Nata a Schötmar in Germania nel 1965, vive e lavora in Francia, a Parigi.
Ha studiato matematica e si è laureata in ingegneria all’École Nationale Supérieure d’Ingenieurs a Caen in Normandia, frequentando contemporaneamente l’École Nationale Supérieure de la Photographie di Arles: dopo i suoi primi lavori svolti a Berlino in qualità di ingegnere, ha lasciato la sua professione per dedicarsi interamente alla fotografia, fino a diventare un’artista concettuale a tutto tondo.
Flickr, after Paul Sharits
“ Alcuni anni fa, quando mi sono resa conto di quanto la rivoluzione digitale avesse cambiato decisamente il nostro rapporto con la fotografia, ho deciso di abbandonare la mia pratica tradizionale del mezzo….” (I. LM) . Allontanatasi gradualmente dalla riproduzione del mondo reale, si è concentrata ad analizzare il ruolo della fotografia nella società contemporanea, al fine di comprenderne l’essenza più profonda. Ha dedicato i suoi studi con metodica precisione – derivatale senza dubbio dalla sua formazione scientifica – ai mezzi e ai dispositivi che permettono di fissare le immagini dalle quali oggi siamo letteralmente invasi.
Al 2008 risale una serie di fotografie dal significativo titolo “ Trop tôt, trop tard” in cui Isabelle si dedica ad analizzare alcune immagini fotografiche del grandissimo Henry Cartier Bresson, con la finalità di destrutturare la teoria dell’ “istante decisivo”. “Henry Cartier Bresson è stato un modello per molti che si avvicinavano alla fotografia verso la fine degli anni ’80, per i quali il rispetto di alcune regole quale ‘l’istante decisivo’, la composizione bilanciata…erano garanzie di riuscita dell’immagine” (I. LM).La Le Minh intuisce che, con il diffondersi della tecnica digitale, questa teoria inizia a scricchiolare perché l’uso di Photoshop permette di intervenire per superare i difetti e ricomporre le immagini a nostro piacimento: il mondo della fotografia ha subito una trasformazione radicale. Con coraggio decide di destrutturare alcune delle foto più celebri di Cartier Bresson, togliendo ciò che per il fotografo francese incarnava “il momento decisivo” come ad esempio il famoso ‘salto’: ne escono fuori delle immagini completamente diverse in cui la cifra dominante diviene la solitudine e il silenzio. Inoltre grazie a queste fotografie ‘destrutturate’ comprendiamo la robusta impalcatura geometrica e il deciso contrasto di ombre e luci che stanno alla base delle fotografie del grande francese.
Isabelle Le Minh, da Cartier Bresson Cartier Bresson
Si tratta di un’operazione altamente concettuale che ci invita a riflettere sull’essenza stessa della fotografia, sui suoi limiti, sull’originalità delle immagini in un mondo in cui possono essere manipolate all’infinito.
Mi piace ricordare, in mezzo a importanti lavori che hanno visto Isabelle protagonista di numerose esposizioni in tutto il mondo, l’imponente mostra del 2017 in Normandia a Rouen, dal titolo assai esplicativo “ After Photography &Beyond”, in cui l’artista esplora i diversi campi della fotografia, soffermandosi sulla storia, gli oggetti, le tecniche, gli usi e i principali fondamenti teorici di essa.
Celebre la sua serie di foto del 2015, dedicata ad immortalare obiettivi fotografici delle più svariate epoche che campeggiano come geometriche sculture cilindriche su fondi rigorosamente bianchi, in composizioni che richiamano in modo esplicito le immagini degli edifici industriali dei coniugi Becher, da cui il titolo “ Objektiv, after Bernand and Hilla Becher”.
Isabelle Le Minh, Objektiv
“… non più la fotografia come mezzo per rappresentare il mondo, ma l’arte come mezzo per mettere in discussione la fotografia” (I. LM)
BIBLIOGRAFIA
A.A.V.V. After Photography & Beyond, catalogo dell’esposizione “ After Photography” presentata a Frac Normandie Rouen, Sotteville-les-Rouen nel 2017. Ed. Dilecta, Parigi
La fotografa belga Martine Frank, sposatasi nel 1970 in seconde nozze con il fotografo francese Henri Cartier Bresson definito “l’occhio del secolo”, di trenta anni più vecchio di lei, ha rischiato di essere ricordata solo per la fama del marito, se non avesse messo grinta e energia per acquisire e imporre al pubblico una cifra stilistica e contenutistica del tutto personale. E’ significativo ricordare che la sua prima mostra personale organizzata nel 1970 a Londra dall’’Institute of Contemporary Arts, fu da lei annullata senza alcuna esitazione, quando si rese conto che gli inviti, oltre al suo nome, recavano anche quello del marito che sarebbe stato presente all’inaugurazione attirando numerosi visitatori.
FRANCE. Provence. Town of Le Brusc. Pool designed by Alain CAPEILLERES.
Nata ad Anversa nel 1938 da una madre inglese appassionata di arte e da un padre banchiere collezionista dilettante, ben presto si trasferì con i genitori a Londra; in seguito si recò a Madrid e a Parigi dove studiò materie artistiche. Nel 1963, durante un avventuroso viaggio in estremo Oriente, scoprì la passione per la fotografia grazie ad una fotocamera Leica prestata dal cugino. Tornata a Parigi iniziò a lavorare come fotografa freelance per riviste famose come Vogue, Life e Sports Illustrated, assumendo ben presto un incarico ufficiale presso il Théâtre du Soleil di cui immortalò spettacoli e back stages per quarantotto anni. Nel 1983 divenne membro effettivo dell’agenzia fotografica Magnum, incarico prestigioso e molto raro conferito ad una donna e nel 2005 fu insignita del titolo di cavaliere della Légion d’Honneur francese.
Timida, riservata e poco interessata alla vita mondana, le immagini documentarie e i suoi magnifici ritratti si rivolgevano con interesse al mondo degli umili, dei vecchi e delle donne: “ … la fotografia si adatta alla mia curiosità per le persone e le situazioni umane…”, affermava Martine in una intervista rilasciata al New York Time.
Cartier Bresson fotografato da Martine-Franck
Martine Franck
Dal punto di vista letterario, Mark Twain e Conan Doyle, conosciuti attraverso le letture che sua madre le faceva da bambina, rimarranno i suoi punti di riferimento, come il grande Hitchcock per il cinema; in campo fotografico durante numerose interviste citava spesso Julia Margaret Cameron, Dorothea Lange e Margaret Bourke-White. In sintonia con il Marito Henri Cartier Bresson, la Franck sintetizza così la sua passione per la fotografia: “. ..Ciò che soprattutto amo nella fotografia, è precisamente il momento che non si può anticipare, bisogna stare costantemente in allerta, pronti a captare ciò che è inatteso…”. Le sue immagini rigorosamente in bianconero sono potenti e suggeriscono l’emozione della fotografa e dei soggetti ritratti durante lo scatto: gli anziani ripresi nei luoghi protetti oppure i bambini spesso immortalati mentre giocano per strada anche in situazioni precarie o disagiate sprigionano tenerezza, comprensione e partecipazione alle loro difficoltà da parte di Martine che non si sottrae dall’entrare nel mondo della sofferenza e dell’emarginazione, sempre con passo lieve ed elegante. Un suo importante lavoro riguarda le immagini che immortalano i monaci tibetani Tulku da cui traspare la loro vita gioiosa fatta di ascesi e trascendenza, da trasmettere con generosità agli altri.
Hospice d’Ivry sur Seine, France Foto di Martine Frank
Dopo la morte dell’illustre marito, insieme alla figlia Mélanie, nel 2003 creò la Fondazione Henri Cartier Bresson per conservare e promuovere il prezioso materiale fotografico da lui lasciato in eredità.
IRELAND. Donegal. Tory Island. 1995. Foto di Martine Frank
Michel Foucault nella sua abitazione, Paris. Foto di Martine Frank
Colpita da leucemia, dopo due anni di strenua lotta contro la malattia affrontata con coraggio e determinazione, morì a Parigi nel 2012 all’età di 74 anni.
Bibliografia: Martine Franck, D’un jour, l’autre, Éditons du Seuil, Paris 1998
rieccoci con il nostro appuntamento fisso con le mostre di fotografia.
Di seguito la nostra selezione. Se desiderate, segnalateci pure qualche mostra che magari ci è sfuggita.
