Mostre per aprile

Ciao, con aprile inizia la stagione dei festival di fotografia e nuove imperdibili mostre vi aspettano. Non mancate!

Anna

diane arbus: in the beginning

Diane Arbus. Jack Dracula at a bar, New London, Conn. 1961.

Diane Arbus made most of her photographs in New York City, where she was born and died, and where she worked in locations such as Times Square, the Lower East Side and Coney Island. Her photographs of children and eccentrics, couples and circus performers, female impersonators and midtown shoppers, are among the most intimate, surprising and haunting works of art of the twentieth century.

Organised by The Metropolitan Museum of Art, New York and adapted for Hayward Gallery, diane arbus: in the beginning takes an in-depth look at the formative first half of Arbus’ career, during which the photographer developed the direct, psychologically acute style for which she later became so widely celebrated.

The exhibition features more than 100 photographs, the majority of which are vintage prints made by the artist, drawn from the Diane Arbus Archive at The Metropolitan Museum of Art, New York. More than two-thirds of these photographs have never been seen before in the UK.

Tracing the development of Arbus’ early work with a 35mm camera to the distinctive square format she began using in 1962, the exhibition concludes with a presentation of A box of ten photographs, the portfolio Arbus produced in 1970 and 1971, comprising legendary portraits including Identical twins, Roselle, N.J. 1967 and A Jewish giant at home with his parents in the Bronx, N.Y. 1970.

13 FEB – 6 MAY 2019 Hayward Gallery – London

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Alex Majoli Scene

Europe, Asia, Brazil, Congo. For eight years, across continents and countries, Alex Majoli has photographed events and non-events. Political demonstrations, humanitarian emergencies and quiet moments of daily life. What holds all these disparate images together, at first glance at least, is the quality of light and the sense of human theatre. A sense that we are all actors attempting, failing and resisting the playing of parts that history and circumstance demand; and a sense that we are all interconnected. Somehow. Majoli’s photographs result from his own performance. Entering a situation, he and his assistants slowly go about setting up a camera and lights. This activity is a kind of spectacle in itself, observed by those who may eventually be photographed. Majoli begins to shoot, offering no direction to people who happen to be in their own lives before his camera. This might last twenty minutes, or even an hour or more. Sometimes the people adjust their actions in anticipation of an image to come, refining their gestures in self-consciousness. Sometimes they are too preoccupied with the intensity of their own lives to even notice. Either way, the representation of drama and the drama of representation become one.

˝We must not derive realism as such from particular existing works, but we shall use every means, old and new, tried and untried, derived from art and derived from other sources, to render reality to men in a form they can master […]. Our concept of realism must be wide and political, sovereign over all conventions.˝ — Bertolt Brecht

Most of Alex Majoli’s photographs were made during daylight, and he could have easily photographed his scenes with no additional illumination. Flash was not a matter of necessity; it was a choice, an interpretive, responsive choice. Alex Majoli uses very strong flash lighting. It is instantaneous and much brighter than daylight. It illuminates what is near but plunges the surroundings into darkness, or something resembling moonlight. Spaces appear as dimly lit stages and, regardless of the ambient light that exists, everything seems to be happening at the sunless end of the day. Alex Majoli’s approach to image making constitutes a profound reflection upon the conditions of theatricality that are implicit in both photography and a world we have come to understand as something that is always potentially photographable. If the world is expecting to be photographed, it exists in a perpetual state of potential theatre. In photographs we do not see people, we see people who have fulfilled their potential to be photographed. People in photographs strike us as both actual and fictional at the same time. Actual in that their presence before the camera has been recorded; fictional in that the camera has created a scenic extract from an unknowable drama. The illusionism of photography is inseparable from the contemplation of its illusion. This does not negate the documentary potential of the image although it does imply that documentary itself ought to accept the theatricality of its own premise. His images do this not by resolving the tensions between artwork and document but by dramatizing them, making them thinkable in the midst of our pictorial and documentary encounter with the contemporary world. – David Campany

February 22 – April 28, 2019 – Le Bal – Paris

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Le mostre dell’Italian Street Photo Festival

Durante la seconda edizione dellItalian Street Photo Festival, che si terrà a Roma dal 26 al 28 aprile, si avrà la possibilità di visitare tre mostre dedicate interamente alla Street Photography.

Nikos Economopoulos è nato nel Peloponneso, in Grecia. Ha studiato legge a Parma, in Italia, e ha lavorato come giornalista. Nel 1988 ha iniziato a fotografare in Grecia e in Turchia e alla fine ha abbandonato il giornalismo per dedicarsi alla fotografia. È entrato in Magnum nel 1990 e le sue fotografie hanno iniziato ad apparire su giornali e riviste in tutto il mondo. Nello stesso periodo, ha iniziato a viaggiare e fotografare molto nei Balcani.

