Luciano e Marco Pedicini: esplorare e narrare l’arte attraverso l’obiettivo.

Luciano e Marco Pedicini: esplorare e narrare l’arte attraverso l’obiettivo.

“La Bellezza salverà Napoli“: interviste a napoletani, per nascita o per scelta, che producono Bellezza
Intervista di Luciana Pennino

Pedicini al lavoro

“La bellezza di una fotografia non è mai fine a se stessa ma deve essere funzionale alla conoscenza dell’opera: questa è la filosofia con cui lavoriamo quotidianamente da tre generazioni.”

Questo si legge nel sito pedicinimages.com e non può che essere questo il punto di partenza per presentare l’esponente della generazione di mezzo delle tre menzionate: Luciano Pedicini, affermato fotografo di opere d’arte, di architettura e di archeologia. Sue sono le foto contenute in centinaia di pubblicazioni sui vari aspetti dell’arte e del collezionismo a Napoli, in volumi di opere d’arte destinati al mercato internazionale, in cataloghi e in enciclopedie. Dal 1984 ha iniziato l’archiviazione e l’informatizzazione di tutte le foto realizzate in anni e anni di attività specialistica, dando vita all’Archivio dell’arte, in cui oggi sono contenute più di 100.000 fotografie, fondamentale guida per editori e studiosi di tutto il mondo.

La terza generazione si apre prima con Marco e poi con Matteo, entrambi impregnati dell’arte di famiglia ma con brillanti intrecci, il primo con la musica e il secondo con il cinema.

La mostra più recente a cui hanno lavorato Luciano e il figlio Marco è “Metabolismo napoletano”, presentata presso l’Istituto Italiano di Cultura a Bruxelles nel Maggio del 2017 e da Giugno a Settembre 2018 a Napoli, presso le Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano.

Mi sono presa il privilegio di andare a respirare Bellezza nel loro studio al centro storico di Napoli, a due passi dal Duomo: mi ha avvolto l’atmosfera di un fuori dal mondo fatto di sobria eleganza e di affettuosa accoglienza, e la nostra chiacchierata è diventata un momento di prezioso arricchimento per la mia anima.

Pedicini particolare opera - luciana penninoFotografia Pedicini, particolare opera

Attraverso i vostri scatti del mondo dell’arte, studiosi e non, possono accostarsi al mondo della storia, della cultura e delle arti. Per molti, infatti, le fotografie sono la sola possibilità di conoscenza. Vi provoco: quanto siete meri documentaristi, dunque, e quanto interpreti, di ciò che fotografate?

Documentare: «corredare con documenti un’affermazione», ossia, nel nostro specifico lavorativo, riuscire a mostrare in tutta la sua complessità un’opera in modo che si possano certificare o meno le affermazioni degli storici. Per fare questo bisogna interpretare, ovvero «farsi portavoce dei sentimenti e delle idee dell’autore dell’opera». In conclusione documentare e interpretare possono essere sinonimi. Naturalmente poi, a seconda del fine della fotografia, l’interpretazione del fotografo può essere più o meno personalizzata, ma comunque è sempre presente. La fotografia deve apparire naturale, dissimulando gli innumerevoli artifizi che vi sono dietro. La “fatica” con cui il fotografo ha costruito la sua immagine in ogni minimo dettaglio non deve gravare su chi la osserva. (Luciano)

Le fotografie di “Metabolismo napoletano” sono immagini narranti: opere d’arte antiche accostate a quelle contemporanee, tutte appartenenti al territorio napoletano, che in un

racconto, lirico e visivo, si richiamano, quasi si sovrappongono, nonostante i secoli di distanza, e ci restituiscono una Napoli ricca di storia e di struggente bellezza in un senso di continuità con la Napoli che respira l’arte dei nostri giorni. L’effetto, per me, è mozzafiato! Come avete concepito questi “nessi ideali e metabolici”?