Anna
CAPOLAVORI DELLA FOTOGRAFIA MODERNA 1900-1940: LA COLLEZIONE THOMAS WALTHER DEL MUSEUM OF MODERN ART, NEW YORK
CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia presenta, per la prima volta in Italia, la mostra “Capolavori della fotografia moderna 1900-1940. La collezione Thomas Walther del Museum of Modern Art, New York”: a Torino dal 3 marzo al 26 giugno 2022 una straordinaria selezione di oltre 230 opere fotografiche della prima metà del XX secolo, capolavori assoluti della storia della fotografia realizzati dai grandi maestri dell’obiettivo, le cui immagini appaiono innovative ancora oggi. Come i contemporanei Matisse, Picasso e Duchamp hanno saputo rivoluzionare linguaggi delle arti plastiche, così gli autori in mostra, una nutrita selezione di fotografi famosi e altri nomi meno noti, hanno ridefinito i canoni della fotografia facendole assumere un ruolo assolutamente centrale nello sviluppo delle avanguardie di inizio secolo.
Un fermento creativo che prende avvio in Europa per arrivare infine negli Stati Uniti, che accolgono in misura sempre maggiore gli intellettuali in fuga dalla guerra, arrivando a diventare negli anni Quaranta il principale centro di produzione artistica mondiale. Accanto ad immagini iconiche di fotografi americani come Alfred Stieglitz, Edward Steichen, Paul Strand, Walker Evans o Edward Weston e europei come Karl Blossfeldt, Brassaï, Henri Cartier-Bresson, André Kertész e August Sander, la collezione Walther valorizza il ruolo centrale delle donne nella prima fotografia moderna, con opere di Berenice Abbott, Marianne Breslauer, Claude Cahun, Lore Feininger, Florence Henri, Irene Hoffmann, Lotte Jocobi, Lee Miller, Tina Modotti, Germaine Krull, Lucia Moholy, Leni Riefenstahl e molte altre.
Oltre ai capolavori della fotografia del Bauhaus (László Moholy-Nagy, Iwao Yamawaki), del costruttivismo (El Lissitzky, Aleksandr Rodčenko, Gustav Klutsis), del surrealismo (Man Ray, Maurice Tabard, Raoul Ubac) troviamo anche le sperimentazioni futuriste di Anton Giulio Bragaglia e le composizioni astratte di Luigi Veronesi, due fra gli italiani presenti in mostra insieme a Wanda Wulz e Tina Modotti.
A riprova della ricchezza di poetiche e pensieri, all’interno della collezione Thomas Walther del Museum of Modern Art, New York si trovano fotografie realizzate grazie alle nuove possibilità offerte dagli sviluppi tecnici di questi anni, ma anche una molteplicità di sperimentazioni linguistiche realizzate attraverso diverse tecniche: collages, doppie esposizioni, immagini cameraless e fotomontaggi che raccontano una nuova libertà di intendere e usare la fotografia.
È la particolarità di questi decenni a spingere il collezionista Thomas Walther a raccogliere, tra il 1977 e il 1997, le migliori opere fotografiche prodotte in questo periodo riunendole in una collezione unica al mondo, acquisita dal MoMA nel 2001 e nel 2017.
La mostra nasce da una preziosa collaborazione fra il Jeu de Paume di Parigi, il MASI di Lugano e CAMERA, dove è possibile vedere per l’ultima volta in Europa questi grandi capolavori della fotografia prima che tornino negli Stati Uniti. L’importanza storica, il valore artistico e la rarità dei materiali esposti rendono quindi questa mostra un appuntamento imperdibile. Accompagna l’esposizione il catalogo edito da Silvana Editoriale in associazione con the Museum of Modern Art, New York, che include un saggio critico di Sarah Hermanson Meister, brevi introduzioni alle sezioni della mostra e riproduzioni di opere presentate.
Mostra organizzata dal Museum of Modern Art, New York. A cura di Sarah Hermanson Meister, curatrice del Dipartimento di Fotografia, The Museum of Modern Art, New York e Quentin Bajac, direttore del Jeu de Paume, Parigi con Jane Pierce, assistente alla ricerca, Carl Jacobs Foundation, The Museum of Modern Art, New York. Coordinamento e sviluppo del progetto a CAMERA: Monica Poggi e Carlo Spinelli
Dal 03 Marzo 2022 al 26 Giugno 2022 – CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia – Torino
Al Centro Saint-Bénin di Aosta, per iniziativa dell’Assessorato Beni Culturali della Regione Autonoma Valle d’Aosta, dal 5 marzo al 22 maggio 2022 sarà possibile visitare l’esposizione Robert Doisneau, una grande retrospettiva sul celebre fotografo francese.
“Le selezionatissime immagini che il curatore Gabriel Bauret ha scelto per questa mostra – rivela la Dirigente delle Attività espositive Daria Jorioz – provengono dall’Atelier Doisneau di Montrouge, nel sud della capitale francese. Sono immagini empatiche che avvicinano l’osservatore, lo rendono partecipe e non solo spettatore. Robert Doisneau incarna l’immagine del fotografo umanista immerso nella vita della sua città: ne coglie il respiro, le emozioni, le trasformazioni sociali, ne narra la bellezza, le contraddizioni, le storie minime che ne compongono la storia collettiva. Il fotografo francese cresce insieme alla sua città, la osserva prendendo appunti visivi, la racconta cominciando dalla strada, si specchia nei giochi dei bambini che inventano il loro mondo, narra la condizione a volte ruvida degli adulti. Lo fa sempre con delicatezza e garbo, talvolta con malinconia, spesso con un’ironia sottilmente dissimulata oppure giocosamente evidente.”
Tra le opere in mostra non poteva mancare Le Baiser de l’Hôtel de Ville, Paris, 1950, immagine celebre e iconica, ritenuta tra le più riprodotte al mondo. In questo suo celebre scatto Doisneau ha saputo catturare un momento magico e un’emozione che sono universali.
A Montrouge, Doisneau ha sviluppato e archiviato le sue immagini per oltre cinquant’anni, ed è lì che si è spento nel 1994, lasciando un’eredità di quasi 450.000 negativi. Dallo stesso atelier, oggi le sue due figlie contribuiscono alla diffusione e alla divulgazione della sua opera, accogliendo le continue richieste di musei, festival e case editrici.
Nato nel 1912 a Gentilly, una città nella periferia sud di Parigi, le prime tappe del percorso di Robert Doisneau sono segnate da una formazione nel campo della litografia, attività che abbandonerà rapidamente in favore di un apprendistato presso lo studio di André Vigneau, un fotografo che gli fornisce una finestra sul mondo dell’arte. Seguirà, per quattro anni, un’intensa collaborazione con il reparto pubblicitario della Renault.
Una volta libero da questo impegno, Robert Doisneau approda al tanto ambito status di fotografo indipendente, ma il suo slancio viene spezzato dalla guerra, che tuttavia non gli impedirà di continuare a fotografare. Subito dopo la Liberazione della capitale, di cui è testimone, comincia un periodo molto intenso di commissioni per la pubblicità (e in particolare per l’industria automobilistica), la stampa (tra cui le riviste “Le Point” e in seguito “Vogue”) e l’editoria.
In parallelo, porta avanti i suoi progetti personali, che saranno oggetto di numerose pubblicazioni, a cominciare dall’opera La Banlieue de Paris, uscita nel 1949 e creata in collaborazione con lo scrittore Blaise Cendrars.
La sua traiettoria si incrocia anche con quelle di Jacques Prévert e Robert Giraud, la cui esperienza e amicizia nutrono la sua fotografia, nonché con quella dell’attore e violoncellista Maurice Baquet, con il quale mette in scena un gran numero di immagini. Dal 1946 le sue fotografie vengono distribuite dall’agenzia Rapho. Qui conosce in particolare Sabine Weiss, Willy Ronis e, successivamente, Édouard Boubat, che insieme a lui formeranno una corrente estetica spesso definita “umanista”.
Nel 1983 gli viene assegnato il “Grand Prix national de la photographie”, a consacrazione di un’opera estremamente ricca e densa. Tale consacrazione passa attraverso le numerosissime esposizioni, in Francia come all’estero, le incalcolabili opere che rivisitano la sua fotografia dalle prospettive più varie e i documentari a lui dedicati. E ad Aosta il pubblico italiano avrà il piacere di avvicinarsi al grande fotografo attraverso ben 128 delle sue più belle immagini.
5 marzo – 22 maggio 2022 – Aosta, Centro Saint-Bénin
THE MAST COLLECTION – Un alfabeto visivo dell’industria, del lavoro e della tecnologia
È la prima grande esposizione di opere della Collezione della Fondazione: oltre 500 immagini tra fotografie, album, video di 200 grandi fotografi italiani e internazionali e artisti anonimi.
