Inge Morath: nel mio cuore voglio restare una dilettante.

 “Nel mio cuore voglio restare una dilettante, nel senso di essere innamorata di quello che sto facendo, sempre stupita dalle infinite possibilità di vedere e usare la macchina fotografica come strumento di registrazione”.

Nata a Graz in Austria nel 1923, cresce in una famiglia dell’alta società: entrambi i genitori, scienziati di fama, spesso costretti a trasferirsi in varie città d’Europa, crescono i loro due figli in modo libero e indipendente.  Laureata in  lingue romanze e linguistica generale, si mostra da sempre  poco interessata alla politica e ai problemi sociali, quindi tarda a comprendere la pericolosità del regime hitleriano. Quando la loro casa viene bombardata, la famiglia finalmente si rende conto di ciò che sta succedendo e decide di trasferirsi a Salisburgo: Inge li raggiunge insieme ad altri compagni sfollati, in un viaggio irto di difficoltà e complicazioni. Trasferitasi a Vienna, la giovane trova lavoro per i servizi di informazione statunitensi per poi entrare nella redazione della rivista Heute, dove svolge le mansioni a lei congeniali di giornalista e traduttrice: l’ambiente viennese,  ricco di curiosità e fervido di stimoli intellettuali contribuirà molto alla sua formazione. In seguito, con l’amico fotografo Ernst Haas, si recherà  a Parigi per assumere  il ruolo di redattrice all’interno dell’agenzia Magnum, senza impegnarsi minimamente a produrre lavori fotografici personali. L’approccio alla fotografia da parte di Inge Morath non è stato repentino, ma graduale: il suo innamoramento ha preso vita attraverso diverse esperienze che l’hanno formata e arricchita, ma una volta compresa la sua vera passione, le è rimasta fedele per tutta la vita.

SPAIN. Sevilla. 1987. Dancer’s skirt.

Mentre lavora come redattrice a fianco dei suoi amici fotografi, non sente la curiosità di avvicinarsi alla macchina fotografica di cui ha timore, forse per paura del confronto, ma quando, accompagnata dal marito – il giornalista inglese Lionel Birch – si trova in terra veneziana, affascinata dagli angoli più nascosti e dalla luce che si riflette nell’acqua creando giochi vibratili, non può fare a meno di imbracciare la macchina fotografica che per abitudine porta con sé senza mai scattare nemmeno una foto. Sollecitata da Robert Capa, direttore della Magnum, Inge  nell’autunno del 1951 comincia a fotografare la città lagunare, con pochissime competenze tecniche, ma guidata da curiosità e raffinata sensibilità: da quel momento, con la fedele Leica, comprata di seconda mano, decide di affrontare con coraggio il difficile percorso come fotografa professionista. Istintivamente sa capire al volo come si crea una storia e scegliere le immagini per meglio rappresentarla ed anche le inquadrature e la composizione non costituiscono per lei un problema.

USA. 1962. Saul STEINBERG Mask Series. ©Inge Morath/MAGNUM PHOTOS

Uno dei suoi primi e importanti lavori riguarda un servizio sui preti operai che ha seguito per diversi mesi, mettendo in risalto la loro vita in fabbrica e dietro l’altare: il reportage è apprezzato da Robert Capa, suo mentore, che la accoglie come membro effettivo della Magnum, affidandole l’incarico di realizzare le foto di scena del film Moulin Rouge del regista John Huston che diventerà suo grande amico. La frequentazione con Henri Cartier Bresson – di cui divenne assistente nel 1953 –  contribuì molto a sviluppare le sue competenze potenziando il suo amore per la fotografia, una fotografia senza orpelli, diretta all’analisi della realtà, ma con un’impostazione del tutto diversa dal grande maestro, sempre a caccia  di momenti irripetibili: Inge è più riflessiva ed ha bisogno di tempi più lunghi per produrre immagini di persone e luoghi immortalati con sensibilità, sobrietà e grazia. “La fotografia è un fenomeno strano.

USA. 1980. Playwright Arthur MILLER.

