Emilio Morenatti, la foto da Pulitzer

Il fotografo spagnolo Emilio Morenatti ha vinto il Premio Pulitzer con il suo lavoro incentrato su immagini scattate agli anziani durante il Covid-19 in Catalogna. Le sue immagini molto commuoventi, hanno convinto la giuria.

Il fotografo fa parte dell’agenzia Getty Images, dopo Javier Bauluz (1995), Manu Brabo (2013) e Susana Vera (2020) è il quarto vincitore spagnolo del premio, nella sezione fotografia.

La sua iconica foto di Agustina Cañamero, 82 anni, e Pascual Pérez, 85 anni, mentre si baciano e si abbracciano attraverso la pellicola di plastica per evitare di contrarre il virus in una casa di cura a Barcellona, ha colpito nel segno.

Cañamero e Pérez sono sposati da quasi sessant’anni e l’abbraccio è stato emozionante non solo per loro, ma per tutti coloro che lo hanno assistito, compreso Morenatti.

Morenatti ha vinto il Premio Putlizer per la sua serie che ha documentato la vita degli anziani in Spagna che stavano lottando durante la pandemia di Coronavirus.

AP Photo/Emilio Morenatti

Qui un video che spiega anche le ragioni della vincita

Ciao

Sara

La Storia (delle fotografie) si ripete. Fotografie e similitudini.

Ci sono attimi che si ripetono nella storia perché impressi in fotografie simili tra loro

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Joe Rosenthal                                                                       Thomas E. Franklin

“La storia si ripete”…o almeno è quello che mi hanno sempre ripetuto per convincermi a studiarla quando avevo pantaloni corti, capelli lunghi ed in testa di tutto tranne che un qualche interesse per tutto ciò che fosse accaduto anche solo il giorno prima. Se questa affermazione ha qualche fondamento, perché la storia delle fotografia debba fare eccezione? In effetti, anche solo scorrendo le immagini premiate con le più prestigiose onorificenze in campo fotografico o quelle che in qualche modo hanno trovato posto, per qualche motivo, nel nostro archivio memonico, si possono trovare similitudini sorprendenti; non parlo di scopiazzature indecenti, di plagi senza vergogna o di altri vocaboli che nascondano una qualche volontà di “fare i furbi”, semplicemente penso sia probabile che una buona cultura, in questo caso fotografica, aiuti a vedere, ricordare e interpretare il già visto.

Le due foto sotto il titolo, sono il primo di un paio di esempi che possano stimolarvi a trovarne altri nei libri o nella memoria.

Iwo Jima e la tanto chiacchierata bandiera. Tranquilli…non ho intenzione di tediarvi con la celeberrima storia, con relative varianti, dell’immagine premio Pulitzer 1945, scattata da Joe Rosenthal, (magari un’altra volta), ma di come abbia inevitabilmente ispirato Thomas E. Franklin, nei giorni successivi l’11 Settembre, per l’immagine che è stata poi utilizzata per affrancare milioni di lettere che hanno attraversato gli States, dove i marines hanno lasciato il posto ed il ruolo di eroi, ai pompieri di New York.

Un altro premio Pulitzer (anno 2000 categoria feature); Carol Guzy (che ha condiviso il premio con due colleghi del The Washington Post) ha scattato la foto nel campo profughi di Kukes, al confine tra Kosovo e Albania, mentre alcuni delle migliaia di fuggiaschi dalla pulizia etnica in atto, passavo i propri figli, attraverso il filo spinato, ai parenti già all’interno del campo. Tredici anni dopo, un altro cucciolo (di Beagle) veniva salvato dall’allevamento Green Hill e da un destino in qualche modo simile a quello che poteva toccare al bambino kosovaro; la foto di Piercarlo Paderno si può dire che “ricalca” quella della Guzy.

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Carol Guzy                                                                         Piercarlo Palermo

Sempre vigili del fuoco USA, ma la città è Seattle e la foto di Jerry Gay è stata scattata oltre un quarto di secolo prima, quando le prime luci del mattino illuminavano lo sfinimento degli uomini che non si erano risparmiati per domare l’incendi scoppiato nel sobborgo di Burien, alla periferia sud della città. Lo stesso sfinimento che ha fermato sul volto di un soldato statunitense del 503° fanteria, mentre si lascia andare sul terrapieno di un bunker nella valle del Korengal in Afghanistan, da Tim Hetherington, che gli è valso il WPP 2007.