La Collezione della Fondazione MAST, unico centro di riferimento al mondo di fotografia dell’industria e del lavoro, conta più di 6000 immagini e video di celebri artisti e maestri dell’obiettivo, oltre ad una vasta selezione di album fotografici di autori sconosciuti.
Nei primi anni 2000 la Fondazione MAST ha creato questo spazio appositamente dedicato alla fotografia dell’industria e del lavoro con l’acquisizione di immagini da case d’asta, collezioni private, gallerie d’arte, fotografi ed artisti. Il patrimonio della Fondazione, che già conteneva un fondo che raccoglieva filmati, negativi su vetro e su pellicola, fotografie, album, cataloghi che negli stabilimenti di Coesia venivano prodotti fin dai primi del ‘900, si è così arricchito ed andato al di là dei parametri di materiale promozionale e documentaristico delle imprese del Gruppo industriale. La raccolta abbraccia opere del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo con un processo di selezione valoriale e un accurato approccio metodologico a cura di Urs Stahel.
“The MAST Collection – A Visual Alphabet of lndustry, Work and Technology”, curata da Urs Stahel, è la prima esposizione di opere selezionate dalla collezione della Fondazione: oltre 500 immagini tra fotografie, album, video di 200 grandi fotografi italiani e internazionali e artisti anonimi, che occupano tutte le aree espositive del MAST. Immagini iconiche di autori famosi da tutto il mondo, fotografi meno noti o sconosciuti, artisti finalisti del MAST Photography Grant on lndustry and Work, che testimoniano visivamente la storia del mondo industriale e del lavoro.
Tra gli artisti in mostra: Paola Agosti, Richard Avedon, Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Margaret Bourke-White, Henri Cartier-Bresson, Thomas Demand, Robert Doisneau, Walker Evans, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Mimmo Jodice, André Kertesz, Josef Koudelka, Dorotohea Lange, Erich Lessing, Herbert List, David Lynch, Don McCullin, Nino Migliori, Tina Modotti, Ugo Mulas, Vik Muniz, Walter Niedermayr, Helga Paris, Thomas Ruff, Sebastiao Salgado, August Sanders, W. Eugene Smith, Edward Steichen, Thomas Struth, Carlo Valsecchi, Edward Weston.
La mostra, proprio per la sua complessità, è strutturata in 53 capitoli dedicata ad altrettanti concetti illustrati nelle opere rappresentate. La forma espositiva è quella di un alfabeto che si snoda sulle pareti dei tre spazi espositivi (PhotoGallery, Foyer e Livello O) e che permette di mettere in rilievo un sistema concettuale che dalla A di Abandonede Architecturearriva fino alla W di Waste, Water, Wealth.
“L’alfabeto nasce per mettere insieme incroci tra lo sguardo lontano e quello vicino, testi e momenti dello scatto, portando I’attenzione all’interno delle opere – spiega il curatore, Urs Stahel -. Lo stesso accade con le immagini e i fotografi coinvolti.
Questi 53 capitoli rappresentano altrettante isole tematiche nelle quali convivono vecchi e giovani, ricchi e poveri, sani e malati, aree industriali o villaggi operai. Costituiscono il punto di incontro delle percezioni, degli atteggiamenti e dei progetti più disparati. La fotografia documentaria incontra l’arte concettuale, gli antichi processi di sviluppo e di stampa su diverse tipologie di carta fotografica, come le stampe all’albumina, si confrontano con le ultime novità in fatto di stampe digitali e inkjet; le immagini dominate dal bianco e nero più profondo si affiancano a rappresentazioni visive dai colori vivaci. I paesaggi cupi caratteristici dell’industria pesante contrastano con gli scintillanti impianti high-tech, il duro lavoro manuale e la maestria artigianale trovano il loro contrappunto negli universi digitali, nell’elaborazione automatizzata dei dati. Alle manifestazioni di protesta contro il mercato e il crac finanziario si affiancano le testimonianze visive del fenomeno migratorio e del lavoro d’ufficio”.
Sul piano della scansione cronologica solo il XIX secolo è stato affrontato separatamente in una sezione dedicata alle fasi iniziali dell’industrializzazione e della storia della fotografia. Il filo conduttore è spesso costellato dai numerosi ritratti di lavoratori, dirigenti, disoccupati, persone in cerca di lavoro e migranti. “Il parallelismo tra industria, mezzo fotografico e modernità – prosegue Urs Stahel – produce a tratti un effetto che può disorientare. La fotografia è figlia dell’industrializzazione e al tempo stesso ne rappresenta il documento visivo più incisivo, fondendo in sé memoria e commento”.
La mostra documenta inoltre il progresso tecnologico e lo sforzo analogico sia del settore industriale sia della fotografia, rappresentato oggi dai dispositivi digitali ultra leggeri, in perenne connessione, capaci di documentare, stampare e condividere il mondo in immagini digitali e stampe 3D. Dall’industria, dalla fotografia e dalla modernità si passa all’alta tecnologia, alle reti generative delle immagini e alla post-post modernità, ovvero a una sorta di contemporaneità 4.0. Dalla semplice copia della realtà alle immagini generate dall’intelligenza artificiale.
La mostra “The MAST Collection – A Visual Alphabet of lndustry, Work and Technology” condensa gli ultimi 200 anni di storia ricchi, folli, intensi, esplosivi in più di 500 opere che raccontano della nostra quotidianità.
La mostra è stata realizzata grazie alla collaborazione della Fondazione Henri Cartier-Bresson e riunisce un eccezionale corpus di fotografie e documenti di archivio del fotoreporter francese: oltre 100 stampe originali insieme a pubblicazioni di riviste d’epoca, documenti e lettere provenienti dalla collezione della Fondazione HCB.
Un excursus senza precedenti che racconta due momenti-chiave nella storia della Cina: la caduta del Kuomintang e l’istituzione del regime comunista (1948-1949) e il “Grande balzo in avanti” di Mao Zedong (1958). Un momento importante nella storia del fotogiornalismo mondiale, vissuto attraverso il personale approccio del maestro Cartier-Bresson, il quale per primo evidenzia – attraverso l’occhio del suo obiettivo – temi importanti del cambiamento nella storia contemporanea cinese, riuscendo a presentare al mondo occidentale anche aspetti tenuti nascosti dalla propaganda di regime come lo sfruttamento delle risorse umane e l’onnipresenza delle milizie.
Il 25 novembre 1948 la rivista “Life” commissiona a Henri Cartier-Bresson un reportage sugli “ultimi giorni di Pechino” prima dell’arrivo delle truppe di Mao. Il soggiorno, previsto di due settimane, durerà dieci mesi, principalmente nella zona di Shanghai. Cartier-Bresson documenterà la caduta di Nanchino, retta dal Kuomintang, e si troverà poi costretto a rimanere per quattro mesi a Shanghai, controllata dal Partito Comunista, per lasciare infine il Paese pochi giorni prima della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (1° ottobre 1949).
Uno stile unico in grado di cogliere l’immediatezza e la veridicità dell’«Istante decisivo». In questa prospettiva l’uso del bianco e nero nelle sue fotografie gli permette di evidenziare la forma e la sostanza della realtà. Ogni suo scatto è così in grado di cogliere la contemporaneità delle cose e della vita.
AlUla ospita Cortona On The Move Alula, prima edizione della manifestazione dedicata alla fotografia (9 febbraio-31 marzo 2022) in cui saranno esposte opere di 19 artisti provenienti da tutto il mondo, compresi fotografi dell’Arabia Saudita.
Cortona On The Move Alula, parte di AlUla Arts Festival nasce dalla collaborazione tra The Royal Commission for AlUla e Cortona On The Move – festival internazionale di fotografia con lo scopo di creare un’esperienza unica, site-responsive, nel villaggio AlJadidah di AlUla.
La prima edizione di Cortona On The Move Alula si intitola “Past Forward – Time, Life and Longing” dove le opere dei principali fotografi locali, regionali e internazionali saranno esposte nei cortili e lungo i muri, creando un emozionante viaggio di narrazione visiva.
Past Forward – Time, Life and Longing è co-curata da Arianna Rinaldo, curatrice e direttore artistico di Cortona On The Move dal 2012 al 2021, e dall’artista visiva e curatrice saudita Kholood AlBakr. Al centro del programma di mostre fotografiche è la dimensione del tempo che contraddistingue sia AlUla sia Cortona, luoghi in cui si respira l’eredità culturale della loro storia: AlUla nei meravigliosi deserti nel nord-ovest dell’Arabia Saudita e Cortona nel cuore storico dell’Italia.
