Fotografia e pittura: Pittorialismo ed Impressionismo

Ci fu un tempo in cui la sperimentazione nelle arti visive visse momenti di comunanza, forse irripetibili, in cui poteva tranquillamente accadere che pittori e fotografi si mescolassero abitualmente gli uni con gli altri per trovare nuove forme espressive. Ad esempio potrebbe oggi apparire strano, ai nostri occhi, che la prima mostra di pittura impressionista sia stata allestita nel 1874 nell’atelier del noto fotografo Felix Nadar. Non fu in realtà per nulla casuale perché in quel periodo il mondo della pittura, poi definita impressionista, e quello della fotografia, poi definita pittorialista, dialogavano costantemente e a volte coabitavano anche nello stesso artista e questo perché perseguivano il medesimo interesse primario, ovvero il trattamento della luce nella creazione di immagini. Se è vero che Degàs e altri “utilizzavano” le fotografie principalmente a supporto tecnico della loro arte pittorica (uno dei suoi più celebri dipinti, nati grazie all’uso della macchina fotografica, è “Ballerine dietro le quinte” la cui base era costituita da tre lastre fotografiche poi combinate), è anche vero che molti fotografi (Arning, Misonne, Proessdorf, Perscheid, Job, Hudson White, Kaesebier) si ispiravano fortemente alla pittura impressionista per definire le inquadrature e le modalità di composizione delle immagini.

Hilaire Germain Edgar Degas – Ballerine dietro le quinte (dipinto)
Robert Demachy Behind the scene (foto)

Tra di loro operò anche Alfred Stieglitz, prima della svolta che lo portò alla straight photography.

Pittori impressionisti d’altra parte produssero dipinti in cui adottarono scelte tipicamente fotografiche come ad esempio la ripresa del soggetto decentrato e non in posa, lo sguardo rivolto altrove rispetto all’osservatore, il taglio di un soggetto in primo piano.

In questo clima di fermento della ricerca, persino quello che allora era un limite insormontabile della fotografia, e cioè doversi limitare a realizzare stampe in bianco e nero, venne in certo modo superato quando il 10 giugno 1907 i fratelli Lumière introdussero le lastre Autochrome. Si trattava del primo procedimento di stampa a colori commercializzato e si basava sul principio della sintesi additiva su lastra di vetro e non su carta. La lastra veniva ricoperta con milioni di granelli di fecola di patate tinti di verde, blu-violetto oppure rosso-arancione, che fungevano da minuscoli filtri cromatici e si poteva applicare a qualsiasi fotocamera standard. Le lastre Autochrome offrivano ai fotografi, amatoriali o professionisti, una vasta gamma cromatica luminosa con potenzialità espressive ampiamente sfruttate dai pittorialisti. Il limite di questa metodica stava ovviamente nel fatto di non poter essere utilizzata su carta e soprattutto di non essere riproducibile: ogni scatto restava unico. Pertanto nella seconda metà degli anni ‘30 venne abbandonata, ma rappresenta comunque un esempio di vitalità nello sviluppo di nuove tecniche finalizzate alla produzione artistica, tipico di quei primi anni del Novecento.

Anche ai nostri tempi non mancano figure di artisti che esplorano le arti visive con instancabile entusiasmo, traendo ispirazione ora dall’una e ora dall’altra; tuttavia vi è forse una minore tendenza a lavorare “gomito a gomito”, a condividere le esperienze nella consapevolezza delle potenzialità che un approccio globale alle arti visive è in grado di offrire agli Autori.

Articolo di Lorenzo Vitali

Le immagini all’interno dell’articolo hanno solamente uno scopo didattico e divulgativo, non vengono utilizzate per scopi commerciali.

Fotografia e pittura: contrapposizione o integrazione?

Di Lorenzo Vitali

Da quando Baudelaire nel 1859, agli albori della fotografia, espresse una critica ferocissima e velenosa contro la fotografia: “Bisogna dunque che essa torni al suo vero compito, quello di essere la serva delle scienze e delle arti, ma la serva umilissima, come la stampa e la stenografìa, che non hanno né creato né sostituito la letteratura”, sono passati più di 150 anni.

Ormai, a mio avviso, non ha più senso porre in contrapposizione queste due forme di arte, ma può essere invece più interessante soffermarsi su quanto profondamente esse possano integrarsi.

