Quando si parla di “instagrammabilità”, si parla di un’estetica precisa che ormai ricopre uno spazio importante per chi si occupa di immagine e di cultura visuale. La modalità con cui sono proposte le
fotografie su questo social si ripetono all’infinito e rispondono a un copione ormai sfruttatissimo.
Le fotografie di viaggio, i ritratti, gli autoritratti, gli oggetti, si somigliano tutti, tanto da trasformarsi in cataloghi inquietanti delle “cose del mondo”.

Si definisce Instagram Face un ritratto, generalmente di donna, che risponda a criteri precisi come labbra piene, sopracciglia spesse ma perfette, zigomi alti, occhi grandi, naso piccolo, seno abbondante,
vita stretta, fianchi e sedere pieni, eccetera. Un ideale falso che condiziona soprattutto i giovani, ancor più delle vecchie pubblicità di modelle sui giornali (proprio perché moltiplicato esponenzialmente).
I paesaggi sono tutti simili, che si tratti di viaggi in Alaska o in Perù, i colori sono saturi, le composizioni perfette, i cieli artefatti e la lettura dei particolari molto evidenziata, nonostante si sappia bene che
esponendo per le luci, o per le ombre, questo non possa avvenire se non con un sandwich di fotografie differenti dello stesso soggetto, dalla stessa posizione.
La descrizione che ho appena fornito potrebbe essere applicata a centinaia di immagini, che rispondono tutte a questi canoni. Sono nati addirittura profili che, per far notare la differenza, mostrano le fotografie prima e dopo l’utilizzo di filtri appositi e applicazioni che, con un click, perfezionano l’immagine.
Il fenomeno è talmente diffuso che, purtroppo, anche chi ha velleità autoriali segue percorsi simili. Nascono in continuazione profili appartenenti a generi fotografici differenti (street photography, ritratto, reportage, autoritratto) in cui, sebbene i soggetti siano diversi, le modalità estetiche, non esclusivamente a seguito di ritocco fotografico, sono tutte uguali, come se l’impatto dell’immagine potesse sostituirne il contenuto. Tutto prodotto e riprodotto in serie e inserito in pagine che, anch’esse, devono sottostare all’insieme, a una logica estetica che faccia guadagnare like, non solo al singolo scatto ma alla costruzione visiva della pagina stessa.
Mi sono a lungo chiesta quando sarebbe terminata questa proposta rosa e azzurrina, fatta di cappuccini schiumosi, wonder women e bambini perfetti.

Ultimamente sembra però che lo stile instagrammabile stia perdendo di forza. Strano a dirsi, ma le prime persone che hanno cambiato rotta sono gli influencer e non i fotografi. Da loro è nata questa modalità visiva – che ha poi influenzato tutta la fotografia, anche quella finita nei musei e nelle gallerie – e proprio da loro è stata messa in discussione.
Le immagini sembrano essere più sobrie, spontanee, meno artefatte.
I colori preponderanti sono più sbiaditi e realistici, le foto più sgranate e meno curate nel ritocco.
La “consapevolezza del sé”, soprattutto se nata e cresciuta attraverso le immagini, finalmente si scontra con una perfezione impossibile da raggiungere e quindi inutile da cercare a ogni costo; l’ossessione del racconto edulcorato, di qualsiasi momento, ha forse portato a un ragionamento più maturo, sul quale è bene riflettere, anche da fotografi, nel caso in cui la propria crescita autoriale si
sia basata esclusivamente sull’impatto estetico e sulla cura delle pagine Instagram. Spero che questo sia l’inizio di un processo che accosti all’immagine contenuti più densi e un maggiore interesse
per un messaggio specifico, legato alla pubblicazione su questo e su tutti gli altri social.
Da Troppa fotografia, poca fotografia | Riflessioni sui linguaggi contemporanei di Sara Munari