I motivi per cui alcune persone non desiderano essere fotografate, rispettateli!

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Sara Munari, Vietnam

Quali sono i motivi per cui alcune persone non amano o non desiderano essere fotografate.

Le ragioni sono svariate e spesso dipendono da ragioni che non sta a noi fotografi giudicare, piuttosto, rispettare.

Vi faccio alcuni esempi che spero possano avvalere la mia tesi sul rispetto.

Una ragione logica potrebbe essere la condizione in cui ci si trova  la persona (volontariamente o meno) in termini di mancanza di permessi di soggiorno, situazioni di consapevolezza della propria situazione disagiata, in un periodo specifico della sua vita.

Perché fotografare gente di colore chiaramente in situazione difficile, ‘barboni’, poveri, feriti, malcapitati di tutti i generi che non hanno voglia di essere ripresi?

Voi direte, per documentare una situazione sociale. Bene, sappiate che fotogiornalisti di professione avranno già trattato lo stesso tema e meglio. Entrando in contatto con il gruppo o l’individuo in questione e raccontandone le vicende. Se siete in grado di farlo in modo professionale, siete i benvenuti, ma scattare per strada a poveri o ‘esclusi’ di qualsiasi genere,  senza progettualità o consapevolezza, non fa di fotografi ma avvoltoi…

Un altro motivo logico può essere la vergogna, il provare vergogna, per ragioni differenti, di fronte all’obiettivo. Quindi, se non strettamente necessario, perché insistere?

Nel mio caso, per esempio, l’immagine di me bidimensionale, non mi piace particolarmente. Se c’è da fare una foto, la faccio tranquillamente, già consapevole di non piacermi, quindi eviterei nella maggior parte dei casi. 

Probabilmente è legato al fatto che si abbia la sensazione di non poter controllare il risultato per evitare che la propria immagine, non particolarmente amata, giri per il mondo.

Quindi se posso evitare e non mi va, non mi faccio fotografare e rispetto la stessa necessità da parte di altri individui.

Altro motivo potrebbe essere la quantità di immagini in circolazione, il finire in mezzo al marasma di fotografie del cacchio che circolano, è un pensiero al quale si potrebbe dare peso. 

In qualche caso, soprattutto all’estero, ci sono motivi religiosi che spingono le persone a non amare l’essere fotografate.

Conviene proprio adeguarsi per evitare casini…come è capitato a me, con relativa fuga e inseguimento. Ho imparato a rispettare le regole che esistono nel luogo in cui mi reco e ad avere riguardo sia dei posti che delle persone che per scelta personale o scelta imposta, non vogliono essere riprese.

Vi do un consiglio, chiedetevi sempre se voi, nella stessa condizione, vorreste essere fotografati. Se la risposta è NO, perché lo imponete ad altri?

Sara

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Web: www.saramunari.it

 

 

Quando la fotografia è inutile.

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Buongiorno a tutti!

Vi scrivo questo pensiero sulle fotografie che produciamo. Il mio ragionamento parte da un vecchio post, scritto per ridere che mi ha portato a fare piccoli ragionamenti su quello che “prendiamo” fotograficamente.

Nel 2016, secondo Deloitte, 2.5 trilioni di fotografie sono state condivise online e il 90% di queste scattate con uno smartphone.

Vi scrivo in numero per farvi capire meglio: 2.500.000.000.000.000.000

Nel mio post, prendendo la notizia in internet e senza pensarci troppo, ero stata stretta. Avevo affermato 1.300.000.000.000.000.000 nel 2017.

Inoltre avevo dichiarato che 1.299.000.000.000.000.000, fossero inutili, salvandone 1.000.000.000.000.000.

Mi sembrava un numero grandioso, ma no.

Qualcuno (più di uno) ha pensato che la differenza facesse 1 e mi ha accusata di essere presuntuosa dicendo che l’unica buona per me, fosse la mia. Carino!

Spiego, a questo punto, cosa intendo per fotografia utile e fotografia inutile.

Faccio una premessa secondo me fondamentale, ritengo una fotografia utile quando lo è per la comunità, per la società, non per il singolo individuo, altrimenti, ogni fotografia potrebbe essere utile, adeguata per chi la scatta, valida per chi la guarda. Valide ma non indispensabili.

Ma credo ci sia una differenza tra queste due foto che vi propongo, oppure no?