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Jerry Gay                                                                 Tim Hetherington

Non vi tolgo il piacere della ricerca, fateci sapere.

Postato da Angelo

NON giudicate i fotografi. Storia di una fotografia. 1993 Kevin Carter.

Nel 1993 Kevin Carter si sposta in Sudan per documentare gli orrori che si stanno perpetrando in quel paese, dove la fame porta alla morte parte della popolazione e il Governo non trova soluzione intelligente se non armare il popolo. Proprio in Sudan il fotografo scatterà la sua fotografia più famosa, che probabilmente lo porterà al suicidio. L’immagine  viene pubblicata il 26 marzo 1993 dal New York Times.
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C’è una bambina che cerca un rifugio.Gonfia e malnutrita la piccola si rannicchia al suolo, sembra molto debole. Sullo sfondo un avvoltoio osserva FORSE aspettando la morte di quella che diventerà il suo pasto. Questo è quello che si legge dalla fotografia, ma non sappiamo cosa ci fosse intorno alla scena.
Una fotografia “sfacciata”, difficile da sostenere. Il simbolo della fame nel mondo. Si dice che Kevin fosse ossessionato da questo scatto. Uno scatto che valse a Carter il premio Pulitzer del 1994.
Il fotografo non disse mai cosa fece dopo aver immortalato la scena. Anche pochi giorni prima della morte, intervistato, Carter affermò il suo odio per quella fotografia, e si rifiutò di dire di più sulla vicenda. 

Chi era Kevin Carter (Johannesburg, 13 settembre 1960 – Johannesburg, 27 luglio 1994) è stato un giornalista e fotografo sudafricano, diventato famoso per le sue controverse fotografie sulle condizioni umanitarie in Africa negli anni ‘90. Ha vinto il Premio Pulitzer grazie a uno scatto che testimonia la carestia in Sudan del 1993. Insieme ad altri fotoreporter ha fatto parte del Bang Bang Club. È morto suicida all’età di 33 anni.

Gli inizi

Kevin Carter nacque a Johannesburg in Sudafrica nel 1960 da una famiglia della medio borghesia che viveva in un quartiere abitato da soli bianchi e da cui i neri venivano allontanati secondo le leggi dell’apartheid. Sono gli anni in cui l’Umkhonto we Sizwe, l’ala armata dell’ANC, iniziò a usare la forza nella lotta contro la segregazione dei neri; Carter si fa trascinare dalle ideologie portate avanti da Mandela ed è scioccato dal modo in cui i neri vengono trattati nella sua città. La sua lotta contro l’emarginazione dei neri lo portò tuttavia ad incontrare le ire della popolazione bianca e a rischiare l’isolamento da parte dei suoi commilitoni.

Dopo gli studi superiori iniziò quelli per diventare un farmacista ma dovette abbandonarli quando venne arruolato nell’esercito dove fece parte dell’aviazione per quattro anni. Ne seguì un periodo di depressione durante il quale tentò di togliersi la vita. Fu allora che decise di cambiare vita e dedicarsi alla fotografia. Abbandonò presto le fotografie sportive con cui aveva cominciato nel 1983 per dedicarsi alla testimonianza delle guerre e delle crudeltà che stavano avvenendo in quegli anni intorno a lui.

I fotoreportage

Nel 1984 venne assunto dal Johannesburg Star dove conobbe tra gli altri Greg Marinovich, Ken Oosterbroek e Joao Silva con cui costituì un gruppo che sarebbe stato chiamato Bang Bang Club. Comincia così a documentare le crudeltà che la guerra civile aveva portato in Sudafrica: esecuzioni sommarie, uccisioni a colpi di machete e il cosiddetto “necklacing”. Carter è stato il primo giornalista a pubblicare un articolo sull’esecuzione chiamata “supplizio dello pneumatico” in Sudafrica nella metà degli anni ottanta. Successivamente, dirà di quelle immagini: “Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini… così ho pensato che forse le mie azioni non sono state poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non fu necessariamente un male.” Questo lavoro creò un dilemma interiore in Carter poiché da un lato era sconvolto dalla crudezza delle immagini che ritraeva e dalla sua freddezza nello scattarle, dall’altro era consapevole che in questo modo poteva far accendere l’attenzione globale sulla situazione sudafricana e sperare di poter far cambiare qualcosa.