Ti fidi del tuo occhio, ma non puoi evitare di mettere a nudo la tua anima” (I.M.). Attratta dal fotogiornalismo, nel 1954 comincia a viaggiare in vari paesi europei, tra cui la Spagna che, nonostante il repressivo regime di Franco, la incuriosisce molto. I suoi lavori vengono pubblicati su importanti riviste, tra cui la famosa “Life” e raccolte in interessanti volumi. Affascinata dai volti umani e curiosa di conoscere ed esplorare dall’interno le varie culture, si reca in Iraq, Iran, Siria,  Giordania, Messico, Tunisia, Russia, negli Stati Uniti, sempre pronta a captare con occhio analitico, ma partecipato e sensibile le precipue caratteristiche delle civiltà che incontra nel suo cammino. Nel 1960, tappa  fondamentale della sua vita, è l’incontro sul set del film Gli Spostati con il drammaturgo Arthur Miller che due anni dopo diventerà suo marito.   Ancora interessanti lavori nascono dai suoi frequenti viaggi in Russia,  in Romania lungo il Danubio e nella sua terra madre, l’Austria, dove su incarico dei Reali realizza un lavoro fotografico sulla regione al confine della Slovenia da cui provenivanoi suoi antenati. Morirà a New York nel gennaio 2002, aggredita da una grave forma tumorale.

ISRAEL. Jerusalem. 1958. Inge Morath, Austrian photographer. Self-portrait.

INGE MORATH  (1923 –2002)

 Attualmente a Venezia, al Museo di Palazzo Grimani è in corso fino al 4 giugno, la mostra dedicata a Inge Morath dal significativo titolo: “Fotografare da Venezia in poi”

  Articolo di Giovanna Sparapani

INGE MORATH, La vita, la fotografia,Silvana editoriale, CiniselloBalsamo (Mi), 2019

Inge Morath • Photographer Profile • Magnum Photos

https://www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2023/01/inge-morath.

Workshop di Storytelling fotografico, raccontare Lanzarote

Buongiorno a tutti, come state? Vi propongo questo workshop a Lanzarote, una terra che mi ha rubato il cuore. Raccontiamo questo posto meraviglioso insieme?

Buona giornata

sara

Questo è un workshop di storytelling nell’isola di Lanzarote con lo scopo di raccontare in modo personale un luogo sconvolgente e impervio, in cui la componente umana si fonde con un ambiente maestoso. Scopriremo luoghi di incredibile bellezza attorniati da vulcani, da piccole cittadine sulla costa, coltivazioni alla base dei vulcani, paesaggi e persone, al fine di produrre un progetto che sia funzionale per la mostra che verrà organizzata presso Musa fotografia e un progetto personale da utilizzare per mostre, letture portfolio, partecipazione a premi, ecc.

FINALITA’
Lo scopo del workshop è duplice, costruire una mostra fotografica che verrà esposta nella sede di Musa Fotografia, pubblicata sul Blog http://www.saramunari.blog e diffusa sui social network. Costruire un portfolio personale da utilizzare per mostre, letture portfolio, partecipazione a premi, ecc. Ragionare, ideare e costruire un progetto fotografico in loco, su un tema specifico scelto dal partecipante. Le lezioni sono adatte a chi incontra difficoltà nell’ideazione di una storia e nella sua traduzione con una narrativa efficace o a chi vuole fare un’esperienza formativa sulla costruzione di una storia più in generale. Lo scopo del workshop, oltre alla costruzione di un progetto, sarà fornire delle basi concrete per poter poi sviluppare lavori personali futuri in autonomia.

Vai al sito e scopri di più

Vai al sito e scopri di più

I lavori degli studenti di Visual Storytelling 2021/22

Tutti gli anni tengo un corso che ha come scopo finale la produzione di un portfolio finito. Gli allievi, con interesse a generi fotografici differenti, si affidano a me per la costruzione di un progetto insieme. Il corso è sia online che dal vivo e mi da sempre tante soddisfazioni. I lavori che vengono prodotti hanno sempre “sapori” differenti e caratterizzano ogni alunno che può esprimersi sulla base del proprio sentire, sviluppando linguaggio e visione personale.