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“tette” non so di chi
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The ‘Tank Man’ stopping the column of T59 tanks on 5th June 1989. Photograph: Stuart Franklin/Magnum Photos

Certo, per qualcuno potrebbe essere più emozionante la prima, ma credo che tutti siano d’accordo con la valenza maggiore della seconda, oppure no?

Quindi, una fotografia è utile, secondo me, se mostra fatti che non erano mai stati visti, il fotogiornalismo in generale (indispensabile), oppure mostra interpretazioni di luoghi, personaggi e cose, come non erano mai state mostrate e interpretate (essenziale) allo stesso modo.

Come faccio ad avere certezza che non siano mai state interpretate in quel modo?

Il punto di riferimento per la maggior parte di noi, è sé stesso.

Per ognuno di noi il “mai visto” dipende da molti fattori, troppi e l’asticella si alza in base alla propria cultura visiva (quante immagini ho visto e capito) e a tutti quegli elementi che determinano la lettura di un’immagine (cultura, il luogo di nascita, la religione o l’età ecc.).

Però mi sono fatta una domanda. Torniamo indietro di qualche anno.

Che foto non avremmo mai fatto con le vecchie pellicole, quali sono le fotografie di cui avremmo fatto a meno?

Avremmo fotografato tutte ‘ste tette, culi, pizze, piedi, gatti, cani, sushi, vestiti ecc.? Credo di no. Gli scatti si pagavano, costava stamparli. Non le avremmo fatte o meglio le avremmo fatte ma non avremmo voluto pagare per guardarle. Non erano indispensabili.

Chiaramente, ci sono fotografie personali che non riguardano la comunità intera, le fotografie di famiglia, per esempio. Ognuno scatta le sue, le stampa e hanno valenza per una piccola comunità, amici e parenti. Per qualcuno dei familiari sono indispensabili, tanto quanto una fotografia che ha cambiato la storia del mondo.

Ma torniamo alle fotografie che ritengo inutili e che ho elencato sopra. La percezione che se ne ha non riguarda la cultura, il luogo di nascita, la religione o l’età, (tette, pizze e vestiti, hanno lo stesso valore, in termini fotografici, ovunque) non varieranno di molto e forse nemmeno di un po’, la vita della gente.

Siamo parte di una cultura che avvalora ogni azione, esperienza, dettaglio, ogni accadimento in ogni momento prende presunto valore e vita infinita, attraverso lo scatto fotografico. Si riceve un minuto di fama, sufficienti “mi piace”, per poi scivolare via velocemente, lasciando spazio ad altre fotografie” inutili” in cerca di attenzione. ognuno è il centro del mondo.

In questo senso le fotografie che prendiamo,  sono essenziali per noi e basta, evidentemente. Solo in questo senso, ogni fotografia è utile.

Ciao Sara

 

La solitudine del fotografo

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Be the bee body be boom. Sara munari

Qualsiasi fotografo che per un progetto specifico o per un lavoro continuativo (penso ai fotogiornalisti) abbia deciso di andare, partire per un posto vicino o lontano, sa a cosa mi riferisco.

Oggi vi parlo della mia solitudine, la solitudine di un fotografo.

La solitudine prende la testa e accompagna anche il corpo di chi viaggia, spesso per tutto il percorso. Non trovo sia una cosa negativa, è un modo, un sentimento che si insinua sulla strada che segui.

Non è il “lasciare le cose”, gli amici e la famiglia a casa.

Questo è per me anzi, stimolante.

Così come trovo insostituibile le sensazioni che si sentono nel provare nuovi cibi, vedere nuove facce, regalare gli occhi e la mente ad altri luoghi, per raccogliere immagini.

Ognuna di queste esperienze ti fa rivalutare te stesso, ti da l’opportunità di ridurre pregiudizi e povere categorie mentali.

Sembra tutto positivo.

Poi, in me, subentra questo sentimento che mi avvolge il giorno e peggiora durante la notte.

Non dipende dal fatto che tu sia solo o accompagnato.

Forse riguarda la comprensione delle cose, la presa di coscienza, la consapevolezza della fluidità della nostra vita, che tenti di bloccare ingenuamente su piccoli riquadri di carta bidimensionali.

Creo un legame sottile quanto un foglio di carta da stampa, con questi uomini, queste donne, imprigionate nelle mie “cornici”.