Il Pulitzer per la foto della bambina

In seguito a una serie di problemi con la redazione del giornale dovuti anche al suo abuso di droghe Carter decise di prendersi un periodo di pausa e nel marzo del 1993 si recò in Sudan per documentare la guerra civile in corso e la carestia che aveva sconvolto il paese. È qui che scattò la sua foto più famosa: il ritratto di un bambino denutrito che accasciato a terra cerca di raggiungere il centro di aiuti e sullo sfondo un avvoltoio che lo osserva quasi ne stesse aspettando la morte. Immediatamente la foto fece il giro del mondo apparendo nelle copertine delle riviste più importanti e permettendo a Carter di vincere un Pulitzer. Allo stesso tempo dette vita a una serie di polemiche che indagavano il ruolo del fotografo nello scatto della foto. La gente cominciò ad  interrogarsi sul destino del bambino e sulla moralità della fotografia. Carter non fu mai chiaro su quello che successe al momento dello scatto e raccontò diverse versioni della vicenda. Secondo alcune versioni avrebbe aiutato quella che si sarebbe rivelata un bambina, secondo altre avrebbe aspettato per 20 minuti il momento migliore per scattare mentre egli stesso afferma di aver fatto solo il suo lavoro di fotografo e testimone, consapevole di non poter far nulla per cambiare le sorti della bambina. Certo è che lo scandalo mediatico che si creò turbò profondamente Carter che, tormentato dall’immagine della bambina che gli ricorda la figlia piccola che riusciva a vedere solo raramente, cadde in profonda depressione. La sua popolarità crebbe rapidamente quando il New York Times acquistò la foto nel marzo 1993 facendola diventare uno dei simboli della devastazione africana. Questo non fece che aggravare la sua situazione portandolo a peggiorare il suo abuso di droghe al punto che quando gli telefonarono per comunicargli la vincita del premio Pulitzer nel 1994 non capiva cosa stesse succedendo e furono costretti a ripetergli più volte la conversazione.

La morte

Il 18 aprile dello stesso anno durante una spedizione per fotografare un’esplosione di violenza nelle vicinanze di Johannesburg Ken Oosterbroek, il migliore amico di Kevin, venne ferito e ucciso durante una sparatoria mentre Marinovich riportò gravi ferite. Carter apprese la notizia dalla radio in quanto aveva abbandonato la spedizione per partecipare a un’intervista e ne fu completamente sconvolto, ancor più perché non era presente in quel momento. La situazione per Carter divenne insostenibile al punto che decise di farla finita. Il 27 luglio 1994 guidò il suo pickup fino ad un parco dove giocava da bambino e lì si intossicò con il monossido di carbonio del tubo di scarico, morendo suicida all’età di 33 anni. Nella nota che lasciò scritta scriveva di non poter più sostenere la depressione, la mancanza di soldi e la persecuzione dei ricordi degli omicidi e dei cadaveri e del dolore che aveva visto, dei bambini affamati. La sua speranza era quella di essere abbastanza fortunato da raggiungere l’amico Ken.