Qui le info ai corsi di questa sessione scolastica Visual Storytelling in aula, e Visual storytelling online.

Il 21 Ottobre 2022, vi invitiamo all’esposizione dei progetti (son sempre meglio dal vivo) che si terrà presso Musa fotografia alle 18,30 – Via Mentana, 6 Monza.

Qui sotto, in ordine casuale, i lavori prodotti nell’ultimo anno. Spero vi diverta e vi piaccia sfogliarli.

Buona giornata

Sara

  1. Eric De Marchi

“Contatto, la necessità di sentirsi Uomini su questa terra”
Questo progetto nasce da un’esigenza personale.
Dopo momenti di forte crisi emotiva, causati dalla fine di una relazione sentimentale, da
problemi di salute di mio fratello e la pandemia in corso,
In me è nata la spinta a ricercare una dimensione più intima di contatto con me stesso, l’altro
e la natura,
ricerca necessaria per sentirmi più connesso con i miei bisogni fondamentali.
Diversi sono i protagonisti di questo lavoro:

  • io, la mia Terra, i miei cieli, i miei laghi, i miei mari,
    -mio fratello gemello Dennis, legame fondamentale pieno di amore e odio con cui ancora
    faccio fatica a capire come relazionarmi.
    -il mio pappagallo Willy, con me da 10 anni, con cui ho instaurato una relazione simbiotica.
    Oltre la mia motivazione personale,
    In questi anni di crisi,
    crisi umanitaria prima di tutto,
    sento che è ancora più urgente ritrovare modi di relazionarci con noi stessi, con l’altro e con
    la natura che ci circonda.
    Questo lavoro parla d’amore,
    del mio e non solo.

Siamo vivi perchè siamo stati amati e questo amore è racchiuso nelle nostre relazioni,
è necessario imparare a prendersene cura.

Sito https://ericdemarchi.com/

Instagram @eric_demarchi

2. Cristina Maraffi

Tempo nel tempo – A mio padre

Mio padre è mancato il 16 febbraio 2022 a 102 anni, 2 mesi e 4 giorni.

Ha vissuto una vita piena e lunghissima anche se non amava raccontarla.

Era un uomo molto riservato e taciturno, l’unica cosa veramente importante per lui era mia mamma.

Il lavoro nasce dalla mia esigenza di raccontare la sua storia attraverso un racconto intimo e impegnativo.

Con le foto sono riuscita a ricomporre tutta la sua vita, dalla nascita agli ultimi momenti e renderla immortale e fissata per sempre.

Mi ha permesso di mantenere un filo affettivo con lui, di  prendere contatto con la sua vita e di ridisegnare la sua immagine dentro di me.

Con la macchina fotografica sono stata  vicino  a mio padre negli ultimi periodi in un momento molto difficile per me e  mi ha  facilitato l’ elaborazione del lutto.

Instagram  @cristinamaraffi

3. Roberto Colombo

DADADADA…………EEEHHH!!

“Dai che è pronto in tavola.

A proposito; ha chiamato Roberta.

Bene.

Mi ha detto che a fine mese riprende il lavoro.

Accidentaccio! E Pietro? Hanno già pensato a chi si occuperà di lui?

Il pediatra le ha sconsigliato l’asilo nido fino ad almeno l’anno e mezzo – due di età per una infezione polmonare molto pericolosa che sta circolando tra i bambini.

Quindi tocca a noi!?

 Si! ”

Con queste poche frasi ho preso a sassate tutti i miei progetti.

Fotografare la normalità come momenti di vita quotidiana può essere un compito non facile, ma è una sfida che ho sentito crescere dentro di me negli anni e che ha preso forma in questo progetto.

Certo oggi i genitori sono forse meno presenti con i figli di quanto sia stato per noi. Sono cambiate le modalità, i ritmi di lavoro, un modo diverso e forse un po’ meno “eroico” e baldanzoso nell’affrontare la maternità. Si accentuano i dubbi, le insicurezze, lo stile di vita stesso oggi rende più complesso dedicare il proprio tempo al figlio.

Ma per fortuna ci sono i nonni!

