Buongiorno, queste sono alcune considerazioni che derivano da una mia lezione di fotografia a scuola, trascritte da una mia alunna (folle, ha riscritto un anno di registrazioni). Spero possano farvi pensare anche solo un pochino. Buona giornata Sara
Crea un’identità che permetta di riconoscersi nelle situazioni del reportage sia personale, sia di documentazione effettiva. Il fotografo “vince” quando riesce a creare un filo che lo colleghi a chi guarda le sue foto, quindi in sostanza chi guarda, può riconoscersi in quella situazione specifica. Più trattiamo temi che riguardano l’uomo in generale e più avremo la possibilità che questo filo si crei. Nel caso in cui si trattino argomenti molto specifici o argomenti con linguaggi particolari, è più facile che il pubblico coinvolto sia numericamente inferiore e la storia interesserà direttamente solo chi ha a che fare con il tema scelto. Non è un bene o un male, è un ragionamento che si fa prima di cominciare, per necessità, per motivi differenti che ci spingono ad approfondire discorsi più personali e meno riconducibili ad un pubblico generico.
Chi è capace di raccontare storie, riesce a dare un senso alle avventure, negative o positive che riguardano l’uomo; una cosa atroce prende senso, anche se è collegata alla morte, perché fa parte della storia dell’uomo e quindi il fotografo organizzando il suo lavoro, riesce a concedere un significato a qualsiasi situazione (anche difficile da digerire). Un buon fotografo da significato a tutte le vicissitudini dell’uomo.
Lo storyteller crea una memoria storica e si assicura che chi arriverà dopo, possa capire come hanno vissuto i suoi predecessori (per esempio: noi sappiamo come vivevano negli anni ’50 perché vediamo le foto di quel periodo, perché ne leggiamo i testi, vediamo film ecc.).
Il fotografo potrebbe anche essere in grado di direzionare l’opinione del pubblico. Questo avviene soprattutto nel fotogiornalismo e nel reportage più in generale…quindi quando raccontate una storia che affronta temi sociali (non solo) sappiate di avere una grande responsabilità! Alcuni dei vostri progetti potrebbero essere in grado di far cambiare idea alle persone sulle cose.
Gli stessi concetti e molto altro sono proposti nel mio libro, edito da Emuse
Si presenta così, e così lo continuerete a immaginare fino alla fine del libro di cui vi parlerò.
Ando Gilardi
Ma prima una premessa è dovuta e
riguarda il termine “stupidità”: il termine che deriva dal latino
“stupere” aveva in origine due accezione diverse: indicava
infatti sia la persona che, improvvisamente stupita da qualcosa, si trovava in
una condizione passiva indotta da
stupore, ma anche una persona che
esprimeva persistente lentezza e carenza nel comprendere.
Il significato della parola ha poi
subito numerose deformazioni nel corso della storia, fino a diventare ai giorni
nostri quasi sinonimo di idiozia.
Lascio a voi il decidere a quale
delle accezioni si rifaccia l’autore.
Ma veniamo al libro, si tratta de “La
stupidità fotografica” di Ando Gilardi edito da Johan & Levi editore,
curato da Patrizia Piccini
Dell’autore e fotografo trovate i riferimenti
all’interno del sito (https://saramunari.blog/2015/01/29/musa-consiglia-meglio-ladro-che-fotografo-di-ando-gilardi/), pertanto passo direttamente a
parlarvi del contenuto, che nulla ha a che vedere con l’aspetto fisico
dell’oggetto, infatti un libro che all’apparenza si presenta innocuo, piccolo e leggero con la sua
rassicurante copertina azzurra e il titolo elegantemente scritto in alto sulla
destra con sobri caratteri neri, si dimostrerà acuto e sfrontato.
Già dopo le prime righe si farà largo
in voi il dubbio circa il contenuto del libro e l’impressione iniziale, legata
all’estetica apparentemente leggera,
verrà schiaffeggiata da una sfacciata insolenza della forma e del contenuto.
Da parte mia la sensazione che ho
avuto fin da subito è stata quella di trovarmi di fronte a un autore dotato
contemporaneamente dell’ironia del vecchio Nadar e dell’irriverenza di Pino
Bertelli (che accoppiata però a ben pensare!)