Storia di una fotografia, Esecuzione del prigioniero 1968 Eddie Adams

Esecuzione del prigioniero

Il Generale Nguyễn Ngọc Loan mentre giustizia un prigioniero Việt Cộng a Saigon (General Nguyễn Ngọc Loan Executing a Viet Cong Prisoner in Saigon) è una fotografia presa da Eddie Adams il 1º febbraio 1968 che mostra il capo della Polizia Nazionale della Repubblica del Vietnam Nguyễn Ngọc Loan giustiziare l’ufficiale Viet Cong Nguyễn Văn Lém a Saigon durante l’Offensiva del Têt. La fotografia di Adams mostra il momento in cui il proiettile è stato esploso; il Việt Cộng morto, con la bocca contratta in una smorfia ed i capelli ancora mossi dallo sparo, non ha ancora cominciato a cadere. Il fatto venne immortalato anche da un cameraman dell’NBC, ma la fotografia di Adams rimane l’immagine del fatto per antonomasia, che fece il giro del mondo sulle prime pagine di tutti i giornali. La vedova di Lém confermò che il suo marito era un membro dei Việt Cộng e che non lo vide più dopo che l’offensiva di Tết cominciò. Benché alcuni critici ancora sostengano che l’azione di Nguyễn Ngọc Loan ha violato la convenzione di Ginevra per il trattamento dei prigionieri di guerra (Nguyễn Văn Lém non stava portando un’uniforme né stava combattendo contro presunti soldati nemici, così è risultato dalla commissione contro i crimini di guerra), i diritti di prigioniero di guerra venivano accordati ai Việt Cộng a condizione di essere catturati durante le operazioni militari. Quelli considerati come guerriglieri erano soggetti soltanto alle leggi del governo sud-vietnamita, che in ogni caso non prevedevano la morte senza processo per i prigionieri. Durante l’offensiva del Tết, Loan e la sua polizia mantennero buona parte di Saigon fuori dal controllo dei Việt Cộng fino alla conclusione della guerra. Durante la difesa di Saigon, Nguyễn spostò le sue truppe dalla difesa dell’ambasciata americana al palazzo presidenziale, un atto per cui gli Americani nel Vietnam non lo perdonarono mai. Quando venne interrogato da Oriana Fallaci, durante la sua degenza in ospedale dovuta ad una ferita alla gamba, sul motivo dell’esecuzione del prigioniero, la risposta fu la seguente: “[…] Non aveva l’uniforme. E io non riesco a rispettare un uomo che spara senza indossar l’uniforme. Perché è troppo comodo: ammazzi e non sei riconosciuto. Un nordvietnamita io lo rispetto perché è vestito da soldato come me, e quindi rischia come me. Ma un vietcong in borghese… […]” La fotografia di Adams vinse il premio Pulitzer nel 1969, benché successivamente il fotografo disse di rammaricarsi dell’effetto che poi ebbe, l’immagine si trasformò in un’icona pacifista:

« Brutta luce, brutta composizione: brutta foto. Scattai una volta sola, il ragazzo cadde a terra schizzando sangue dappertutto, mi voltai dall’ altra parte. Quell’immagine non dice tutta la storia. Il generale fuggì negli Stati Uniti: faceva il pizzaiolo vicino a New York e la gente andava a insultarlo. »

Per quanto riguarda il Generale Loan e la sua famosa fotografia, Eddie Adams in seguito scrisse sul Time:

« Il generale uccise il Viet Cong; io uccisi il Generale con la mia macchina fotografica.Le immagini fotografiche sono le armi più potenti del mondo. La gente ci crede, ma le fotografie mentono, anche senza essere manipolate. Sono soltanto mezze-verità. Ciò che la fotografia non ha detto era: ‘che cosa avreste fatto voi se foste stati il Generale in quel momento, in quel posto e in quel giorno caldo, ed aveste catturato il cosiddetto cattivo dopo che avesse fatto fuori, due o tre soldati americani?’ come fate a sapere che non avreste tirato il grilletto voi stessi? »

Adams, anni più tardi, chiese pubblicamente scusa a Loan ed alla sua famiglia per il disonore che aveva provocato loro. Quando il Generale Loan morì, Adams lo elogiò come eroe di una giusta causa. La foto fece comprendere al pubblico americano, più di ogni altra inchiesta, che il governo sud vietnamita non era un governo democratico, ma una dittatura corrotta e militarista, in cui il valore della vita umana non godeva di alcuna considerazione. Accuse che potevano essere legittimamente rivolte anche al Vietnam del Nord, ma proprio questa indistinguibilità morale, agli occhi dell’opinione pubblica americana, contribuì a rendere la guerra del Viet Nam un inutile sperco di vite umane e di denari dei contribuenti.