Pau Buscató è un fotografo di Barcellona, ​​con sede in Norvegia dal 2009 (prima Bergen, Oslo ora). Dopo aver studiato e lavorato nel campo dell’architettura per molti anni, alla fine ha lasciato il 2014 per dedicarsi esclusivamente alla fotografia di strada. È membro del collettivo internazionale Burn My Eye dal 2017. Dopo un avvio lento nel 2012, Pau ha iniziato a lavorare a tempo pieno in Street Photography nel 2014

La terza mostra vedrà esposte le immagine dei finalisti dei concorsi indetto in occasione del festival.

26-28 aprile 2019 – Officine Fotografiche – Roma

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Le mostre di Fotografia Europea 2019

Torna a Reggio Emilia Fotografia Europea. La XIV edizione – che quest anno seguirà il tema Legami – si svolgerà dal 12 aprile al 9 giugno 2019 con mostre, conferenze, spettacoli e workshop.

Tra le mostre del circuito principale vi segnaliamo, fra le altre Horst P. Horst a Palazzo Magnani, Larry Fink a Palazzo Da Mosto, Vincenzo Castella alla Sinagoga. Tornano le mostre ai Chiostri di San Pietro dove saranno ospitate diversee mostre a tema Giappone, il paese ospite di quest’edizione di Fotografia Europea. Tema che verrà declinato con mostre di autori giapponesi emergenti, ma anche con progetti di autori europei o asiatici.

Dal 12 aprile al 9 giugno – Reggio Emilia, sedi varie

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Charlie surfs on lotus flowers – Simone Sapienza

Spazio Labo’ presenta la mostra Charlie surfs on lotus flowers di Simone Sapienza, progetto espositivo che nasce dall’omonimo libro edito nel 2018 da AKINA.
Affascinato dalle contraddizioni delle conseguenze della guerra in Vietnam, un paese che si trova in un limbo tra l’economia capitalista di libero mercato e le rigide leggi del Partito Comunista, Simone Sapienza ha intrapreso un viaggio personale in una delle nazioni che più hanno influenzato la storia del secondo Novecento.
Charlie surfs on lotus flowers è un ritratto del Vietnam attuale tra memorie di occupazione, tracce di comunismo e desiderio di consumismo.
Circa quarant’anni dopo la vittoria dei Vietcong contro l’America, il Vietnam ha oggi cambiato radicalmente sogni e ambizioni. Resa forte da una popolazione giovanissima e da una nuova generazione piena di energia, l’economia del Vietnam detiene uno tra i più alti tassi di crescita al mondo. Tuttavia, dietro questa illusoria libertà di mercato, il governo comunista detiene ancora il potere politico assoluto. Partendo da una profonda fase di ricerca a livello storico, il progetto è una documentazione metaforica della società vietnamita contemporanea, con un’attenzione particolare su Saigon, ultima città conquistata dai Vietcong ed oggi motore dell’economia nazionale.

Dopo tutta quella fatica ad allontanare l’Occidente e a difendere l’uguaglianza, ci si è finalmente conquistati la libertà di essere diversi gli uni dagli altri, proprio come lo sono tutti là fuori. Oggi il Vietnam è un paese giovanissimo fatto di led e di plexiglas, una delle future tigri asiatiche che, a turno, ricordano al mondo quanto tempo ha perso per cercare di cambiarle, e quanto tempo perde adesso a rincorrerle. E mentre tutti si sorbiscono la globalizzazione e il neoliberismo facendo finta che siano una scelta, lì la storia viene imposta dal Partito Comunista nazionale con sincero totalitarismo: privatizzazioni e libero mercato, meno tasse e più sorrisi. […] La globalizzazione, a quanto pare, comincia proprio a metà degli anni settanta, quando gli Stati Uniti, uscendosene dallo scenario vietnamita, consacrano questa nuova, grande, fantastica strategia: combattere il fuoco con il fuoco non serve e niente. L’ideologia non si batte con l’ideologia, e soprattutto la resistenza non si batte resistendo. Al potere basta l’economia. E una manciata di immagini.
Dal testo critico di Roberto Boccaccino.