Ma cosa ci racconta Ando col suo
stile inconfondibile?
Ebbene ci dice cos’è la stupidità in
fotografia secondo lui e ci spiega da cosa deriva, lo fa partendo dal problema
dell’origine della rappresentazione delle immagini e spostando la nascita della fotografia indietro di
anni, riconducendola al momento in cui
si iniziarono a produrre immagini volatili che si perdevano non appena veniva a
mancare la luce, a quando insomma non si
era ancora in grado di fissarle su un supporto che ne permettesse la
conservazione nel tempo.
Ci racconta la stupidità nascosta
dentro un utilizzo inconsapevole dei termini che vengono normalmente usati per
raccontare la fotografia, e sollecitando i tanti sedicenti insegnati di
fotografia a conoscere i termini prima di addentrarsi nel mondo delle immagini
riprodotte.
Continua buttandosi sui fotografi,
giudicando poco furbo l’approccio aggressivo e di rifiuto che hanno davanti
alla velocità con la quale gli strumenti utilizzati per fotografare si evolvono
a livello tecnologico, con una vena critica che rivolge anche a se stesso,
sostenendo che rivoltarsi contro le innovazioni non fa bene alla fotografia,
perché crea uno spazio vuoto fra coloro che hanno fatto fotografia prima di
quell’innovazione e coloro i quali hanno iniziato e iniziano a farlo dopo,
provocando una perdita di possibilità ai primi e una presunzione di conoscenza
nei secondi che rende tutti “stupidi”.
E continua così per tutto il libro,
rimescolando le carte e sollevando dubbi laddove per molti anni sono state
viste certezze.
Ma la più grande e banale delle
anomalie che rileva Il nostro buffo autore riguarda l’approccio che hanno i
fotografi alla possibilità generata dallo sviluppo tecnologico di produrre un
numero sempre maggiore di immagini, secondo Gilardi infatti, questa possibilità
dovrebb’essere vista un po’ come se fosse stata data alla fotografia la
possibilità di produrre migliaia di monete d’oro piuttosto che una, e la
stupidità risiederebbe in coloro i quali, piuttosto che apprezzare le
possibilità di arricchimento del patrimonio di immagini a disposizione
dell’essere umano, lo giudicano solo fonte di immondizia visibile agli occhi.
Si dovrebbe in sostanza aspirare, non
a un ritorno al passato e ad una produzione limitata di immagini, ma piuttosto
ad una presa di consapevolezza tale delle persone che producono immagini, da
aumentare a dismisura la quantità di buona fotografia disponibile.
Se ci pensate poi dovrebbe essere
stimolante per tutti coloro i quali si buttano a capofitto nel mondo della
fotografia, sapere di avere una marea di immagini sempre nuove e ben fatte da
osservare e da utilizzare come incentivo per
creare lavori di qualità sempre maggiore; dovrebbe essere quello in cui
sperano tutti coloro che amano la fotografia e la rispettano: vederla diventare
qualcosa per cui si debba essere formati e della quale si debbano conoscere il
linguaggio che utilizza e la storia, per poterla praticare degnamente e
insegnare.
Di tutto questo e di molto altro ci
parla l’autore spingendoci a riflettere sempre e comunque su quello che
facciamo con o senza macchina fotografica in mano.
Sperando di aver incuriosito e non
annoiato vi lascio con questa riflessione, che non è l’unica ma è sicuramente
l’ultima e più pungente: leggere il libro immaginando l’autore come un “anziano
babbo natale con la lingua fuori” è stata un’esperienza illuminante su come
l’immagine di chi ha prodotto il messaggio e lo stile con cui l’ha trasmesso ,
(che sono poi il vestito del messaggio) possano ingannare sul contenuto
tutt’altro che balordo e stupido del testo, come a dire: non fermatevi mai alla
superficie in fotografia, ma nemmeno nelle cose di ogni giorno perché, dopo una
lettura superficiale, sotto il primo strato di pelle delle cose, potrebbe
esserci qualcosa che sarebbe un peccato perdere solo per aver scelto di
fermarsi alle apparenze.