Le mostre in programma:
Latif Al-Ani (Iraq) – A Tribute
Mohammed Al-Faraj (Arabia Saudita) – Guardians of the Oasis
Moath Al-Ofi (Arabia Saudita) – Thad (The Collection) 2019
Le mostre della Biennale della Fotografia Femminile
BFF, la Biennale della Fotografia femminile, si svolgerà a Mantova dal 3 al 27 marzo 2022. Siamo già alla seconda edizione, la prima, nel 2020 è stata sacrificata alle piattaforme online per via del Covid. La manifestazione coincide con l’apertura di altri festival che animeranno il centro urbano: BFF s’inserisce in quest’insenatura culturale, sventolando il vessillo della parità di genere. Il tema è “Legacy” “eredità”, parola che, in inglese, si tinge di un ventaglio ampio di significati indicando il bagaglio di creazioni che riserviamo alle generazioni future,oltre alle condizioni di vita con le quali nasciamoe affrontiamo la realtà; il “lascito” comprende l’eredità ambientale.
Con la selezione delle fotografe si cerca di rappresentare uno spaccato internazionale. Daniella Zalcman è una fotografa vietnamita-americana, fondatrice di Women Photograph, archivio mondiale di fotografie. Signs of Your Identity è sulla memoria dei nativi americani che si sono ritrovati inseriti in maniera traumatica in una cultura non loro. Solmaz Daryani fotografa iraniana, si interroga sul cambiamento climatico in The Eyes of Earth (The Death of Lake Urmia): il fenomeno di prosciugamento del lago influisce sull’economia locale. Myriam Meloni è italiana di base a Barcellona, Fragile, sui giovani dipendenti dal crack a Buenos Aires è riconosciuto patrimonio culturale della Repubblica Argentina. Con Insane Security si sofferma sulla polizia argentina, sugli abusi di potere e sulla corruzione. Delphine Diallo è franco-senegalese; antropologia, mitologia, arti marziali sono alcune delle ramificazioni toccate dalle sue fotografie, con Highness crea una serie di nuovi archetipi, scatti intimi che esplorano l’iconografia legata alle divinità e le tradizioni ritrattistiche. Infine Lumina Colletive, formato da 8 fotografe australiane, guarda alla storia del continente e alla cultura aborigena, poi l’italiana Flavia Rossi e molte altre protagoniste provenienti da tutto il mondo.
Prosegue il viaggio alla scoperta dei grandi artisti che parteciperanno alla prima edizione di MonFest 2022, la biennale internazionale di fotografia che si terrà a Casale Monferrato dal 25 marzo al 12 giugno prossimi.
Organizzato dal Comune di Casale Monferrato e curato dal direttore artistico Mariateresa Cerretelli, il MonFest vedrà al centro del progetto numerose mostre allestite nei luoghi più caratteristici e suggestivi della città.
Nei mesi scorsi si sono approfondite biografie ed esposizioni di Gabriele Basilico, Valentina Vannicola, Francesco Negri, Silvio Canini, Raoul Iacometti, Ilenio Celoria e Silvia Camporesi (quest’ultima vincitrice del concorso Storie di donne indetto dal club locale di Soroptimist), mentre adesso scopriremo le mostre di Lisetta Carmi, Vittore Fossati, Claudio Sabatino e Maurizio Galimberti.
Viaggio in Israele e Palestina. Fotografie 1962-1967, sarà l’attesa esposizione curata da Daria Carmi e Giovanni Battista Martini e dedicata a Lisetta Carmi, l’artista genovese che, dopo un inizio da musicista, avvia nel 1960 la carriera di fotografa, portandola negli anni a realizzare una serie di reportage dedicati alla sua città, Genova, ma anche a Sardegna, Sicilia, Parigi, America Latina e Israele, solo per citarne alcuni. Oltre a realizzare una serie di ritratti di artisti e personalità del mondo della cultura.
«Lisetta Carmi – ha sottolineato Daria Carmi – è una grande artista, il cui lavoro vive oggi un momento di riscoperta e attenzione. È il giusto riconoscimento alla sua ricerca e produzione fotografica in molti anni di attività, dove cifra estetica e valore documentale si sommano restituendo un lavoro prezioso e significante. Gli scatti sono circa trenta, di cui oltre due terzi inediti. Si tratta di una grande occasione per scoprire oggi e riconoscere come “parlante” e attuale quanto catturato da Lisetta Carmi oltre cinquanta anni fa».
«Tra i numerosi scatti realizzati in Israele durante i due soggiorni del 1962 e del 1967 – ha invece spiegato Giovanni Battista Martini –, ho scelto di evidenziare le immagini che sottolineassero il diverso sguardo con cui Lisetta Carmi ha osservato il paese. Nel primo grande reportage Carmi ha colto la complessa realtà di cui era costituito il nuovo Stato di Israele. Nel secondo e ultimo reportage, realizzato pochi giorni dopo la fine della Guerra dei Sei Giorni, Carmi richiama, attraverso il suo obiettivo, la nostra attenzione sui danni provocati dalla guerra nei villaggi e sulle condizioni di vita nei campi-profughi palestinesi».
Il Tanaro a Masio sarà la mostra di Vittore Fossati che raccoglie, come ricorda la curatrice Giovanna Calvenzi gli «appunti visivi» dell’artista alessandrino: «Come descrive lo stesso Fossati con il consueto understatement – ricorda ancora Calvenzi –: “Andando al paese dove lavoro, ogni tanto compio una piccola deviazione per raggiungere la sponda del fiume Tanaro in una località che si chiama Masio. Faccio un po’ di foto, velocemente, inquadrando con molta libertà nel display della fotocamera tascabile. Cosa c’è da vedere? Alberi, i colori del cielo e dell’acqua e un disegno di rami sempre diversi. Cosa c’è da fare? Oltre a qualche foto, soprattutto prendere una boccata d’aria fresca. È tutto”».
Nato nel 1954 ad Alessandria, dove abita, Vittore Fossati si occupa di fotografia dal 1977. Entrato in contatto con Luigi Ghirri, partecipa a molti dei progetti collettivi da lui promossi. Dagli anni Ottanta del secolo scorso svolge ricerche fotografiche commissionate da istituzioni ed enti pubblici.
Fotografare il Tempo, Pompei e dintorni di Claudio Sabatino è un’esposizione curata da Renata Ferri che descrive la mostra così: «Pompei, epica apocalisse, città sepolta e dimenticata per oltre 1700 anni, metafora del tempo imponderabile e della vulnerabilità umana, è l’oggetto della lunga ricerca fotografica di Claudio Sabatino. L’indagine, che conferma tutto il suo percorso artistico e professionale, ci conduce attraverso le stratificazioni della Storia per riflettere sulla relazione mutevole che il paesaggio intrattiene con il passato e il presente. Le rovine, magnifiche testimoni della catastrofe, e l’insediamento odierno, testimone della selvaggia espansione edilizia, danno vita a una relazione paradossale che ridefinisce in senso sociale il nostro patrimonio e la sua tutela. Con poetica precisione Sabatino racconta tanto l’archeologia quanto la città intorno, restituendo un affresco in cui lo splendore dei reperti millenari è costretto al dialogo assurdo con una desolante modernità. E forse, proprio da questa frattura, può emergere la struggente bellezza di un viaggio lungo tremila anni, ancora capace di emozionare».
Sabatino è nato a Castellammare di Stabia nel 1967, di formazione architetto, si dedica alla fotografia occupandosi principalmente della rappresentazione del paesaggio urbano. Durante gli studi viene selezionato per l’edizione di Napoli Fotocittà- Dintorni dello sguardo. Nel 1998 vince il premio Savignano Immagine a Forlì e nel 1999 il premio Marangoni a Firenze. Nel 2006 gli viene conferita una Menzione Speciale al Premio Internazionale Bari Photocamera, Bari.
Di Maurizio Galimberti, infine, il progetto Tributo a Leonardo, una reinterpretazione de L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci: «Un capolavoro che – ha spiegato la curatrice Mariateresa Cerretelli – per la potenza e per la bellezza dell’opera immensa ha ispirato esponenti di prima grandezza del mondo dell’arte, da Andy Warhol a Peter Greenaway, da Anish Kapoor fino ai Masbedo. Il Cenacolo vinciano reinterpretato dalla visione profonda e creativa di Maurizio Galimberti ed esposto nel Duomo di Casale Monferrato per il MonFest 2022, è il frutto di un progetto realizzato da un’idea comune dell’artista insieme al collezionista e amico Paolo Ludovici e ha richiesto un processo delicatissimo, mettendo in sinergia Polaroid / Fuji Instax e digitale. Ed è così che la sacralità e l’intensità sublime del Cenacolo vengono restituiti nella loro pienezza e quel ritmo, scandito dallo stile caratteristico dell’autore, forma un’armonia musicale, portatrice di grande spiritualità».