E non dobbiamo pensare che ciò sia avvenuto solo in un certo periodo storico o con limitate modalità. Se in un primo tempo il “pittorialismo” fu, almeno in certi casi, espressione di una sorta di sudditanza della fotografia nei confronti della pittura, non dobbiamo ignorare per converso l’importante corrente “iperrealista” in pittura, che giunse sino a produrre dipinti monocromatici non facilmente distinguibili da fotografie in bianco e nero (pensiamo allo spagnolo Bernardo Torrens ad esempio).

Nei prossimi appuntamenti vorrei di volta in volta proporre, attraverso l’osservazione di fotografie realizzate da Artisti visivi differenti fra loro per caratteristiche, l’incredibile varietà di commistioni che fin dal XIX secolo si sono verificate fra fotografia e pittura e che hanno sinergicamente contribuito alla realizzazione di varie opere di arte visiva.

Questo mese possiamo provare a confrontare le immagini di due Autori che appartengono ad epoche estremamente diverse, che hanno quindi operato con mezzi ovviamente molto differenti, e che hanno in comune solo il Paese in cui le immagini sono state scattate.

Felice Beato, italiano ed europeo (nato a Corfù, poi naturalizzato britannico), uno dei primissimi Autori di reportage di guerra molto crudi in cui erano anche presenti cadaveri, ma qui dedito a tutt’altro e cioè alla rappresentazione ad uso degli Occidentali del mondo nipponico in un periodo peculiare (quello in cui il Giappone usciva dall’isolamento legato alla dominazione degli Shogun). Beato rimase in Giappone a lungo: fra il 1863 e il 1877. Ne diede, verosimilmente anche con finalità commerciali, una visione volutamente vicina all’immaginario europeo dell’epoca più che alla realtà giapponese: in aggiunta agli aspetti estetici, i lunghi tempi di esposizione allora necessari furono verosimilmente di stimolo per inquadrare e posizionare accuratamente i soggetti delle sue fotografie. Eseguiva stampe all’albumina da lastre in vetro al collodio umido e fu un pioniere delle tecniche di colorazione a mano delle fotografie, che eseguiva sistematicamente. Le sue opere, di ottima fattura, sono raccolte in vari Musei italiani.

Chloé Jafé, francese ed europea, artista contemporanea, si è a sua volta stabilita in Giappone per un consistente periodo (dal 2013 al 2019) allo scopo di indagare un aspetto poco noto e difficilmente accessibile ai più (la Yakuza al femminile), un qualcosa di cui gli occidentali non sanno nulla, realizzando una fotografia documentaria (reportage), accompagnata da una personalissima estetica intimistica. A differenza di Beato in certi casi ha avuto necessità di scattare velocemente per non perdere momenti decisivi (ha ricorso a volte anche ad una pocket camera, come afferma in una recente intervista su Artribune a cura di Manuela De Leonardis), ma ha pur realizzato fotografie in bianco e nero (dal ritratto al reportage), usando diversi tipi di fotocamera e di obiettivi ed eseguendo sulle stampe in BN interventi successivi, utilizzando la pittura e i glitter. Attratta da soggetti delicati e difficili, spesso apparentemente marginali, Chloé Jafé oltrepassa decisamente i limiti della fotografia in senso stretto lavorando direttamente su stampe, in acrilico e pennello. Ciascuna delle sue serie ha dato origine a un libro in edizione limitata, rilegato e realizzato a mano dall’artista.

E’ verosimile che ambedue questi artisti conoscessero l’antica tecnica ukiyo-e (una serie di blocchi di legno veniva inchiostrata in diversi colori, che successivamente venivano impressi su carta a più riprese) di cui sembra cogliersi a tratti qualche richiamo formale, ma è evidente quanto lo stimolo che li ha portati a realizzare le loro opere fosse profondamente diverso sia dall’antica originaria finalità dell’ukiyo-e (fornire stampe a buon mercato a chi non poteva permettersi dipinti) sia dal loro personale obiettivo. Se nel caso di Beato lo scopo era quello di fornire un’immagine stereotipata di un Paese nel XIX secolo sconosciuto ai più, nel caso di Chloè Jafè è evidente che l’impegno principale è quello di far emergere un aspetto nascosto (le donne della Yakuza in teoria non esistono se non come “addette” agli uomini dell’organizzazione) di una società, come quella giapponese, che oggi nel XXI secolo globalizzato, abbiamo l’illusione di conoscere sufficientemente, ma che in realtà ancora riserva situazioni oscure.