Essere un nonno è un’esperienza coinvolgente con aspetti controversi. Da un lato è un’esperienza faticosa, sia fisicamente che mentalmente perché ti sottopone all’imprevisto e alla limitazione della libertà che pensavi di aver raggiunto quando sei andato in pensione. Dall’altro gratificante perché piena di gioia e di affetto. Un’alleanza tra due adulti e un bambino. Un’alleanza che si ripropone di generazione in generazione.

Ho pertanto scavato nei ricordi miei e di mia moglie, in quelli dei nostri genitori e dei nostri nonni per far riaffiorare le immagini e le storie di questa gioia e fatica che è stato cemento in un costante fluire di generazioni.

Di questo dono della propria vita all’altro. Perché proprio del dono della vita si tratta.

Il lavoro è stato stampato come se fosse la parete di una casa qualsiasi e racconta le sensazioni di un nonno che si dedica al giovanissimo nipote, con tutti i pregi e difetti legati alla situazione.

Sito https://www.shapesontherun.it/

https://www.facebook.com/roberto.colombo.1257

https://www.instagram.com/colombo394/

4. Roberto Morleo

Autunno Alatha

Quanto tempo ci metti da quando pensi di voler fare una cosa a quando la porti a termine? Non parlo di organizzare un viaggio dall’altra parte del mondo, o scalare la cima di una montagna. Mi riferisco ad azioni più semplici, quotidiane, molto spesso meccaniche e inconsapevoli: alzarti dalla sedia e raggiungere il bagno, fare una rampa di scale, allacciarti le scarpe. Quanto tempo impieghi per riempire un bicchiere d’acqua e portarlo alla bocca per bere? 8 secondi, forse meno e nel frattempo stai già pensando a cosa fare dopo aver bevuto.
Ora, immagina di essere un anziano con limitazioni fisiche, e immagina di voler bere, ma mettendoci 30-40 secondi o più, magari con la mano tremante. E non puoi permetterti di pensare ad altro, devi concentrarti per mantenere un vacillante equilibrio.
Il tempo si dilata e dà spazio all’insinuarsi di altri disagi come quello di una resistenza mentale, contraria ad accettare un’irreversibile condizione che, impietosamente, potrebbe darti solo un nostalgico ricordo delle tue giovani e più energiche primavere. Prova.
Lavorare con Alatha Onlus che si occupa di dare supporto ad anziani e disabili, mi ha dato l’opportunità di riflettere e immedesimarmi in un futuro che potrebbe rivelarsi meno clemente di quanto io immagini e dia per scontato.

E tu, come immagini il tuo autunno?

Pagina facebook autore

5. Lorenzo Vitali

Un’altra spiritualità

Le Corbusier diceva: “L’architettura è il gioco sapiente dei volumi sotto la luce”.

Ogni opera costruita, nel suo esistere, tende infatti ad avere relazioni consapevoli o meno con la luce che è quindi, anche nell’assenza, un elemento proprio di ogni opera architettonica.

Per quanto riguarda l’architettura dei luoghi sacri della Cristianità, a prescindere dal periodo storico, a livello del tutto personale ho sempre avuto la sensazione che la gestione della luce (e pertanto delle ombre) sia stata sapientemente modulata allo scopo di creare atmosfere fortemente impattanti sull’animo umano.

I volumi “enormi” a loro volta generano inizialmente una sensazione di “spaesamento”.

Se nel credente la luminosità che scende dall’alto, l’altezza delle navate dalle pareti traslucide di vetrate policrome, l’altare collocato ad Oriente suggeriscono spiritualità religiosa, desiderio di elevarsi, in un ateo come me tutto ciò genera in un primo momento una sensazione quasi di allarme, che mi porta a cercare “rifugio” nell’ombra. Spesso nella fresca quiete dell’ombra allora si apre ai miei occhi un altro mondo in cui inizio ad osservare con calma quei dettagli di cui in una prima visione d’insieme non avevo preso coscienza visuale. Ed è nell’osservazione di queste forme, modellate dalla luce e dalle ombre, in cui sono spesso presenti riferimenti artistici, espressioni curiose della religiosità o più genericamente composizioni dettate dall’interazione luce-materia, in cui spesso il mio sguardo si perde. Qui raggiungo una sorta di pace interiore in una sorta di “spiritualità atea” nella quale alla fine ritrovo l’umano che si dilata nel tempo e nello spazio in una sorta di infinito. Questa spiritualità è per me uno “spazio aperto”, senza Chiese e senza dogmi imposti da un’ecclesia