Nato a Como nel 1956, Galiberti si trasferisce a Milano dove oggi vive e lavora. Si accosta al mondo della fotografia analogica esordendo con l’utilizzo di una fotocamera a obiettivo rotante Widelux per poi nel 1983 focalizzare il suo impegno, in maniera radicale e definitiva, sulla Polaroid. Continua la sua ricerca con Polaroid e reinventa la tecnica del “Mosaico Fotografico” che inizialmente adatta ai ritratti. Il “Mosaico” diviene ben presto la tecnica per ritrarre non solo volti, ma anche paesaggi, architetture e città. Negli anni lavora per i più importanti brand nazionali e internazionali.
dal 25 marzo al 12 giugno 2022 – Casale Monferrato
Gli scatti fotografici del celebre Gerald Bruneau in una mostra per raccontare le donne che guidano primarie istituzioni culturali del nostro paese.
Apre il 3 marzo 2022 nelle Sale degli Arazzi a Palazzo Reale di Milano la mostra fotografica “Ritratte – Direttrici di musei italiani”, visitabile gratuitamente fino a domenica 3 aprile 2022.
Il progetto artistico con gli scatti d’autore del fotografo Gerald Bruneau si colloca nell’impegno della Fondazione Bracco per valorizzare le competenze femminili nei diversi campi del sapere e contribuire al superamento dei pregiudizi, così da incoraggiare una sempre più nutrita presenza di donne in posizioni apicali.
La mostra illumina vita e conquiste professionali di 22 donne alla guida di primarie istituzioni culturali del nostro Paese, una sorta di Gran Tour che tocca 14 importanti città italiane da Nord a Sud: da Trieste a Palermo, da Napoli a Venezia per citarne solo alcune. Il soggetto principale di “Ritratte” è la leadership al femminile. I musei, “luoghi sacri alle Muse”, sono spazi dedicati alla conservazione e alla valorizzazione del nostro patrimonio artistico, custodi del nostro passato e laboratori di pensiero per costruire il futuro. Inoltre, sono anche imprese con bilanci e piani finanziari, che contribuiscono in modo cruciale alla nostra economia. Dirigere tali istituzioni comporta competenze multidisciplinari, un connubio di profonda conoscenza della storia dell’arte e di capacità gestionali e creative.
Tra le protagoniste della mostra figurano i ritratti di Francesca Cappelletti, Direttrice della Galleria Borghese di Roma; Emanuela Daffra, Direttrice Regionale Musei della Lombardia; Flaminia Gennari Santori, Direttrice delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini di Roma; Anna Maria Montaldo, già Direttrice Area Polo Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Milano; Alfonsina Russo, Direttrice del Parco Archeologico del Colosseo; Virginia Villa, Direttrice Generale Fondazione Museo del Violino Antonio Stradivari di Cremona; Rossella Vodret, Storica dell’arte, già Soprintendente speciale per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Roma; Annalisa Zanni, Direttrice del Museo Poldi Pezzoli di Milano.
Fondazione Bracco da tempo è impegnata per contribuire alla costruzione di una società paritetica, in cui il merito sia il criterio per carriera e visibilità. Nel 2016 è nato a questo scopo il progetto “100 donne contro gli stereotipi” (100esperte.it) ideato dall’Osservatorio di Pavia e dall’Associazione Gi.U.Li.A., sviluppato con Fondazione Bracco, grazie alla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. La banca dati online raccoglie profili eccellenti di esperte, selezionate con criteri scientifici, in vari settori del sapere, strategici per lo sviluppo del Paese, allo scopo di aumentarne la visibilità sui media: l’ambito STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics – dal 2016), le esperte di Economia e Finanza (dal 2017), Politica Internazionale (dal 2019), Storia e della Filosofia (dal 2021). Basti pensare che secondo il Global Monitoring Project 2020 in Italia nei media tradizionali le donne interpellate come esperte sono solo il 12%, contro il 24% dell’Europa. Accanto alla banca dati online, Fondazione Bracco ha deciso di sviluppare una narrazione complementare. Nel 2019, sempre grazie alla collaborazione con Gerald Bruneau, è stata realizzata la mostra fotografica “Una vita da scienziata” con i ritratti di alcune delle più grandi scienziate italiane, da allora esposta in numerose sedi italiane e internazionali, tra cui Milano, Roma, Todi, Washington, Philadelphia, Chicago, Los Angeles, New York, Città del Messico e il prossimo 8 marzo a Praga.
In ottica di continuità e dialogo, l’esposizione “Ritratte”, dedicata al settore dei beni culturali, con il Patrocinio del Ministero della Cultura, aggiunge un importante tassello all’intervento di lotta agli stereotipi di genere e di promozione delle competenze, unico discrimine per qualsiasi sviluppo personale e collettivo.
“Siamo davvero riconoscenti a Diana Bracco e alla Fondazione per l’impegno instancabile a sostegno della leadership femminile in tutti i settori del sapere e del lavoro – ha dichiarato l’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi –. Un impegno che oggi viene declinato attraverso il tema del ritratto fotografico in una bellissima mostra d’arte che potrà essere ammirata liberamente da tutti i visitatori di Palazzo Reale. La mia riconoscenza va anche alle molte donne che a Milano sono impegnate in ambito museale e che, grazie alla loro competenza e alla loro passione, preservano, promuovono e arricchiscono il patrimonio artistico del nostro Paese”.
“Oggi alla guida di importanti istituzioni culturali del nostro Paese ci sono professioniste straordinarie che hanno raggiunto posizioni apicali grazie a competenze multidisciplinari, che uniscono una profonda conoscenza della storia dell’arte con capacità gestionali e creative” sottolinea Diana Bracco, Presidente di Fondazione Bracco. “Valorizzare le loro storie grazie agli scatti di Gerald Bruneau ci è sembrato importante per ispirare percorsi analoghi da parte delle più giovani. Con il progetto #100esperte della nostra Fondazione, vogliamo infatti incoraggiare la presenza femminile in tutti i campi: dalla scienza all’economia, dalla storia alla filosofia, dall’arte alle istituzioni.”
“Il mio intento è stato quello di mettere in risalto, insieme all’incommensurabile vastità e bellezza del patrimonio artistico italiano, la bellezza di queste donne che si impegnano quotidianamente per rimettere i musei al centro di una proposta culturale elaborata in rete insieme ai soggetti più rappresentativi delle realtà in cui sono immerse, invitano alla partecipazione, stimolano confronto e pensiero critico” afferma il fotografo Gerald Bruneau. “Donne che vogliono rendere i musei nuovi luoghi di incontro e di riflessione, di conoscenza e di comunicazione, valorizzando i capolavori storici e accogliendo nuove esperienze artistiche. E che, per questo, sperimentano nuove e creative modalità di proposta culturale. Se abbiamo la speranza che la bellezza possa salvare il mondo, tocca anche a noi, insieme a loro, salvare la bellezza.”
promossa e prodotta da Palazzo Reale, Comune di Milano Cultura e Fondazione Bracco con il patrocinio del Ministero della Cultura
Dal 3 marzo 2022 – al 3 aprile 2022 – Palazzo Reale Milano
Dal 5 febbraio al 5 giugno 2022 si terrà al Forte di Bard, in Valle d’Aosta, l’anteprima italiana della 57esima edizione di Wildlife Photographer of the Year, il più importante riconoscimento dedicato alla fotografia naturalistica promosso dal Natural History Museum di Londra. In mostra le cento migliori immagini selezionate tra gli oltre 50.000 scatti provenienti da fotografi di 95 Paesi del mondo, valutati da una giuria internazionale di stimati esperti e fotografi naturalisti. Le immagini immortalano natura e animali non solo nella loro bellezza e diversità, ma anche nella loro fragilità e sottolineano l’importanza di difendere e salvaguardare il Pianeta.
L’immagine vincitrice assoluta della nuova edizione è Creation scattata dal biologo francese e fotografo subacqueo Laurent Ballesta. Lo scatto ritrae un branco di cernie che nuotano in una nuvola lattiginosa nel momento della deposizione delle uova a Fakarava, Polinesia francese: un momento unico, che si verifica solo una volta all’anno, durante la luna piena di luglio, e sempre più raro dato che la specie è in via di estinzione minacciata dalla pesca intensiva. La laguna polinesiana è uno dei pochi posti in cui questi pesci riescono a vivere ancora liberi, perché è una riserva e per fotografarli, Ballesta si è appostato ogni anno per cinque anni insieme a tutto il suo team per raggiungere il risultato.