I punti cardine dell’intera mostra, come spesso accade, sono l’inizio e la conclusione (per quanto resti un finale aperto). Una volta individuato il filo da seguire, Germinale si è subito presentata davanti ai nostri occhi. Come un uovo che si schiude, il Tempio di Mercurio si apriva mostrando l’oculo sul soffitto della fermata Toledo e giù una fiumana di “abitanti del sottosuolo”… Non saprei nemmeno dire se sia l’idea della mostra ad aver dato luogo a Germinale o, al contrario, questa, spalancandosi, a spianare la strada per Metabolismo napoletano. Il seguito è stato un lavoro costruito “in sottotraccia”. Mentre svolgevamo altre campagne fotografiche avevamo fisso il pensiero del “metabolismo” (anche se non rispondeva ancora a questo nome) e alcuni scatti sono stati realizzati di soppiatto, per così dire, cogliendo di sorpresa noi stessi, come se quella scultura, quel mosaico o soltanto l’idea potesse volare via al sentirsi presa di mira. Molti nel vedere gli accostamenti ci hanno chiesto quale dei due scatti fosse nato prima. Giocando con le parole si può dire sia stato un continuo travisare, prendere sviste: puntavamo l’obbiettivo su un soggetto e nel mirino vedevamo l’altro. D’altronde era inevitabile procedere così; per essere accostate, le opere dovevano essere il frutto di una visione d’insieme, avere coerenza prospettica, cromatica e d’illuminazione, tant’è che ad alcune opere, che già avevamo fotografato in altre occasioni, siamo tornati a far visita per renderle appropriate allo scopo. Quando ci siamo trovati di fronte a Fratture composte abbiamo capito di essere alla chiusura del cerchio, una chiusura apparente a dirla tutta, come gli anelli magici degli illusionisti: c’è ancora tanto da metabolizzare. (Marco)

Pedicini-Germinale - luciana penninoFotografia Pedicini

Più confronti o più scontri? Più braccio di ferro o più abbracci? Più tensione o più sintonia? Per voi è difficile o facile, modulare il lavoro tra padre e figlio per ottenere i risultati migliori?

In quanto generazione di mezzo ho conosciuto le difficoltà e i vantaggi del lavorare insieme, prima da figlio e poi da padre. Credo sia più difficile la posizione di figlio, non tanto perché i padri talvolta hanno tendenze autoritarie, quanto perché le nuove generazioni hanno l’esigenza sacrosanta di costruirsi un’individualità artistica e, per quanto si possa credere il contrario, è più difficile quando si viene da una tradizione familiare. (Luciano)

Il lavoro di gruppo – se in due si è già un gruppo – è sempre frutto di compromessi; questi aumentano esponenzialmente se si tratta di un processo creativo; quando poi il gruppo è formato da padre e figlio allora il compromesso è atavico! Entrambi crediamo in questo lavoro e nell’arricchimento che può apportarvi il confronto generazionale, la capacità di dosare tradizione e innovazione è ciò che spesso conferisce spessore e durevolezza. In termini musicali si può parlare di una corretta alternanza di tensione e risoluzione e pensiamo di starci riuscendo abbastanza bene. Poi parallelamente ognuno di noi si ritaglia i propri spazi di ricerca individuale. (Marco)

Le tre generazioni iniziano con Rocco, un uomo audace, con una storia densissima di esperienze, di stimoli, di incontri felici. Qual è la traccia più profonda che vi ha lasciato nelle modalità di approccio a questo lavoro?

Marco e Matteo erano ancora troppo giovani quando mio padre è scomparso e purtroppo non hanno potuto ricevere, direttamente da lui, delle indicazioni su come affrontare la fotografia. Una delle peculiarità di mio padre era la curiosità scevra da pregiudizi e sovrastrutture verso persone e cose, una curiosità quasi infantile. È stata proprio questa curiosità che lo ha spinto verso la fotografia, arte e artigianato, profondamente intrisa di alchimia. L’altra lezione pregnante per me è stata quella del non prendersi mai troppo sul serio, pur facendo il proprio lavoro con il massimo impegno. A volte,

però, mi chiedo se non sia proprio questo atteggiamento “leggero” ad avergli impedito di ottenere i riconoscimenti che avrebbe meritato. (Luciano)

Non può non arrivare un’altra provocazione: la fotografia oggigiorno più diffusa, e abusata, è quella con i cellulari. Quali considerazioni vi vengono in mente a tal proposito?