Sito https://www.lorenzovitalifoto.it/

Instagram @lorenzovitalifoto

6. Fiammetta Mamoli

Tra il Parma e il Baganza

Il Quartiere Montanara è un’ampia area della periferia sud di Parma racchiusa tra i torrenti Parma e Baganza. Fino al dopoguerra era un’area ridente, essenzialmente agricola, con vasti campi coltivati, fattorie e alcune ville di pregio, residenze estive dei signori della città. Poi, a partire dalla fine degli anni ’50, vari progetti di lottizzazione e insediamenti urbanistici ambiziosi e per certi aspetti spregiudicati, hanno trasformato radicalmente la zona, da un lato migliorando servizi e infrastrutture, dall’altro creando le condizioni per il verificarsi di fenomeni di disagio sociale, specialmente giovanile, esplosi drammaticamente all’inizio degli anni ’80.

“Il Montanara è come il Bronx”  lo avevo sentito dire spesso e forse ne ero convinta anch’io. Ci sono arrivata a piedi, nel marzo del 2021, percorrendo un sentiero che dalla città, attraversando campi e piccole boscaglie, si spinge fino ai margini del quartiere. Era la prima volta che venivo qui e quello che vedevo confermava l’idea del piccolo Bronx: casermoni di tipo sovietico allineati a raggiera, pensiline pedonali sospese nel vuoto, piazze di cemento grezzo invase da erbacce, scalinate affacciate su inutili anfiteatri, cisterne e fontane vuote, numerosi edifici in costruzione in mezzo a una selva di gru con carichi sospesi.

In giro poca gente, eravamo in piena pandemia.

Ma il posto mi piaceva, ogni volta che ci tornavo sentivo che quel luogo meritava di essere conosciuto più a fondo.

Un giorno, davanti all’ingresso del Condominio Nuova speranza, ho incontrato Maria. Lei mi ha fatto capire che la differenza, per questo come per qualsiasi altro luogo, la fanno e continuano a farla le persone.

Il progetto nasce da questa esperienza e racconta della centralità del fattore umano.

Instagram @fiammetta_mamoli

7. Giovanna Sparapani

La storia della più grande acciaieria Piombinese Dalla distruzione del secondo conflitto mondiale alla ricostruzione al boom economico degli anni ’60, fino all’abbandono di oggi. Fotografie di Giovanna Sparapani. Archivio storico del Comune di Piombino “Ivan Tognarini”. Montaggio Chiara Ronconi.

Calling The Birds Home, bellissimo lavoro sulla demenza senile.

Calling The Birds Home, un lavoro delicato ed emozionante della fotografa Cheryle St. Onge, sulla malattia che ha segnato sua madre. buona visione, Sara

Presentazione del lavoro:

Mia madre e io abbiamo vissuto fianco a fianco, nella stessa fattoria, per decenni. Il nostro amore era reciproco e costante. Purtroppo ha sviluppato una demenza vascolare, e così ha iniziato ad avere problemi con le sue emozioni e la memoria. All’inizio ho smesso di fare foto con lei, poi ho smesso di fare foto.

Forse come risposta alle sue conversazioni sul perché voleva morire, su come immaginava di poter morire. E poiché avevo bisogno di un po ‘di felicità, di luce nel pomeriggio,ho iniziato a scattare questi ritratti di mia madre. I ritratti li ho realizzati con qualsiasi fotocamera avessi a portata di mano, come distrazione dalla paura di vederla svanire. Volevo condividere l’atto di essere lì in quel momento e condividere la natura effimera del mio sguardo e del suo vedere.