La Presidente della giuria, scrittrice ed editore, Rosamund Roz Kidman Cox Obe afferma: «L’immagine funziona su così tanti livelli: è sorprendente, energica, intrigante ed ha una bellezza ultraterrena. Cattura anche un momento magico – una creazione di vita davvero esplosiva – lasciando la coda dell’esodo delle uova sospesa per un istante, come un simbolico punto interrogativo». Doug Gurr, direttore del Museo di storia naturale, commenta: «Il vincitore del Grand Title di quest’anno rivela un mondo sottomarino nascosto, un fugace momento di un affascinante comportamento animale a cui pochissimi hanno assistito. In quello che potrebbe essere un anno cruciale per il Pianeta, Creation di Laurent Ballesta è un avvincente promemoria di ciò che potremmo perdere se non affrontiamo l’impatto dell’umanità sul nostro Pianeta».
L’altro ambito premio del concorso, il Young Wildlife Photographer of the Year 2021, è andato all’immagine Dome Home di Vidyun R Hebbar, un bambino di dieci anni di Bengaluru, in India, che ha scattato una foto spettacolare di un ragno sospeso all’interno di una fessura in un muro. «È un modo così fantasioso di fotografare un ragno. L’immagine è perfettamente inquadrata, la messa a fuoco è azzeccata. Si possono vedere le zanne del ragno e la trama folle della trappola, i fili come una delicata rete di nervi collegati alle zampe dell’animale. Ma la parte più originale è rappresentata dall’aggiunta di uno sfondo creativo: i colori vivaci di un risciò motorizzato», afferma Rosamund Roz Kidman Cox Obe. Natalie Cooper, ricercatrice del Museo di Storia Naturale e membro della giuria, commenta: «La giuria ha apprezzato questa foto sin dall’inizio del processo di valutazione. È un ottimo promemoria per guardare più da vicino i piccoli animali con cui viviamo ogni giorno e per portare la tua macchina fotografica con te ovunque. Non sai mai da dove potrebbe venire l’immagine premiata».
I due vincitori del Grand Title sono stati selezionati tra 19 vincitori di categoria che celebrano la bellezza accattivante del nostro mondo naturale con habitat ricchi di sfumature, affascinanti comportamenti animali e specie straordinarie. La competizione di quest’anno ha visto l’aggiunta di tre nuove categorie, tra cui Oceans – The Bigger Picture e Wetlands – The BiggerPicture per mettere in luce questi ecosistemi così cruciali per il Pianeta. In un intenso processo, ogni voce è stata giudicata anonimamente da una giuria di esperti per la sua originalità, narrativa, eccellenza tecnica e pratica etica. Cinque i fotografi italiani premiati: il valdostano Stefano Unterthiner ha vinto la sezione Behaviour: Mammals; menzioni speciali sono state conquistate da Mattia Terreo (categoria Under 10 anni), Giacomo Redaelli (categoria 15-17 anni), Georg Kantioler (Urban Wildlife) e da Bruno D’Amicis (Fotogiornalismo).
Dal 05 Febbraio 2022 al 05 Giugno 2022 – Forte di Bard Aosta
Dal 19 marzo al 26 giugno 2022 il Magazzino delle Idee di Trieste presenta la mostra Io, lei, l’altra – Ritratti e autoritratti fotografici di donne artiste, a cura di Guido Comis in collaborazione con Simona Cossu e Alessandra Paulitti. Prodotta e organizzata da ERPAC – Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia – l’esposizione ripercorre, attraverso novanta opere, la fotografia degli ultimi cento anni e permette di valutare la nuova concezione della donna e il suo ruolo attraverso una successione di straordinarie immagini da Wanda Wulz a Cindy Sherman, da Florence Henri a Nan Goldin.
Il ritratto e l’autoritratto fotografico sono una testimonianza straordinaria del difficile processo di affermazione di sé e della conquista di una nuova identità sociale da parte delle artiste donne nel Novecento e nei primi anni del nuovo secolo. I ritratti e gli autoritratti sono luoghi di confronto, ma anche di conflitto fra espressioni diverse dell’identità. A forme convenzionali di rappresentazione si contrappongono nuovi modi di esprimere la propria personalità; i ruoli consolidati della rappresentazione della donna, le pose ripetitive mutuate dai ritratti tradizionali cedono spazio a modalità di espressione inedite.
Da modella al servizio di un artista la donna si trasforma in figura attiva e creativa. Ai ritratti eseguiti da uomini – come Man Ray, Edward Weston, Henry Cartier-Bresson, Robert Mapplethorpe, solo per citare alcuni dei fotografi presentati in mostra – si accostano ritratti e autoritratti di donne artiste e fotografe, tra cui Wanda Wulz, Inge Morath, Vivian Maier, Nan Goldin, Cindy Sherman, Marina Abramović.
La mostra è suddivisa in sezioni, ognuna delle quali rende conto di una diversa forma di rappresentazione dei ruoli che le donne interpretano nelle fotografie. La sezione “Artiste e modelle” è dedicata alle donne che sono state creatrici e allo stesso tempo hanno prestato i loro volti e i loro corpi per opere altrui, come è il caso di Meret Oppenheim, Tina Modotti, Dora Maar.
La sezione intitolata “Il corpo in frammenti” raccoglie gli autoritratti che restituiscono immagini di corpi parziali, riflessi in specchi fratturati, con l’epidermide percorsa da linee che ne interrompono l’integrità, come se in ciò si rispecchiasse la difficoltà di rappresentarsi. I ritratti degli anni Settanta che hanno per protagoniste Valie Export, Jo Spence e Renate Bertlmann mimano ironicamente l’immagine tradizionale della donna come madre, donna di casa o oggetto sessuale. “Una, nessuna e centomila” raccoglie gli autoritratti delle artiste che, da Claude Cahun a Cindy Sherman, hanno utilizzato il proprio corpo per interpretare attraverso mascheramenti identità o stereotipi diversi. Un’altra sezione affronta il tema degli stereotipi nella rappresentazione dalle identità culturali e sessuali, un’altra ancora a quelli nella definizione dei canoni di bellezza mentre alcune fotografie sono dedicate ad artiste accanto a proprie creazioni come nel caso del celeberrimo ritratto di Louise Bourgeois eseguito da Robert Mapplethorpe.
La mostra è accompagnata dal catalogo Io, lei l’altra – Ritratti e autoritratti fotografici di donne artiste edito da Skira con immagini di tutte le opere esposte e testi di approfondimento di Guido Comis, Anne Morin, Giampiero Mughini, Anna D’Elia, Laura Leonelli e Alessandra Paulitti.
Dal 18 Marzo 2022 al 26 Giugno 2022 – Magazzino delle Idee Trieste
L’agenzIa del turismo di Varese definisce il proprio territorio “The blue green land”, dove è possibile “cogliere la bellezza blue-green del territorio caratterizzato da laghi a ridosso di valli, colline, squisiti borghi a loro volta affondati nel verde e nella storia”.
Ma i dintorni del lago di Varese sembrano piuttosto una cartolina sgualcita degli anni ’90.
Imponenti costruzioni ormai in disuso, lascito del ricco passato industriale, si alternano a nuove iniziative immobiliari, a piccole attività familiari e ad ampi spazi vuoti.
Un piccolo specchio d’acqua viscosa, nel quale non è permesso fare il bagno, è il centro di un paesaggio culturale intriso dai rituali della piccola borghesia lombarda.
La messa della domenica e la festa degli alpini, la spesa del sabato mattina e la passeggiata nel parco, l’auto parcheggiata davanti a casa, il matrimonio con vista lago, il giornale sul tavolo del bar, il giro in bicicletta.
La provincia di Varese è il luogo comune di famiglia.
È un padre generoso dedito al lavoro e una madre che si commuove ogni volta che te ne vai e che quando torni ti chiede soltanto “cosa ti preparo da mangiare?”.
Mostra curata da Laura Davì
Dal 5 marzo 2022 – Premiato Biscottificio – Varese
Dal 12 febbraio all’8 maggio 2022, il WeGil di Roma, hub culturale della Regione Lazio nel quartiere Trastevere, ospita “Alberto di Lenardo. Lo sguardo inedito di un grande fotografo italiano”, la mostra dedicata a un autore del secondo Novecento rimasto letteralmente nascosto in soffitta e il cui lavoro verrà proposto per la prima volta al pubblico in questa esposizione inedita ed emozionante.