In qualche caso il legame è intenso e mi da l’opportunità di annodare anche voi a me, quando dedicate tempo a guardare la “vita nelle mie immagini”.

Il bagaglio (anche se io parto con uno zaino davvero piccolo) si fa più pesante e ho l’impressione che cresca la solitudine che provo.

Abbandonati pregiudizi e preconcetti ci si sente soli e vuoti finché non troviamo occhi nuovi con cui rubare vita agli altri e di conseguenza a noi stessi.

Costruiamo memoria e moriamo un po’.

Uaaaaaauaaaauaaauaaa (faccina che piange a dirotto)

Vado a fare un giro, va’.

Ciao Sara

I personaggi delle fotografie, ma chi sono davvero?

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Gustav Klimt, Il bacio (1907-1908; olio su tela, 180 x 180 cm; Vienna, Österreichische Galerie Belvedere)

Buongiorno!

Vi racconto un pensiero.

Nel quadro, ‘Il Bacio’ di Klimt, il viso dell’uomo è quasi nascosto.

Avvolge la donna, pare, con grande tenerezza e attenzione.

La donna a sua volta, sembra quasi scostarsi, sembra sfuggire al bacio.

Non so perché Klimt lo abbia intitolato così…qui non c’è un bacio. Questo è sempre stato ciò che pensavo e penso, osservandolo.

Forse mi sbaglio, forse no e anche Klimt voleva dirci quanto l’universo maschile e femminile siano spesso distanti e la donna, che anche nel quadro sembra a primo impatto concedersi, ai miei occhi, dimostra​ quanto possano essere lontani i due elementi.

Ora penserete: ma che cavolo ha stamattina la Munari, ha mangiato pesante? Litigato con il marito? Non va di corpo? Morbillo? ( ok mi fermo!😂 )

Bene, torniamo a noi.

Ho fatto un viaggio in Islanda, a cercare una cosa introvabile, senza senso e insistente, che ho trovato! Non è questa la storia che vi racconto…non ora.

Durante il viaggio, avendo molto tempo per pensare e vedendo tanto di meraviglioso, ho cominciato a notare piccole cose.

Un giorno, in un ristorante nel quale mi sono rifugiata per l’acqua incessante, di fronte al mio tavolo, avevo la parete di cui vi mostro l’immagine qui:

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Tante fotografie, piccole e più grandi. Tanti sconosciuti di cui ho avuto tempo di immaginarmi le storie, le vite e gli attimi legati allo scatto. Nelle foto sulla parete, due donne piccoline, affette da nanismo, alcune donne in costume e gonne pesanti, del luogo, viste del paese…e così via. Cose normali che spesso si trovano nelle foto d’epoca (nelle foto moderne invece: tette, pizza, tramonti e sushi).

Ma cosa c’entra tutto questo con Klimt?

Tra tutte le foto, l’unica cosa che riuscivo a notare e sulla quale mi cadeva l’occhio era questa immagine:

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Me ne sono innamorata. Un insieme di cose mi ha colpita:

Il ragazzino sulla destra che fuma una sigaretta, quella donna vestita di bianco, sullo sfondo a sinistra, l’uomo che abbracciando l’altro, si appoggia sul suo bastone, guardandosi le scarpe.

E ancora … ma cosa c’entra tutto questo con Klimt?

Ecco, quello che mi stupiva di questa fotografia era ed è il ragazzo che avvolge quasi “strozzandola” la donna che tiene le braccia incrociate, girata leggermente su un lato.

Appena l’ho vista ho pensato: proprio come nel bacio di Klimt! Lei c’è, è lì, si fa abbracciare e a primo impatto sembra volerlo, ma forse no, non è così. Non si capisce.

Mi ci sono arrovellata. Ho pensato, chi sei ragazza un po’ imbronciata? Volevi essere abbracciata? Chi è quell’uomo? Gli volevi bene? Vi conoscevate bene? È stato tuo amante? È tu, come ti chiami? Eri felice qui, lo eri in generale?

Quando scattiamo fotografie, esse prendono vita ed è una vita a volte diversa da quella che avevamo sperato o creduto potessero avere.

I personaggi nelle nostre Immagini, carichi di tensione affettiva o narrativa da parte nostra, diventeranno solamente uomini e donne, agli occhi di chi per caso si fermerà di fronte ad una nostra foto, tra cent’anni. Qualcuno osserverà distrattamente, qualcuno noterà un gesto, uno sguardo, un particolare e questo solamente nella fortuita occasione in cui quelle immagini ricompariranno, su un muro, sullo schermo di un pc, in un museo.