Ora, che lascio la nostra casa e mia madre, la gente mi cerca. Vogliono raccontarmi le loro storie e vogliono ascoltare le mie. È un bellissimo avanti e indietro. A causa della demenza, con mia madre non abbiamo più conversazioni, però abbiamo ancora questo profondo scambio: la realizzazione di un ritratto.

Mia madre fa del suo meglio e io faccio il mio. E poi a mia volta, do la foto a chiunque la guarderà. (traduzione di parte della presentazione al lavoro, sul sito dell’autrice)

PER VEDERE IL LAVORO COMPLETO VAI AL SITO

Bio della fotografa

Cheryle St. Onge è di Worcester, nel Massachusetts. È cresciuta nei campus universitari come unica figlia di un professore di fisica e pittore. Le sue fotografie sono state ampiamente esposte, in particolare alla National Portrait Gallery di Londra, alla Princeton University, al Griffin Museum, all’Università del Rhode Island, al Massachusetts College of Art, alla Rick Wester Fine Arts e alla mostra itinerante dell’American Institute of Architects. Ha ricevuto numerosi premi e residenze, tra cui una John Simon Guggenheim Fellowship del 2009.
Le sue fotografie sono in molte collezioni private e pubbliche, tra cui il Museo d’Arte dell’Università del New Mexico, il Museo di Belle Arti di Houston, la Collezione Cassilhaus e la Fondazione Guggenheim.
È stata docente presso la Phillips Exeter Academy, la Clark University, il Maine College of Art e l’Università del New Hampshire.

Gordon Parks raccontato da Alessandra Mauro

Buongiorno, ecco un podcast interessante da ascoltare. A questo link trovate l’audio del racconto sul fotografo, di Alessandra Mauro:

Gordon Parks raccontato da Alessandra Mauro

Divertitevi, ciao

Sara

Chi è Gordon Parks

Untitled, n.d. Photograph by Toni Parks

Gordon Parks è uno dei più grandi fotografi del ventesimo secolo.  Ha lasciato un eccezionale corpus di opere che documenta la vita e la cultura americane dall’inizio degli anni Quaranta agli anni Duemila, con particolare attenzione alle relazioni razziali, alla povertà, ai diritti civili e alla vita urbana. Parks è stato anche un illustre compositore, autore e regista in contatto con molte delle persone di spicco della sua epoca, da politici e artisti ad atleti e altre celebrità.

Nato in povertà e segregazione a Fort Scott, Kansas, nel 1912, Parks è stato attratto dalla fotografia da giovane quando ha visto immagini di lavoratori migranti in una rivista. Dopo aver acquistato una fotocamera in un banco dei pegni, ha imparato da solo come usarla. Nonostante la sua mancanza di formazione professionale, vinse la Julius Rosenwald Fellowship nel 1942; ha lavorato per la Farm Security Administration (FSA) a Washington, DC, e, successivamente,  per l’Office of War Information (OWI). Lavorando per queste agenzie, che allora raccontavano le condizioni sociali della nazione, Parks sviluppò rapidamente uno stile personale che lo avrebbe reso uno dei fotografi più celebri della sua epoca.

Lorenzo Scola Pilots the Ship, Gloucester, Massachusetts, 1943. Gordon Parks

Parks era un uomo rinascimentale ma dei giorni nostri, la cui pratica creativa si estendeva oltre la fotografia nella narrativa e saggistica, composizione musicale, regia e pittura. Nel 1969 è diventato il primo afroamericano a scrivere e dirigere un importante film in studio di Hollywood, The Learning Tree, basato sul suo romanzo semiautobiografico, diventato  bestseller. Il suo film successivo, Shaft (1971), fu un successo di critica e di botteghino, ispirando numerosi sequel. Parks ha pubblicato molti libri, comprese memorie, romanzi, poesie e volumi sulla tecnica fotografica. Nel 1989 ha prodotto, diretto e composto la musica per un balletto, Martin, dedicato al defunto leader dei diritti civili Martin Luther King, Jr.