4 aprile – 24 maggio 2019 – Spazio Labò – Bologna

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Lisetta Carmi – Da Genova verso il resto del mondo

Il CIFA, Centro Italiano della Fotografia d’Autore, ente nato per volontà della FIAF – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, associazione senza fini di lucro che si prefigge lo scopo di divulgare e sostenere la fotografia su tutto il territorio nazionale, presenta la nuova mostra retrospettiva “Lisetta Carmi – Da Genova verso il resto del mondo” che si terrà al CIFA da sabato 30 marzo a domenica 2 giugno 2019 (Via delle Monache 2, Bibbiena, AR). Inaugurazione prevista per il 30 marzo a partire dalle ore 16.30.

Il percorso espositivo è suddiviso in 11 temi che partono dal racconto del porto e dei travestiti di Genova, passando per Israele, la Sardegna, Parigi, il Venezuela, l’Afghanistan, l’Irlanda, l’India e la Sicilia. L’occhio fotografico della Carmi si posa su particolari significativi e l’autrice riesce a sintetizzare in poche immagini l’atmosfera di un luogo. Tra questi reportage sono stati inseriti due ritratti del poeta americano Ezra Pound: in breve tempo e con pochi scatti, riesce a cogliere l’essenza più profonda del personaggio, compiendo un capolavoro di introspezione psicologica che verrà premiato nel 1966 con il “Premio Niépce per l’Italia”.

Se si esclude il lavoro sulla metropolitana di Parigi dove le persone perdono la propria riconoscibile identità per diventare massa in movimento che percorre spazi artificiali e disumanizzanti, sono sempre le persone ad attrarre la sua attenzione. Attraverso di loro riesce a darci un’immagine della loro vita e dei luoghi che abitano.

Nella serie sull’India la figura del protagonista è affidata al suo maestro, Babaji, ritratto in immagini particolarmente evocative della spiritualità che emana dai suoi atteggiamenti, ma in tutti gli altri casi è un’umanità ai margini del mondo industriale e postindustriale contemporaneo che popola le fotografie di Lisetta.

In molti suoi servizi, a cominciare dal quello sui travestiti, compaiono i bambini, che con la loro naturale innocenza superano ogni pregiudizio. Lì però non sono i protagonisti come in quello su Israele dove i bimbi ebrei e palestinesi ci fissano con sguardi che rendono difficilmente condivisibili le ragioni degli scontri tra i due popoli. O quello sull’Irlanda del Nord: vederli giocare tra le macerie fisiche e morali provocate da una lotta fratricida, da una parte stempera la drammaticità degli avvenimenti, dall’altra ci conferma tutto l’orrore che suscita la violenza. I bambini che appaiono in misura più o meno rilevante in ogni tema, assumono il ruolo di mediatori tra la realtà contradditoria e spesso drammatica del presente, e la speranza verso un futuro migliore.

Lisetta Carmi ha realizzato i suoi lavori fotografici nell’arco di 18 anni; poi la sua vita cambia completamente grazie all’incontro con il maestro indiano Babaji, e nell’ultima parte si ritira a Cisternino. Lisetta vive di spiritualità in modo spartano e senza i moderni mezzi di comunicazione come il computer e Internet. Vicino a casa sua però c’è un edicolante che non solo espone i suoi libri, ma le fa anche da tramite con il resto del mondo ricevendo la posta elettronica a lei indirizzata e inviando le sue risposte. Anche se distante dal mondo, vuole continuare a capirlo.

30 marzo – 2 giugno 2019 – CIFA, Centro Italiano della Fotografia d’Autore, Bibbiena

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Alessandra Calò – Kochan

Kochan è il nome del progetto fotografico che Alessandra inizia nel 2016 quando scopre che la New York Public Library aveva messo online una buona parte dei suoi documenti d’archivio.

Trascorre giorni interi tra carte geografiche, manoscritti e lettere. Ma è dalle mappe che viene attratta e, accompagnata dai loro segni e dalle loro tracce, decide di affiancarle ad una serie di autoritratti.

“Kochan” è un nome: quello del protagonista di “Confessioni di una maschera” (Yukio Mishima, 1949). Una sorta di diario di viaggio, che accompagna il lettore alla scoperta di frammenti di vita e identità del protagonista.

In questo elegantissimo e intenso “viaggio” personale ma universale,  dove mappe e materiali d’archivio si sovrappongono ad aree del corpo e viceversa, Alessandra Calò registra implacabile stati d’animo, fantasie, turbamenti, dolori e gioie che si susseguono dietro il percorso a prove ed errori, della ricerca di noi stessi e lo fa con un impegno talmente minuzioso e sincero da provocare in chi guarda le sue immagini quasi la sensazione di una profanazione, come se ci spingesse nel luoghi più reconditi e privati.

Partendo da riflessioni sul concetto di identità, in questo progetto anche lei, come Kochan, ha cercato di immaginare il viaggio che ogni persona compie per scoprire e affermare se stesso, considerando il corpo come fosse territorio da esplorare.