Il progetto è curato daCarlotta di Lenardo, nipote del fotografo, che ne ha svelato il talento dopo la sua morte, avvenuta nel 2018, dando vita al volume “An Attic Full of Trains”, della casa editrice londinese MACK, in cui è raccolta una selezione dello sterminato archivio di immagini ereditato dal nonno. La mostra esposta al WeGil è promossa dalla Regione Lazio ed è realizzata da LAZIOcrea in collaborazione con Creation s.r.l.. Uno scorcio del passato del nostro paese attraverso lo sguardo di un autore rimasto sconosciuto fino alla sua morte. Con questa retrospettiva, il WeGil torna a ospitare la grande fotografia ma lo fa, questa volta, puntando l’obiettivo sul patrimonio artistico nascosto del nostro paese.
“Alberto di Lenardo. Lo sguardo inedito di un grande fotografo italiano” raccoglie 154 immagini che raccontano uno spaccato di vita personale del fotografo: spiagge, montagne, bar, viaggi in auto catturati nei loro colori più vividi e che portano con sé il segno e la bellezza del tempo. Negli scatti di Alberto di Lenardo si ritrova la poesia dei sentimenti che non possono essere espressi a parole ma che, attraverso la pellicola, vengono fissati in un ricordo, condividendo quelle stesse emozioni che il fotografo provò nel mostrare le proprie memorie alla nipote.
Carlotta di Lenardo racconta come, appena sedicenne, durante un pranzo di famiglia, il nonno volle parlarle della sua grande passione per la fotografia e condividere con lei il suo archivio di oltre 10.000 scatti. “Mio nonno ha sempre amato fotografare e ha continuato a farlo per tutta la vita. Era il suo modo di comunicare i suoi sentimenti e gli permetteva di rivelare emozioni che la sua generazione faticava ad esprimere a parole. Le sue immagini riflettono accuratamente la sua serenità interiore, uno stato d’animo che ha sempre cercato di trasmetterci, e allo stesso tempo manifestano la sua costante ricerca di uno scatto rubato e mai banale. Preferiva infatti che i suoi soggetti fossero quasi sempre ignari della macchina fotografica, così da essere spontanei e reali, un puro riflesso del momento. Queste immagini e il modo in cui lui si emozionava mentre le condivideva con me, disegnandole nella sua incredibile e dettagliata memoria, mi hanno fatto innamorare della fotografia e hanno condizionato la mia intera vita lavorativa in questo campo. La fotografia era qualcosa di nostro, qualcosa che lui ed io condividevamo e custodivamo gelosamente”.
Il progetto espositivo porta al pubblico un ritratto intimo e colorato del lavoro fotografico di Alberto Di Lenardo, svolto in oltre sessant’anni di attività. La mostra costituisce un’opportunità davvero unica di consegnare un nome nuovo alla storia della fotografia. In un’epoca che vede il moltiplicarsi di esposizioni dedicate ai grandi maestri o agli interpreti dell’arte visiva a loro ispirati, lo sguardo di Alberto di Lenardo emerge per un suo personalissimo stile che vede l’uso costante di cornici e finestrature che fermano nel tempo momenti di vita vissuta.
La mostra si divide in tre sezioni: nella prima, il lavoro di selezione operato da Carlotta di Lenardo rivela un’estetica e una lettura del mondo comuni tra lei e il nonno: una narrazione intima tra lo sguardo del fotografo e quello della nipote. La seconda sezione, più raccolta, comprende scatti in qualche modo autobiografici, con alcune immagini in bianco e nero, scattate dal fotografo a partire dall’età di 18 anni, un autoritratto e tre ritratti fatti dalla curatrice durante un pranzo di famiglia nel 2013. Immagini che ripercorrono la storia personale dell’autore e che aiutano a comprendere tre aspetti fondamentali della personalità dell’artista di Lenardo: austera, solare e sempre autoironica. La terza sezione è composta da 9 pareti tematiche che ripropongono situazioni ricorrenti su cui il fotografo amava puntare l’obiettivo e che si ripresentano quindi costantemente in tutto il suo archivio: parchi di divertimento, ritratti di persone che prendono il sole o guardano l’orizzonte, strade e vedute da macchine e aerei, terminando infine con alcune delle diapositive su cui era solito scrivere la parola “FINE”, per indicare appunto, la fine di un viaggio.
Dal 13 Febbraio 2022 al 08 Maggio 2022 – WeGil – Roma
Si inaugura martedì 8 marzo presso lo spazio The Warehouse, in Via Settala 41 a Milano,la mostra fotografica Sul Sentiero del Bene di Stefano Lotumolo.
La mostra, a cura di Ludovica Cristofaro, ha il patrocinio dell’associazione onlus Epsilon in collaborazione con Radici Globali. Partner del progetto,l’agenzia di comunicazione Theoria,che ha aderito all’iniziativa mettendo a disposizione gratuitamente lo spazio che ospiterà la mostra.
Il progetto fotografico Sul Sentiero del Bene è composto da 72 scatti catturati tra Asia e Africa, che Stefano definisce i più significativi della sua rivoluzione interiore. Nelle sue immagini, Stefano vuole immortalare l’armonia e la bellezza delle popolazioni nella loro quotidianità nonostante situazioni di vita difficili.
Se le foto dedicate all’Asia svelano soprattutto la spiritualità di quei popoli, quelle della Tanzania mostrano la realtà particolarmente cruda di interi nuclei familiari costretti a bere dalle pozzanghere di acqua contaminata.
“Attraverso la fotografia, cerco di trasmettere l’amore e il rispetto che nutro per la vita, dando voce a chi non ne ha e mostrando l’essere umano per come lo vedono i miei occhi e lo percepisce il mio cuore”, spiega Stefano Lotumolo.
Una mostra che è sintesi perfetta tra cultura e solidarietà. Le opere in mostra e il relativo merchandising saranno infatti in vendita e il ricavato – insieme alle donazioni libere – sarà destinato alla raccolta fondi per la costruzione di 3 pozzi nei villaggi Maasai di Mkuru, Madape e Engikaret, nel nord della Tanzania.
Epsilon e Radici Globali uniranno le forze per la realizzazione di questo progetto, che vuole essere il primo passo di un impegno a lungo termine per sostenere il popolo Maasai nell’approvvigionamento idrico delle proprie terre e nella riforestazione.
Sul Sentiero Del Benesarà aperta al pubblico dall’8 al 27 marzo dal lunedì al venerdì dalle 15.30 alle 20.00 e sabato e domenica dalle 11.00 alle 20.00.
“Renato Corsini gira il mondo con un telo sulle spalle, una Leica, uno spazzolino da denti, un dentifricio e un impermeabile. Il telo gli serve per creare un set mobile e leggero da montare e smontare nelle situazioni più difficili. L’impermeabile gli serve se piove per riparare la macchina fotografica…”. Inizia così il testo di Massimo Minini tratto dal libro Renato Corsini “ambulante” – storie di fotografia in giro per il mondo, MF edizioni, le cui fotografie saranno esposte alla Fondazione Mudima a partire dal 15 febbraio 2022. Renato Corsini è un fotoreporter che decide di allestire nei mercati, nei luoghi di ritrovo dei paesi un’improvvisata sala di posa all’aperto. Monta il telone alle spalle del soggetto, pone una sedia davanti al telone e di fronte la sua macchina fotografica su cavalletto. Il set è fatto. Vi poseranno decine di visitatori, famiglie, giovani, coppie, singoli individui, mostrando i loro volti, ma soprattutto le loro fogge, offrendo un affascinante regesto di tipi umani. Nessuna pretesa di artisticità, ma preziosi documenti usciti dall’archivio privato del “fotografo ambulante” che va a cercare la vita negli angoli più remoti del pianeta; un fram- mento di società che si mostra, si rappresenta consegnando ai posteri l’immagine di sé. Attento osservatore dei costumi della sua epoca, legato alla tradizione della fotografia lieve e ironica, Corsini smaschera il gioco della rappresentazione e svela uno scenario sociale in cui il gesto del fotografare e del farsi fotografare è sempre più una componente integrante e costante dell’orizzonte visivo. Dischiude sguardi e solleva interrogativi sulla fenomeno- logia di una pratica che si è imposta a livello di massa negli anni Sessanta del Novecento con la diffusione delle macchine fotografiche automatiche e che subisce oggi una nuova accelerazione con la svolta del digitale e i nuovi media. La mostra, costituita da oltre un centinaio di scatti, mette in luce il ruolo centrale assun- to dalla fotografia come testimone della realtà sociale e dei suoi mutamenti. Corsini ne annota le trame del vivere, restituendo pagine vivide e suggestive. Codifica linguaggi ed espressioni in lessici autentici e originali. Empatico e mai banale, lirica e pura è la sua prosa.