La passione, la nostra necessità di ricordare, di prendere proprio quella foto, di dire a tanti: mia madre (sorella, zia, figlio, Giuseppe mio amico, quella casa, quella Chiesa ecc) è qui ora, davanti a me… probabilmente tutto andrà perso e a chi guarderà rimarrà il dubbio sul ‘sentire’ dei personaggi o la certezza sugli stessi sentimenti, ma niente o poco che possa effettivamente essere accertato.

Questo è poetico e forse “agghiacciante” (tipo Antonio Conte) ma fa parte del mio mestiere. Lasciare tracce liberamente interpretabili e libere di per sé.

Ciao Sara

Siamo un paese di impreparati competenti.

Siamo un paese di impreparati competenti.

Stravolti ed esposti ad informazioni di ogni genere, facilitati da internet  e dalla tecnologia in generale, ci sentiamo tutti uguali da dietro i pc.

Autocompiacimento e egotismo: tutti sanno tutto.

Quattro cazzate sulla fotografia nel web e nel circolo di paese, quattro foto con più di 30 like e siamo convinti di poter discutere a pari di tutti.

Gridiamo su facebook le nostre posizioni e gridiamo allo stesso modo in faccia ad un critico di settore o un panettiere.

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Spesso il web non aiuta in questo senso. Si risponde alle discussioni senza effettivamente sapere con chi ci si interfaccia e forse manco ci interessa, sappiamo tutto.

La considerazione che si da al panettiere e al critico, è la stessa per il medesimo motivo che ho spiegato sopra. Questo porta ad un’esponenziale crescita di convinzioni sbagliate e l’ignoranza settoriale dilaga.

Succede anche in fotografia.

Il riconoscimento e la valorizzazione della competenza, nulli. Tutti uguali, l’appiattimento della considerazione.

Eppure la diffusione di notizie avrebbe dovuto portare ad un pubblico sapiente.

Invece no, siamo non informati e sempre incazzati, tutte le opinioni hanno pari valore e si è d’accordo solo con chi la pensa uguale a noi (a prescindere da chi sia), voglio conferme su quello che credo, voglio la conferma di quanto “sono bravo”, non confronti che mettano in discussione la mia tesi, le mie foto.

Tutte le discussioni diventano zuffe, eppure dal vivo, nei miei numerosi incontri, non mi capita praticamente mai di avere particolari scontri. Sul web, il caos.

Onanismo virtuale.

Ciao Sara

 

Sul quando non si capisce un cavolo di Fotografia.

Ciao! Non so se capita anche a voi, ma mi succede sempre più frequentemente di andare a vedere mostre di autori, anche acclamati e rimanere un po’ così, interdetta. Cerco di capire, cerco punti di riferimento a cui attaccarmi, considero l’ambiente, il contesto storico, la storia stessa dell’autore e le sue modalità.

E si che studio tanto, ma niente, in qualche caso non mi riesce di capire.

Spesso me ne vado così, col dubbio della mia abissale ignoranza a galleggiare soavemente in una melma indistinta.

Ma possibile che io veda solo copie di copie? Ma non dice niente nessuno? Allora è tutta una bella presa in giro. Eh si, sembrerebbe di si.
Finisci di guardare le foto, che siano su un libro o in mostra e vai via che non hai capito un caz.

Cammini verso l’uscita e ti domandi come mai hai la mente così chiusa? Come mai nemmeno “di pancia” questo lavoro, per cui hai pagato anche l’entrata, ti insegna niente? Gli altri avranno capito?

Forse nessuno ha capito e nessuno lo dice per paura di fare una brutta figura… e così tutti a riempirsi la bocca di parolone… eccezionale, raffinato, intelligentissimo e coinvolgente!

 

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Vietnam. Sara Munari

Poi nel silenzio della sera, a casa, ci si sorprende perplessi.

Allora, in qualche caso tento di convincermi:

Il pensiero è la rivoluzione, il concetto (che non hai compreso per questo o quel motivo) è la risposta.

Si, …ma quale?