Un percorso indubbiamente non semplice: “Ho voluto paragonare il corpo a un territorio da esplorare, come in un viaggio dove la mappa non possiede coordinate – spiega la Calò – In questo progetto fotografico ho sovrapposto immagini e documenti d’archivio e, per la prima volta, ho deciso di inserire un elemento umano contemporaneo. In particolare mi sono posta di fronte alla macchina fotografica, scegliendo di rendere la mia identità – fisica e intellettuale – soggetto di questa ricerca”.

La sua raffinatezza e delicatezza visiva sono molto somiglianti al modo con cui Mishima, con parole di assoluta bellezza, narrava dell’amore e del desiderio, del corpo e dell’anima, indicando quanto sia profondamente doloroso lottare con se stessi alla ricerca di una propria identità.

Dall’8 aprile al 1 giugno – Galleria VisionQuesT 4rosso – Genova

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Vincenzo Castella –  Milano

“Vincenzo Castella ritrae il mondo non come somma di forme, linguaggi e oggetti ma come correlazione di spazi privati e collettivi della nostra società”. Frank Boehm

Dal 27 febbraio al 27 aprile 2019, BUILDING presenta Milano, mostra personale di Vincenzo Castella, a cura di Frank Boehm. La mostra – che si compone di trenta opera di medio e grande formato, oltre cento immagini inedite del lavoro sulla costruzione dello stadio di San Siro e tre proiezioni video – vuole essere un’antologia inedita sul lavoro svolto da Vincenzo Castella a Milano. Artista riconosciuto a livello internazionale, la produzione di Castella si colloca principalmente nell’ambito della fotografia di paesaggio, inteso come contesto costruito dall’uomo e ambiente scenico proprio delle città. Il titolo della mostra è significativo, chiara intenzione di un tributo alla città protagonista dell’esposizione e filo conduttore di una produzione che compare nella ricerca di Vincenzo Castella già dalla fine degli anni ottanta. Milano è per l’artista città d’adozione, attuale residenza, il luogo dove la ricerca sulla città ha il suo inizio. Il progetto espositivo è costruito attraverso immagini di grande formato, caratteristiche della produzione di Castella, organizzate dal curatore Frank Boehm in tre sezioni: Rinascimento, Contesto Urbano e Natura. La mostra si apre con le vedute di interni rinascimentali milanesi, chiese, angoli e mura sacre fra i più noti, come il Cenacolo vinciano e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, che costituiscono la parte più recente della produzione dell’artista. Gli spazi del primo e del secondo piano ospitano gli scatti sul contesto urbano di Milano, con un approfondimento sulla costruzione dello stadio di San Siro, serie del 1989 da cui successivamente prende forma e si sviluppa la produzione artistica legata agli spazi urbani. Al terzo piano il tema è legato alla natura: Castella non cerca una natura paesaggistica, ma guarda a una natura interna, mediterranea e tropicale, collezionata e adattata all’altezza di una architettura che la ospita, sviluppata attraverso l’educazione umana. Un’attenzione che inizia per l’artista nel 2008 e che tutt’oggi prosegue come tensione per un’ipotesi di nuove riflessioni.

La rappresentazione e così l’analisi della città si compongono dall’esperienza di ambienti così diversi tra di loro, legati concettualmente da un approccio di straniamento: mentre tutte le foto ritraggono luoghi quotidiani ed accessibili, ripresi da punti di vista terrestri – l’artista e lo spettatore fanno sempre parte dello stesso spazio, interno all’architettura, interno alla metropoli – le immagini sono tutt’altro che comuni. La misura della distanza crea una sensazione di straniamento, un nuovo punto di vista. La realizzazione delle stampe di grande formato, sui cui l’artista è solito lavorare, richiede grande impegno e tempi lunghi nella preparazione dell’opera finale. Questo approccio di lavoro fa sì che la produzione delle immagini di Vincenzo Castella si distribuisca nel tempo in modo rarefatto, con opere di una cura e una qualità del dettaglio estremi.