Pool Hall, Fort Scott, Kansas, 1950 Gordon Parks

Parks ha trascorso gran parte degli ultimi tre decenni della sua vita evolvendo il suo stile e ha continuato a lavorare fino alla sua morte nel 2006. È stato riconosciuto con più di cinquanta dottorati honoris causa e tra i suoi numerosi premi c’era la National Medal of Arts, che ha ricevuto nel 1988. Oggi, gli archivi del suo lavoro risiedono in numerose istituzioni, tra cui la Gordon Parks Foundation, Pleasantville, New York; il Gordon Parks Museum a Fort Scott, Kansas, e la Wichita State University di Wichita; e la Library of Congress, gli archivi nazionali e la Smithsonian Institution, tutti a Washington, D.C.

Il lavoro di Parks è nelle collezioni permanenti di importanti musei, tra cui l’Art Institute of Chicago; il Baltimore Museum of Art; il Cincinnati Art Museum; il Detroit Institute of Arts; l’International Center of Photography, il Metropolitan Museum of Art e il Museum of Modern Art, tutti a New York; il Minneapolis Institute of Art; il Museum of Fine Arts, Houston; il Saint Louis Art Museum; lo Smithsonian National Museum of American History, Washington, DC .; e il Virginia Museum of Fine Arts, Richmond.

Frisco Railway Station, Fort Scott, Kansas, 1950 Gordon Parks

Tutte le immagini sono di Gordon Parks

Dino Fracchia, in Piazza – rabbia e passione

Per acquisto clicca qui

Come siamo cambiati? Come è cambiato il nostro modo di protestare e stare in piazza dagli anni ’70 ad oggi? Attraverso una galleria di immagini, selezionate dal vasto archivio del fotografo milanese Dino Fracchia ripercorriamo i grandi movimenti che hanno caratterizzato le proteste degli ultimi cinquant’anni d’Italia alla ricerca del filo rosso che unisce più di una generazione sotto le bandiere della protesta, alla ricerca di un mondo migliore. Più di cento fotografie, quasi cinquant’anni di piazza dagli anni’70 ai giorni della pandemia. Anni ’70: Operaie e operai; Il movimento; Le femministe; I festival giovanili. Anni ’80: Studenti, punk, autonomi e il movimento antinucleare. Anni ’90: I centri sociali. Genova 2001: il G8 e il Genoa Social forum. Anni 2000: Non una di meno; Fridays for future. 2020-2021: La pandemia da coronavirus, torneremo più in piazza? Con i contributi scritti di: Vittorio Agnoletto, Carlotta Cossutta, Sandrone Dazieri, Erri De Luca, Federico Dragogna, Patrizio Fariselli, Vicky Franzinetti, Manuela Fugenzi, Sergio Marchese, Giorgio Oldrini, Xina Veronese. Da Amazon

Copyright: Dino Fracchia

Dino Fracchia – Dino Fracchia, fotogiornalista di Milano (Italia). Attivo da molti anni nel campo del reportage sociale, economico, scientifico e geografico. Collaboratore dei maggiori giornali nazionali ed internazionali

Fracchia è uno dei più riconosciuti fotografi che, negli ultimi 50 anni, si è occupato dei movimenti sociali. Qui potete sfogliare il suo archivio online

Copyright: Dino Fracchia

Ciao Sara

Chris Hondros, essere fotografo di guerra

Spari. Epicentro del conflitto.

Un cellulare che squilla. Tra il rumore dei caricatori che si svuotano, una voce calma risponde “Si, sono Chris.. Ok ok, penso vada bene. Richiamami fra mezz’ora circa.”

Inizia cosi’ “Hondros”, il documentario che racconta la storia di Chris Hondros, staff photographer di guerra di Getty Images, una delle più grandi agenzie fotogiornalistiche al mondo.

La giornalista lo incalza: “Un mio amico mi ha detto che, fra tutte le persone che fanno giornalismo, i fotografi di guerra sono i più pazzi.”

Ride, Chris. “Vedi” risponde “Il problema con la fotografia di guerra è che non c’è assolutamente nessun modo di farla da lontano. Devi essere vicino, non puoi farla dal tuo hotel, dall’altra parte della strada, dall’altra parte del ponte. Devi essere lì”.