Vabbè, vabbè, non sai lasciarti andare e godere dell’abbandono estatico di fronte alle foto.
Forse c’è un complotto sotto (scusate la rima) .
Basta avere amicizie che introducono, basta mettersi d’accordo con un critico, quello giusto, basta vestirsi discinte e saper baciare bene per far schizzare… le fotografie ai vertici delle vendite.
Ma è davvero così?

In mezzo a questo marasma fotografico, chi sa riconoscere il valore di un autore?

Vi assicuro che è difficile. Tutto si brucia in pochi istanti.

Forse la situazione è rimasta uguale ed io non so rendermene conto, ma del fotografo abbiamo sempre guardato al suo percorso, l’evoluzione.

Come possiamo farlo oggi dato che gli autori esplodono e implodono nel giro di un mese o due.

Ho visto vincere il World Press Photo gente che poi è completamente sparita, è sempre successo, ma mai quanto oggi.

Ho visto arrivare in gallerie importanti gente che sta producendo progetti che con intenti simili, per non dire gli stessi, sono stati prodotti nei primi del 900.

Difficile per me capire e giudicare. Sono seduta su un muretto a guardare scorrere un fiume.

Ciao Sara

Ti racconto il “tutto”in dieci foto. Si, certo.

Ti volevo far vedere questo lavoro sulla solitudine, titolo: “La solitudine”(originale).  Alle letture portfolio in giro per l’Italia e per le selezioni degli autori del blog, mi capita davvero spesso di vedere lavori affrontati troppo alla leggera.

La religione, la solitudine, l’amore, la sofferenza, la povertà….tutto in un portfolio, tutto in 10 o 20 fotografie al massimo che quasi sempre si riducono ad un elenco di luoghi comuni. Le fotografie sono tutte simili tra loro.

  • Per la solitudine: anziano su panchina preso di spalle, bambino che gioca da solo, lago con persona su panchina…
  • Per l’amore: due che si baciano sotto portico, due che si tengono per mano (di spalle)…
  • Per religione: donne con hijab in città italiane, chiesa buia con candele e vecchietti di vario genere…
  • Per sofferenza: barbone per strada, barbone per strada, barbone per strada…

I titoli sono vaghi e possono fare da contenitore per tutto. Quello che a voi sembra un buon modo per mostrare le vostre immagini, diventa presto consapevolezza per qualcuno e incazzatura per altri che deriva dalla comunicazione da parte mia (o di altri lettori) della superficialità con cui avete affrontato questo tema.

In alcuni casi qualche foto è anche buona, ma non racconta certo quello che speravate, né da singola, né nel gruppo. Per raccontare qualcosa dovete prendere l’abitudine di studiarlo, andare a fondo sull’argomento e soprattutto, STRINGERE IL CAMPO.

Ma chi è in grado di raccontare “la religione”?

Lo han fatto bene in pochi, un esempio di Abbas, fotografo della Magnum,  qui.

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Indonesia, Jakarta. Estudiantes del Al Azhar Collegue. Abbas, 1989

Per sette anni, Abbas ha percorso ventinove differenti paesi alla ricerca del nuovo Islam o meglio, dei diversi Islam del mondo. Il racconto del suo viaggio è racchiuso in queste pagine: spinto dal desiderio di comprendere le tensioni interne che attraversano le diverse società musulmane, Abbas è riuscito ad individuare le contraddizioni tra il rigurgito di un movimento politico ispirato ad un passato mitico e il desiderio universale per la modernità e la democrazia. La finezza formale delle sue immagini, il rigore della ricerca giornalistica, la competenza dello studioso, fanno di Abbas uno dei rari autori in grado di informare il lettore. (da Amazon)

Lui, bravissimo, ci ha messo un viaggio di sette anni in giro per “mezzo mondo” a raccontare una storia parziale (solo Islam) sulla religione nel mondo, potremmo mai noi metterci 10 fotografie scattate ad Abbiategrasso  per raccontare la solitudine?

Il mio consiglio è: imparate a scegliere piccoli temi nei quali le persone possano sentirsi coinvolte, va benissimo anche la “shampista di Boffalora”, un garage sotto casa, un parente, un amico, un luogo circoscritto. Una piccola storia alla vostra portata, ma fatta bene.

Questo articolo è rivolto a chi si presenta a letture portfolio, chi dice di essere fotografo e si presenta a selezioni di altro genere come premi o submissions on line….tutti gli altri si divertano un sacco!

Ciao

Sara

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Libro: Il portfolio fotografico