Dal 27 febbraio al 27 aprile – Building – Milano

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Tina Modotti fotografa e rivoluzionaria

Sessanta immagini, tra le più importanti ed evocative del percorso umano, politico e artistico di Tina Modotti. In particolare, brillano all’interno della mostra i capolavori scattati durante gli anni messicani, periodo maggiormente fecondo e appassionato dell’attività della Modotti. 
La mostra ricostruisce in maniera il più possibile documentata la sua straordinaria vicenda artistica come la sua non comune vicenda umana che la rese protagonista in quegli anni in Messico, Russia, Spagna, Germania.
Nata a Udine alla fine dell’Ottocento, Tina Modotti è stata un esempio straordinario di donna e di fotografa profondamente impegnata nella società. Attrice, modella, rivoluzionaria, fotografa: donna audace e scandalosa, dal fascino esotico, emigrata per inseguire la carriera di attrice a Hollywood, trova la fotografia e l’amore con Edward Weston; insieme saranno in Messico dove scopre un intero paese, la sua vera vocazione di fotografa e di rivoluzionaria. 
La carriera fotografica di Tina Modotti è breve, ma articolata. Da una prima fase “romantica”, come venne definita da Manuel Alvarez Bravo, in cui si dedica alla natura, passa a una fase decisamente più rivoluzionaria in cui racconta la vita e il lavoro: la fotografia diventa allora un mezzo per le sue denunce sociali. Frequenta i più importanti artisti e intellettuali messicani e americani, da Frida Kahlo a Dos Passos, ai pittori muralisti; coltiva la sua passione e il suo impegno politico al punto di utilizzare il mezzo fotografico come strumento della sua militanza, pubblicando per riviste di partito. Bandita dal suo paese d’adozione in seguito a una accusa di tentato omicidio, Tina torna in Europa, vive nella Russia Sovietica, si occupa di rifugiati e perseguitati politici. Infine si unisce alle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola dove incontra e frequenta personaggi del calibro di Capa, Hemingway, Malraux. Al suo ritorno in Messico, sotto pseudonimo, insieme al suo compagno nella vita e nella lotta politica, Vittorio Vidali, conduce una difficile vita da clandestina. Muore in circostanze misteriose il 5 gennaio 1942. Neruda scriverà una poesia dedicata a lei, i cui primi versi saranno l’epitaffio scolpito sulla sua lapide,

13 aprile – 1 settembre 2019 –
Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, Palazzo Bisaccioni, Jesi (AN)

Thomas Struth

La Fondazione MAST presenta una selezione di grandi fotografie a colori realizzate da Thomas Struth a partire dal 2007 in siti industriali e centri di ricerca di tutto il mondo, che rappresentano l’avanguardia della sperimentazione e dell’innovazione tecnologica. Artista tra i più noti della scena internazionale, Struth, nelle 25 immagini di grande formato esposte nella PhotoGallery di MAST, ci mostra luoghi solitamente inaccessibili, offrendoci uno spaccato del mondo che si cela dietro la tecnologia avanzata.

Laboratori di ricerca spaziale, impianti nucleari, sale operatorie, piattaforme di perforazione sono fotografati con minuziosa attenzione, distaccata curiosità e una spiccata sensibilità estetica. L’artista punta l’attenzione sulle macchine in quanto strumenti di trasformazione della società contemporanea e ci mostra una serie di sperimentazioni scientifiche e ipertecnologiche, di nuovi sviluppi, ricerche, misurazioni e interventi che in un momento imprecisato, nel presente o nel futuro, in modo diretto oppure mediato, faranno irruzione nella nostra vita e ne muteranno il corso. Attraverso queste opere siamo in grado di percepire tutta la complessità, la portata, la forza dei processi, ma anche di intuire il potere, la politica della conoscenza e del commercio che essi celano.

Su un versante tematico diverso, al livello 0 della Gallery, nella videoinstallazione Read This Like Seeing It For The First Time (Leggilo come se lo vedessi per la prima volta) del 2003, l’artista rappresenta il lavoro umano, la capacità propria dell’uomo di operare con la massima precisione manuale e artistica. Il video, che registra cinque lezioni di chitarra classica svolte da Frank Bungarten nell’Accademia musicale di Lucerna, illustra l’interazione puntuale tra insegnante e studenti, lo scambio necessario tra insegnamento e apprendimento, tra il dare e il ricevere.

2 febbraio  – 22 aprile – MAST Bologna

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Il colore e la geometria dell’anima – Franco Fontana

Si inaugura il prossimo 9 aprile alle ore 17.30 questa splendida retrospettiva sul lavoro di Franco Fontana, uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea.
Direttore artistico: Giovanni Gastel
Curatrice: Maria Cristina Brandini

9 – 28 aprile – Broletto – Como

Birgit Jürgenssen Io sono.

Io sono. è la prima grande retrospettiva che un’istituzione museale italiana dedica a Birgit Jürgenssen (Vienna, 1949-2003), tra le più importanti e sofisticate interpreti delle istanze del suo tempo.

