicemente scegliere le immagini in funzione di criteri utilitaristici e non di onestà intellettuale. In questa “filiera” chiunque ha la sua specifica responsabilità e le sue eventuali colpe, volontarie o involontarie. Ho imparato dai grandi fotografi, ma anche dai grandi photoeditor, che il trucco, la soluzione, è la curiosità e la voglia di studiare. Le foto più belle, le più emozionanti, non le ho lavorate in studio, nella mia stanza col monitor supercalibrato e la connessione 100 megabit, ma col portatile al mare, in cima a un monte o meglio ancora, direttamente insieme al fotografo, nei luoghi dove le foto erano state scattate.”…

Vi invito alla lettura della seconda parte, tra poco…

 http://www.10bphotography.com/

Postato da Angelo

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