Epoche ed intenti quindi totalmente diversi, tecniche assolutamente differenti, ma alla fine non ci si può non rendere conto che in entrambi i casi fotografia e pittura hanno contribuito a rappresentare, integrandosi, il pensiero dell’artista.

Lorenzo Vitali

LINK utili per approfondire

https://loeildelaphotographie.com/en/whats-new-chloe-jafe-interview-by-nadine-dinter-kk/

https://www.fotodemic.org/okinawamonamour

https://it.wikipedia.org/wiki/Felice_Beato

https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2022/05/intervista-chloe-jafe-fotografa-donne-mafia-giapponese/

https://www.gettyimages.it/immagine/felice-beato

Edward Steichen, geniale fotografo e artista! Da conoscere.

Buongiorno, ho guardato questo video con tanto interesse! Lui, Edward Steichen, è una figura magnifica della storia della fotografia, spesso, purtroppo, messo in ombra dalla figura di Alfred Stieglitz, più prorompente.

Edward Steichen ~ Fashion shoot for Vogue, 1930’s

Amo le immagini di Steichen, eleganti e raffinate, che fossero nel settore della moda, dove ha molto operato o più semplicemente di ricerca personale e legate in qualche caso al pittorialismo.

The Flatiron, 1904, stampato nel 1909. Edward J. Steichen

Edward Steichen era un artista, fotografo e gallerista americano di origine lussemburghese, figura chiave della fotografia a cavallo del ‘900. Steichen è stato direttore della fotografia del Museo di arte moderna dal 1945 al 1962. Nelle sue fotografie, come The Flatiron (1904), ha sperimentato tecniche di colorazione sviluppate in Francia.

Gloria Swanson, New York by Edward Steichen

Nato a Éduard Jean Steichen il 27 marzo 1879 a Bivange, in Lussemburgo, la sua famiglia emigrò negli Stati Uniti nel 1880. Durante gli anni ’90 dell’800, Steichen lavorò come apprendista litografo, iniziando a sperimentare con la fotografia. Diventa cittadino americano nel 1900, e le fotografie attirano l’attenzione di Alfred Stieglitz, nello stesso anno. Fonda con Stieglitz, appunto, la rivista Camera Work, e diventa direttore dell’Istituto di fotografia navale statunitense durante la seconda guerra mondiale. Durante il suo mandato al Museo di arte moderna, ha allestito la famosa mostra “La famiglia dell’uomo”. Oggi, le opere dell’artista si trovano nelle collezioni dell’Art Institute di Chicago, del J. Paul Getty Museum di Los Angeles e della National Gallery of Art di Washington, DC.

Nel febbraio del 2006, è stata battuta all’asta una copia della prima fotografia pittorialista di Steichen, “The Pond-Moonlight” (1904). L’asta ha raggiunto un prezzo record – tra i più alti mai pagati per una foto – di circa 2.9 milioni di dollari, cifra superata solo nel 2011 dalla fotografia Rhein II di Andreas Gursky.

Edward Steichen The Pond-Moonlight” (1904)

La fotografia fu scattata a Mamaroneck. Il soggetto della foto è una radura boscosa con un laghetto; il chiaro di luna che appare tra gli alberi illumina la scena riflessa sulla superficie del lago.

The Pond-Moonlight è un raro esempio di fotografia a colori realizzata tramite l’applicazione manuale su carta di alcuni strati di gomma fotosensibile. La tecnica, sperimentale, precede di qualche anno l’autocromia, il primo procedimento per la realizzazione di foto a colori, che fu reso disponibile nel 1907. Ad oggi rimangono solo tre copie di questa fotografia – incluso l’esemplare battuto all’asta – ciascuna delle quali costituisce un esemplare unico a causa della stesura manuale delle gomme; una caratteristica che ne ha giustificato, in parte, l’elevato prezzo di vendita. Da Wikipedia

Ciao, baci Sara

Storia di una fotografia. Moonlight: the pond di Edward Steichen

Ciao,

oggi vorrei parlarvi di questa fotografia che – attenzione – è stata scattata nel 1904!

Se vi incuriosisce, vedete un po’ di che si tratta

Anna

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