La GAMeC rende omaggio a questa straordinaria e ancora poco valorizzata artista ospitando un progetto espositivo, a cura di Natascha Burger e Nicole Fritz, nato in stretta collaborazione con Estate Birgit Jürgenssen, Kunsthalle Tübingen (Germania) e Louisiana Museum of Modern Art di Humlebæk (Danimarca). Birgit Jürgenssen ha attinto ai linguaggi del Surrealismo per trattare convenzioni sociali, sessualità, canoni di bellezza e rapporti tra i sessi con un linguaggio ironico e un umorismo sovversivo che ha spesso coinvolto l’immagine dell’artista stessa. Il corpo messo in scena non è mai ostentatamente esibito, quanto piuttosto celato e poi svelato attraverso l’uso di maschere, inserti, materiali naturali, quasi delle estensioni, o protesi, utili a scandagliare le profondità psicologiche ed emotive del femminile. Articolata in sei sezioni, Io sono. offre uno spaccato esaustivo sulla produzione dell’artista austriaca attraverso oltre 150 lavori realizzati in quarant’anni di ricerca, tra disegni, collage, sculture, fotografie, rayogrammi, gouache e cianotipie. Il percorso espositivo occupa tutte le sale della Galleria, dai disegni dell’infanzia, firmati “BICASSO”, ai lavori più maturi, di grande formato, passando attraverso i giochi linguistici e letterari, che raccontano la contaminazione tra narrazione e rappresentazione, fino a focalizzarsi, nella parte centrale, sui due grandi temi che contraddistinguono la ricerca dell’artista: il genere e la natura. In origine Birgit Jürgenssen intendeva soprattutto mostrare e contestare “i pregiudizi e i modelli di comportamento a cui sono soggette le donne all’interno della società”. Per farlo adottò un’ironia pungente, giocando con i diversi concetti di identità. L’abitazione privata, vista come luogo deputato alle funzioni femminili, diviene, nelle sue opere, un luogo di costrizione, e oggetti quotidiani come scarpe, abiti e fornelli vengono presentati in maniera enigmatica o sarcastica. L’artista interroga e decostruisce, così, il mito del potere e del desiderio degli uomini senza cadere nella trappola di un dualismo semplificato, estendendo la sua riflessione a tutti i modelli di genere, sia maschili sia femminili, codificati dalla società. Ma sin dagli anni Settanta il suo pensiero si evolve, aprendosi a nuove considerazioni sulla natura profonda dell’uomo e sul rapporto natura-cultura. Queste tematiche, fino ad ora messe in secondo piano nel racconto dell’esperienza dell’artista, trovano ampia descrizione all’interno della mostra. Lo Strutturalismo, la Psicanalisi e l’Etnologia hanno infatti stimolato Birgit Jürgenssen a interrogarsi sulla dialettica tra componente animale, istintuale, e identità femminile, e sulla svalutazione e il feticismo dell’oggetto. Il “pensiero selvaggio” di Jürgenssen la spinge a tracciare sul proprio corpo le relazioni tra uomo e animale. In questo processo l’artista dà vita a creature ibride, in cui l’animale è ancorato, innestato all’interno dell’essere umano, secondo un sistema di relazioni fluide. Lo stesso accade con gli elementi vegetali, attraverso una serie di lavori che mettono in discussione la visione antropocentrica più comune, promuovendo un punto di vista sistemico attorno ai processi del vivente. Ciò che trova espressione nei lavori dell’artista sono corpi percepiti non come forme, ma come “formazioni”, organismi viventi che promuovono una sensibilità ecologica “profonda”, un’attenzione per il valore intrinseco delle specie, dei sistemi e dei processi naturali. L’opera di Birgit Jürgenssen assume un nuovo significato nel nostro presente: in un momento storico in cui assistiamo alla rimessa in discussione di principi e diritti fondamentali e a una progressiva banalizzazione delle questioni legate al femminile e, più in generale, all’identità di genere, il suo approccio non rigidamente ideologico ma più radicato nella sfera individuale e intima infonde nuova concretezza al potere emancipatorio dell’arte.