Lo smartphone è soltanto un mezzo, come lo è una macchina fotografica. I parametri per giudicare la qualità di una fotografia non cambiano: composizione, punto di vista, luce. Sull’abuso che se ne fa per comunicare con gli amici o per ricordare qualcosa, il discorso è lungo e complesso, ma è più una questione sociolinguistica, culturale, che strettamente fotografica. La vista è il senso più sviluppato dell’uomo, uno strumento che ti consente di conservarne costantemente memoria è a dir poco seducente, forse il rischio è che, mentre si saturano le memorie dei computer, si svuoti la nostra capacità di ricordare e di immaginare oltre il visibile. (Marco)

Fotografare il patrimonio artistico di Napoli può far correre il rischio di proporre l’immagine oleografica e stereotipata della nostra città che ne distrugge la Bellezza. Quanto e cosa avete studiato per allontanarvi dai cliché, per cogliere il particolare, in senso lato e in senso fotografico, delle nostre ricchezze?

Studiare per non fare qualcosa probabilmente è già qualcosa da non fare. Per quanto il nostro sia un ambito di per sé lontano dalla superficie, i cliché esistono e sono sempre in agguato, c’è chi ci costruisce una carriera e chi li sfrutta per fini politici, difficilmente però alla base di una rappresentazione stereotipata c’è involontarietà. Non esiste una ricetta per evitarla, o forse questa stessa consapevolezza lo è: non dare mai niente per scontato. Ogni volta che ci troviamo con la macchina fotografica davanti a un nuovo soggetto, qualsiasi esso sia, è come trovarci naufraghi su un’isola sconosciuta; è il desiderio di conoscere, di esplorare, che ci guida. (Marco)

Luciano, tocca a te… In cosa vedi i tuoi figli altro da te e in cosa li vedi come “la tua fotografia”?!

È da quando ero ragazzo che ho sempre avuto una personalità decisa, pur non essendo mai fanatico delle mie convinzioni; mi incuriosiscono le identità diverse dalla mia e quindi anche verso i figli sono più portato ad apprezzarne le diversità piuttosto che le similitudini. Ad esempio con Marco sono attratto dal suo modo profondamente riflessivo di approcciarsi ai lavori mentre di Matteo guardo con interesse la sua capacità di lavorare in gruppo e le peculiarità differenti del fare fotografia per il cinema. In entrambi comunque riconosco la stessa passione per la fotografia, la stessa caparbietà nella ricerca dell’immagine che ‘volevi ottenere’, la stessa inquietudine che mi accompagna da quarant’anni e più.

E ora a Marco… 30 anni, una laurea in Lettere Moderne, soddisfazioni in campo musicale come compositore e chitarrista, progetti condivisi con tuo fratello in ambito cinematografico e tanto lavoro come fotografo d’arte: qual è il fil rouge che collega ciò che hai fatto e verosimilmente ciò che farai?

Non è facile dirlo, forse non spetta a me, però nemmeno posso fare scena muta. Direi il gusto per il dettaglio, che spesso è anche una condanna (sic!). Quando mi dedico a un progetto mi piace partire da un elemento minimo, che sia un suono, un particolare di una scultura, una riflessione marginale, farne il calco e poi limare allo sfinimento per arrivare di nuovo a quella forma originaria. Detta in altre parole sono un maledetto pignolo.

Napoli: una città che vi dona i suoi beni per foto di una potenza evocativa straordinaria… Qual è, secondo voi, la cosa che più manca a Napoli per vivere meglio, o bene?

Certe volte mi meraviglio di come possa funzionare il “meccanismo napoletano”. In ogni ambito c’è un’elasticità che permette di superare (quasi) sempre l’infinità di ostacoli che si pongono davanti. Quotidianamente ci si arrangia, si abbozza, vige la filosofia del “nun da’ retta”, accompagnata – bisogna riconoscerlo – da una fervida autoironia ad addolcire il boccone, ma è proprio questa indulgenza che lascia scorrere in sottofondo anche tutto il marcio. Si ha la sensazione che per i napoletani non esista un “vivere meglio”, un’alternativa. È un po’ distruttivo, mi rendo conto, ma quello che manca a Napoli, in effetti, è proprio il sogno di una Napoli migliore. (Marco)

Intervista di Luciana Pennino

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