In questi pochi secondi è raccolta l’essenza della vita e del lavoro di Chris Hondros.

Nato a New York nel maggio del 1970, da immigrati greci e tedeschi, passa la maggior parte della sua gioventù nel North Carolina.

Capisce subito che la sua strada è il giornalismo, e nella fattispecie, il fotogiornalismo.

Inizia a lavorare per giornali locali, e con l’amico Greg Campbell, fonda un’agenzia giornalistica.

Sentendosi strette le notizie e l’informazione locale, e volendo cercare un po’ di azione, all’inizio della guerra dei Balcani, decidono di prendere tutto quello che hanno e, insieme a pochi altri colleghi, si tuffano in un mondo che segnerà per sempre le loro vite, quello della fotografia di guerra.

Kosovo, Angola, Sierra Leone, 11 settembre, Afghanistan, Kashmir, The West Bank, Iraq, Liberia.

“Nomina uno dei conflitti che e’ avvenuto negli ultimi due decenni e sicuramente troverai qualche lavoro di Chris”, dice un suo collega.

2 volte finalista al Pulitzer, 1 honorable mention al World Press Photo, 1 Robert Capa Gold Medal, sono solo alcuni dei riconoscimenti che si porta a casa.

Ma sono le sue foto a parlare, facendo il giro del mondo, pubblicate sui più importanti quotidiani e riviste.

La celebre foto della bambina di Tal Afar, Iraq,  (superstite, dopo che la famiglia e’ stata sterminata per errore ad un checkpoint americano), serve a riaccendere le luci su un conflitto considerato ormai chiuso dai media mainstream.

“Tornavo in Iraq appena potevo, per documentare quello che succedeva.” dice. “Quella notte, a Tal Afar, ero assieme ad una pattuglia americana. Quando l´auto è stata colpita, ho continuato a scattare, anche se non credevo ai miei occhi. Il comandate del plotone mi aveva chiesto di aspettare a pubblicare le foto, perché’ sapeva avrebbero creato una reazione negli USA. Io l’ho rassicurato, poi appena tornati alla base, ho scaricato le foto, e inviate subito in redazione, prima che potessero bloccarmi. Il mattino dopo erano già sui quotidiani di tutto il mondo.”

Le sue foto, insieme a quelle di altri pochi colleghi, nella furiosa guerra civile in Liberia, fanno intervenire i caschi blu dell’ONU, e porre fine al conflitto.

“Chris credeva fermamente in ciò che voleva che fosse la sua fotografia”, afferma Pancho Bernasconi, Vice Presidente di News per Getty Images. “Potevo catapultarlo in qualsiasi situazione e non dovevo spiegargli perché era lì… credeva nel potere di far accendere una luce in un luogo che altrimenti sarebbe rimasto buio.”

Nel 2011, allo scoppio del conflitto libico, rinuncia a partire per la Libia, perché ritiene la situazione troppo instabile, e perché in procinto di sposarsi.

In seguito al rapimento, e successiva liberazione, di alcuni colleghi (tra cui anche la celebre fotogiornalista Lynsey Addario), decide di partire.

Il 20 aprile 2011, mentre stava documentando l’assedio di Misurata e gli scontri tra le forze governative ed i ribelli, rimane ucciso da un colpo di mortaio, insieme al collega Tim Hetherington.

(FILE) American photojournalist Chris Hondros walks during the seige of Monrovia, Liberia 03 August 2003. Chris Hondros a multi award winning photographer for Getty Images, was killed on 20 April 2011 while covering fighting in the city of Misrata, Libya when a rocket-propelled grenade (RPG) struck a house he was in.

Durante un’intervista, dice: “Credo nella fotografia. Credo nel ruolo che i giornalisti, ed in particolare i fotografi, hanno in tutto il nostro sistema di conflitti internazionali e nel modo in cui risolviamo le differenze. Abbiamo un ruolo da svolgere e voglio essere coinvolto in questo”.

Escono postumi “Hondros”, documentario che trovate su Netflix e in DVD, e “Testament”, libro con le sue foto e che racconta della sua vita.

Articolo di Alessandro Annunziata