7 MARZO – 19 MAGGIO 2019 – GAMEC  Bergamo

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Love by Leica

La mostra sarà visitabile presso la Leica Galerie Milano (via Mengoni 4) dal 19 marzo al 30 aprile 2019. 
Nobuyoshi Araki ( Tokyo, 1940 ) è indiscutibilmente tra i fotografi più radicali e influenti del nostro tempo. La sua opera è stata eccezionalmente produttiva e innovativa ed è considerato una figura di riferimento nella sfera dell’arte contemporanea, ben oltre l’ambito della fotografia. Le 48 fotografie della serie Love by Leica, ora presentate alla Leica Galerie di Milano, formano una delle sue opere più emozionanti.
Con le sue foto di bondage, Araki ha sviluppato una scrittura visiva unica, creando un ritratto poetico e provocatorio di passione umana che punta oltre la cultura giapponese. Ha inventato il concetto di “ego fotografico”, a significare l’intrigante interazione tra finzione, realtà e desiderio.
Capolavoro della mostra è la serie Love by Leica (2006), una densa collezione di ritratti femminili e nudi in bianco e nero, che Araki ha fotografato con la Leica M7 a pellicola. I suoi studi controversi e intimi sui corpi delle donne, influenzati dall’iconografia erotica del periodo Edo (un tempo di pace e prosperità in Giappone, 1603-1868), nonché dall’estetica lucida del mondo della pubblicità e dei mass media, lo hanno reso celebre a livello internazionale e sono una delle sue tematiche più ricorrenti del suo universo artistico.

al 19 marzo al 30 aprile 2019 – Leica Galerie – Milano

Love, Ren Hang

Late iconic photographer Ren Hang is currently being honored with a dynamic solo presentation at The Maison Européenne de la Photographie in Paris. The Beijing-based artist took his own life in 2017 after suffering from cyclical depression.

The exhibition titled, “Love, Ren Hang,” will showcase over 150 archival photographs by Hang. These images offer a raw view of the late photographer’s visually moving practice spanning portraits of his mother, provocative snapshots of his close friends and photographs of nightlife in China. His prolific works have served as a form of commentary, touching on topics of self-identity and sexual freedom. In addition, the show also aims to highlight Hang’s overlooked poetry that is a major influence on his photographic work.

06.03.2019 – 26.05.2019 – Maison Européenne de la Photographie – Paris

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Skin ProjectSilvia Alessi

SpazioRaw in collaborazione con il Bìfoto Festival della Fotografia in Sardegna, propone il lavoro di Silvia Alessi, realizzato in India nel 2017.

La mostra viene presentata a Milano e inserita in programma all’edizione 2019 del Festival di Fotografia in Sardegna.

Skin Project è il racconto per immagini della pelle in India, realizzato nel 2017 a Delhi, Agra, Bhopal e Mumbai.

Il progetto nasce quando casualmente viene vista su Instagram una fotografia di una ragazzina albina, di nome Namira, in un treno suburbano di Mumbai. Da qui l’idea di ritrarre diverse donne colpite dall’acido con una ragazza albina.

Gli albini possiedono un grande fascino visivo, una bellezza particolare, però in molti paesi sono emarginati, vittime di pregiudizi e di scherno, a causa della loro pelle, e non sono facili da avvicinare. Sono timidi e diffidenti, le donne sono tormentate dalla paura di non riuscire a sposarsi. Questo destino di emarginazione colpisce anche le donne vittime di una forma di violenza particolarmente odiosa, molto diffusa nella subcultura indiana: l’attacco con l’acido.

27 aprile – 16 maggio 2019 – spazioRAW – Milano

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Dennis Hopper, Photography

ONO arte è lieta di presentare la mostra “Dennis Hopper, Photography” che ripercorre il lavoro fotografico di uno degli attori più amati e controversi della storia del cinema. Dennis Hopper è stato uno dei simboli della cultura hippie e della controcultura americana insieme ad altri personaggi come Peter Fonda e Jane Fonda. Uomo pieno di contraddizioni Hopper non ha mai fatto mistero di essere un sostenitore repubblicano, almeno fino a quando Barack Obama si è presentato sulla scena politica. Hopper è stato quello che si definisce artista prolifico, poliedrico e infaticabile. E lo è stato fino alla fine dei suoi giorni. Non si è contenuto nemmeno nella vita privata sposandosi 5 volte. Una di queste, con la cantante dei Mamas and Papas Michelle Phillips, anche se il matrimonio è durato pochi giorni. Hopper esordisce con James Dean in Gioventù bruciata ma è con Easy Rider, di cui è stato anche regista, che diventa icona mondiale della ribellione giovanile. Personaggio caratterialmente difficile, la sua carriera è stata scomoda come i personaggi da lui interpretati. La sua ricerca non poteva fermarsi al cinema e ad una sola esperienza artistica. Già negli anni 60, con una macchina fotografica ricevuta in regalo dalla prima moglie, Hopper inizia a scattare foto a persone e a paesaggi, come quelle di Taos, New Mexico, il luogo dove Hopper si stabilisce al temine della realizzazione di Easy Rider e dove riposano le sue spoglie. Peculiarità di Hopper era quella di usare anche macchine molto economiche e di sviluppare le pellicole con gli strumenti non professionali che si trovavano nei drugstore dove spesso si fermava quando era on the road, magari di passaggio per arrivare in Kansas dove era nato. Le fotografie di Hopper raccontano l’America vista attraverso lo sguardo di uno dei suoi figli più illustri e controversi. Il suo occhio ha sempre cercato di catturare i cambiamenti socio-culturali di un paese di frontiera mostrandoci paesaggi e personaggi come in un film mai girato. La mostra (28 febbraio – 28 aprile) si compone di 30 scatti, è realizzata in collaborazione con Solares Fondazione delle Arti, ed è in contemporanea con la mostra “Marilyn and The Misfits”. Ingresso libero