L’autore spiega lo scatto

L’esecuzione ripresa in video

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English version

Eddie Adams (June 12, 1933 – September 18, 2004) was an American photographer and photojournalist noted for portraits of celebrities and politicians and for coverage of 13 wars. He won a Pulitzer Prize in 1969. Combat photographer Adams served in the United States Marine Corps during the Korean War as a combat photographer. One of his assignments was to photograph the entire Demilitarized Zone from end to end immediately following the war. This took him over a month to complete. Pulitzer Prize winning photograph Adams’ photograph of Nguyễn Ngọc Loan executing Nguyễn Văn Lém on February 1, 1968 It was while covering the Vietnam War for the Associated Press that he took his best-known photograph – the picture of police chief General Nguyễn Ngọc Loan executing a Vietcong prisoner, Nguyễn Văn Lém, on a Saigon street, on February 1, 1968, during the opening stages of the Tet Offensive. Adams won the 1969 Pulitzer Prize for Spot News Photography and a World Press Photo award for the photograph (captioned ‘General Nguyen Ngoc Loan executing a Viet Cong prisoner in Saigon’), but would later lament its notoriety. Writer and critic David D. Perlmutter points out that ‘no film footage did as much damage as AP photographer Eddie Adams’s 35mm shot taken on a Saigon street … When people talk or write about [the Tet Offensive] at least a sentence is devoted (often with an illustration) to the Eddie Adams picture’. Anticipating the impact of Adams’s photograph, an attempt at balance was sought by editors in the New York Times. In his memoirs,[8] John G. Morris recalls that assistant managing editor Theodore M. Bernstein “determined that the brutality manifested by America’s ally be put into perspective, agreed to run the Adams picture large, but offset with a picture of a child slain by Vietcong, which conveniently came through from AP at about the same time”. Nonetheless, it is Adams’s photograph that is remembered while the other far less dramatic image was overlooked and soon forgotten. In Regarding the Pain of Others, Susan Sontag is disturbed by what she sees as the staged nature of the photograph. She writes that ‘he would not have carried out the summary execution there had [the press] not been available to witness it’.[9] However, Donald Winslow of the New York Times quotes Adams as having described the image as a ‘reflex picture’ and ‘wasn’t certain of what he’d photographed until the film was developed’. Furthermore, Winslow notes that Adams ‘wanted me to understand that “Saigon Execution” was not his most important picture and that he did not want his obituary to begin, “Eddie Adams, the photographer best known for his iconic Vietnam photograph ‘Saigon Execution’’ On Nguyen Ngoc Loan and his famous photograph, Adams wrote in Time in 1998: “     Two people died in that photograph: the recipient of the bullet and GENERAL NGUYEN NGOC LOAN. The general killed the Viet Cong; I killed the general with my camera. Still photographs are the most powerful weapons in the world. People believe them; but photographs do lie, even without manipulation. They are only half-truths. … What the photograph didn’t say was, ‘What would you do if you were the general at that time and place on that hot day, and you caught the so-called bad guy after he blew away one, two or three American people?’…. This picture really messed up his life. He never blamed me. He told me if I hadn’t taken the picture, someone else would have, but I’ve felt bad for him and his family for a long time. … I sent flowers when I heard that he had died and wrote, “I’m sorry. There are tears in my eyes. Adams later apologized in person to General Nguyen and his family for the irreparable damage it did to the General’s honor while he was alive. When Nguyen died, Adams praised him as a “hero” of a “just cause”.On the television show “War Stories with Oliver North” Adams called Gen. Nguyen “a goddamned hero!” He once said, “I would have rather been known more for the series of photographs I shot of 48 Vietnamese refugees who managed to sail to Thailand in a 30-foot boat, only to be towed back to the open seas by Thai marines.” The photographs, and accompanying reports, helped persuade then President Jimmy Carter to grant the nearly 200,000 Vietnamese boat people asylum.[He won the Robert Capa Gold Medal from the Overseas Press Club in 1977 for this series of photographs in his photo essay, “The Boat of No Smiles” (Published by AP).Adams remarked, “It did some good and nobody got hurt.

Eddie Adams Talks About The Saigon Execution Photo

Execution video