28 febbraio – 28 aprile – Ono Arte Contemporanea – Bologna

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Marilyn Monroe & The Misfits

ONO arte è lieta di presentare la mostra “Marilyn Monroe & The Misfits” che racconta attraverso le fotografie e la memoria di Ernst Haas, fotografo di scena accreditato, sia il making che il dietro le quinte di uno dei film più importanti della seconda metà del secolo scorso, Gli spostati, appunto come fu tradotto in italiano il film diretto di John Huston uscito in Italia nel 1961. The Misfits racchiude in sè tutti gli elementi che contribuiscono a rendere una pellicola eterna. John Huston, maestro del cinema d’oro americano, dirige un cast composto da Clark Gable, una delle leggende di Hollywood alla sua ultima apparizione proprio sul set di The Misfits, Montgomery Clift, altra leggenda che ben presto finirà nella lista dei dannati di Hollywood, e Marilyn Monroe che recita in quello che sarà l’ultimo film completo. A tessere le fila Arthur Miller, scrittore e sceneggiatore americano, dal 1956 secondo marito della Monroe, e autore di alcuni capolavori della letteratura e del teatro americano, tra cui Morte di un commesso viaggiatore. Miller scrive la sceneggiatura e la regala alla moglie nel 1960 per celebrare San Valentino. Quando iniziano le riprese i due sono in realtà oramai vicini al divorzio che verrà firmato nel novembre del 1960. La sceneggiatura scritta da Miller per la moglie narra di una donna ingenua e insicura che, da poco separatasi dal marito, conosce due uomini, Clark Gable e Montgomery Clift, con i quali stringe amicizia. Marilyn in quel periodo aveva avuto già alcuni ricoveri e frequentava uno psichiatra di Los Angeles che aveva notato l’eccessivo utilizzo di psicofarmaci da parte dell’attrice. Durante le riprese nel deserto del Nevada infatti Marilyn arrivava sul set con ritardi eccessivi costringendo gli altri attori ad attese snervanti. Clark Gable morì pochi giorni dopo la fine delle riprese e la moglie attribuì il decesso del marito, già malato di cuore, proprio a questo. Pur non essendo stato un successo commerciale The Misfits è diventato un instant classic del cinema mondiale. Arthur Miller lo definì invece il punto più basso della sua carriera. Con il compenso del film acquistò un ranch nel quale sarebbe poi morto nel 2005. Straordinarie le scene con i cavalli selvaggi fotografate da Ernst Haas. La mostra (28 febbraio – 28 aprile) si compone di 15 scatti ed è in contemporanea con la mostra “Dennis Hopper, Photography”. Ingresso libero.

28 febbraio – 28 aprile – Ono Arte Contemporanea – Bologna

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CAPIRE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

L’idea centrale della mostra è che la Terra non morirà.
Soffrirà, cambierà, muterà, ma non scomparirà. 
A scomparire potrebbero essere le condizioni per la vita umana.
La temperatura della Terra è aumentata di oltre un grado Celsius nell’ultimo secolo, il 2018 è stato il quarto anno più caldo della storia a livello globale e il primo anno più caldo in Italia, Francia e Svizzera. Capire le cause e conoscere gli effetti del riscaldamento globale è un passo fondamentale per contrastare questa tendenza e cambiare il corso del nostro futuro. In mostra, oltre 300 scatti fotografici realizzati da grandi maestri della fotografia del National Geographic, raccontano la profonda trasformazione del Pianeta causata dal riscaldamento globale: dalla fusione dei ghiacci perenni che si riducono oltre 400 miliardi di tonnellate ogni anno, ai fenomeni meteorologici estremi come le ondate di caldo senza precedenti o l’incremento di tempeste e uragani, dall’aumento di periodi di intensa siccità all’aumento dei livello dei mari di 3,4 millimetri all’anno. Questi drammatici cambiamenti interessano tutte le regioni del Pianeta e sono destinati a intensificarsi nei prossimi decenni se non si mettono in atto interventi efficaci.

7 marzo – 26 maggio 2019 – Museo di Storia Naturale di Milano

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