Dal 15 Febbraio 2022 al 18 Marzo 2022 – Fondazione Mudima – Milano
FRANCESCO MALAVOLTA. VOLTI AL FUTURO. VENTI RITRATTI DI RIFUGIATI CHE SI RACCONTANO IN BIBLIOTECA
Francesco Malavolta. Volti al futuro. Venti ritratti di rifugiati che si raccontano in biblioteca, Biblioteca Europea, Roma
Una suggestiva galleria di volti e storie che dialogano con la biblioteca e coinvolgono i suoi frequentatori. La Biblioteca Europa ospita l’emozianante mostra fotografica che il Centro Astalli, per i suoi 40 anni di attività, ha fatto realizzare da Francesco Malavolta, il fotoreporter impegnato da oltre vent’anni lungo le principali rotte migratorie, terrestri e marittime, nel mondo. Scatti fotografici con cui il fotografo ha voluto raccontare passato, presente e futuro dei rifugiati e delle rifugiate di Astalli. Un invito a condividere l’intensità dei volti e delle storie che accompagnano i ritratti: brevi racconti di chi è fuggito da persecuzioni e violenze, rischiando la vita, alla ricerca di un futuro diverso.
Dal 20 Gennaio 2022 al 12 Marzo 2022- Biblioteca Europea ROMA
un mese così ricco di mostre fantastiche non credo di averlo mai visto. Vi faccio solo qualche nome: Cartier-Bresson, Bourke-White, Doisneau.
Non aggiungo altro. Date un’occhiata e sono certa troverete qualcosa che non vorrete perdervi.
Compatibilmente con le conseguenze legate alla situazione, le mostre saranno visitabili anche quando potremo visitarle.
Anna
Massimo Vitali – Costellazioni Umane
La mostra si articola in circa 30 opere scelte in venticinque anni di produzione dell’artista. Il percorso espositivo non scandito in ordine cronologico è, a tutti gli effetti, una sorta di mostra antologica. Per chi conosce l’opera di Vitali sarà importante ritrovare le spiagge italiane assolate e gremite di gente in vacanza (1995), ma sarà anche una sorpresa vedere, per la prima volta in assoluto, gli scatti dei concerti di Jovanotti nel suo ultimo tour italiano del 2019. L’opera di Massimo Vitali attinge esteticamente alla storia dell’arte e non solo a quella della fotografia.
Italiano d’origine, anglosassone di formazione e con una visione internazionale e attenta all’evolversi della ricerca d’avanguardia a cavallo tra il secolo scorso e quello attuale, l’artista appare come un fotografo incline a non lasciare tracce nelle sue opere di momenti legati a fatti storici identificabili. Il suo mondo estremamente raggelato e cristallizzato, appare come sospeso in un fermo immagine cinematografico. Non vi sono mai dettagli identificabili con fatti storici attuali, se non per i titoli che, talvolta, rimandano a raduni affollati o a serate di divertimento in discoteca.
La sua opera appare come conseguente a un periodo “illuminista”, dove vengono registrati luoghi che, al di là del loro interesse geografico, paesaggistico o atmosferico, sono immortalati per ciò che sono e “catturati” da un occhio algido e preciso per quantità di dettagli e particolari illustrati fino al parossismo. Le costruzioni vengono restituite in tutta la loro identità e fisicità architettonica; le montagne sono riprese, per quanto impossibile, fino all’ultima roccia e lichene; le spiagge e le dune di sabbia, ammorbidite dai riflessi e dalle ombre percepibili fino all’orizzonte. Come Canaletto e molta della pittura settecentesca, il suo occhio capta ogni minimo dettaglio e lo trasferisce sulla carta fotografica in modo realistico e analitico. L’atmosfera – per intenderci quella leonardesca dello sfumato e della percezione spaziale della nebulizzazione nell’aria dell’acqua e della polvere – è inesistente nelle sue fotografie. Tutto è definito. Come in Canaletto le figurine poi recitano parti di una commedia scritta in modo corale, le persone appaiono come dirette da un regista fuori scena e obbediscono a dettami predefiniti anche se in modo ovviamente inconscio. Tutto è proiettato su uno schermo in cui i protagonisti recitano, come attori istruiti, parti a loro destinate dai fatti contingenti. I titoli delle opere tendono a confondere lo spettatore come se l’artista avesse destinato, alle persone ritratte, parti precise e ruoli da primo attore. In opere come De Haan Kiss (2001), in cui due ragazzi in primo piano si scambiano un bacio, o in Cefalù Orange Yellow Blue (2008), dove vi sono costumi da bagno colorati, è il caso che determina il titolo dell’opera deciso in post produzione dopo un attento riesame della fotografia.
Invece, in opere come Carcavelos Pier Paddle (2016), il ragazzino – che sulla sinistra dell’opera è immortalato per sempre nel suo tuffo acrobatico, riprendendo la grande storia delle immagini sportive, dal tuffatore del notissimo affresco di epoca romana a Paestum fino al Tuffatore (1951) di Nino Migliori – non dà nessun titolo all’opera, pur avendone “pieno diritto”. Ciò non significa comunque che le opere di Vitali siano dei “d’après” ma, al contrario, sono degli originali che continuano la storia della fotografia in modo innovativo e personale. L’opera di Vitali è – dopo oltre trent’anni di lavoro – quella di un grande autore classico, totalmente immerso nella storia dell’arte italiana e internazionale, che lo colloca fra i maggiori artisti dei nostri tempi. Due volumi antologici, editi da Steidl, documentano il lavoro dell’artista con le riproduzioni di tutte le opere esposte.
dal 26 febbraio al 5 luglio 2020 – Museo Ettore Fico di Torino
Palazzo Grassi presenta “Henri Cartier-Bresson: Le Grand Jeu”, realizzata con la Bibliothèque nationale de France e in collaborazione con la Fondation Henri Cartier-Bresson.
Il progetto della mostra, ideato e coordinato da Matthieu Humery, mette a confronto lo sguardo di cinque curatori sull’opera di Cartier-Bresson (1908 – 2004), e in particolare sulla “Master Collection”, una selezione di 385 immagini che l’artista ha individuato agli inizi degli Settanta, su invito dei suoi amici collezionisti Jean e Dominique de Menil, come le più significative della sua opera.
La fotografa Annie Leibovitz, il regista Wim Wenders, lo scrittore Javier Cercas, la conservatrice e direttrice del dipartimento di Stampe e Fotografia della Bibliothèque nationale de France Sylvie Aubenas, il collezionista François Pinault, sono stati invitati a loro volta a scegliere ciascuno una cinquantina di immagini a partire dalla “Master Collection” originale, della quale esistono cinque esemplari.
Attraverso la loro selezione, ognuno di loro condivide la propria visione personale della fotografia, e dell’opera di questo grande artista. Rinnovare e arricchire il nostro sguardo sull’opera di Henri Cartier-Bresson attraverso quello di cinque personalità diverse è la sfida del progetto espositivo “Le Grand Jeu” a Palazzo Grassi.
La mostra “Henri Cartier-Bresson: Le Grand Jeu” sarà presentata alla Bibliothèque nationale de France, a Parigi, nella primavera 2021.
Dal 22 Marzo 2020 al 10 Gennaio 2021 – Venezia Palazzo Grassi
Insieme alla mostra dedicata a Henri Cartier-Bresson, a cui sarà riservato il primo piano espositivo, Palazzo Grassi presenta una mostra monografica dedicata all’artista Youssef Nabil (Il Cairo, 1972), dal titolo “Once Upon a Dream” e curata da Matthieu Humery e Jean-Jacques Aillagon.
Realizzate con la tecnica tradizionale egiziana largamente utilizzata per i ritratti fotografici di famiglia e per i manifesti dei film che popolavano le strade de Il Cairo, le fotografie successivamente dipinte a mano da Youssef Nabil restituiscono la suggestione di un Egitto leggendario tra simbolismo e astrazione.
La ricerca dei reperti identitari, le preoccupazioni ideologiche, sociali e politiche del XXI secolo, la malinconia di un passato lontano sono i soggetti che Nabil predilige nella sua ricerca artistica. L’esposizione intende invitare a un’immersione libera nella carriera dell’artista attraverso sezioni tematiche che riproducono i suoi primi lavori fino alle opere più recenti. Ad arricchire il percorso la produzione video di Nabil con i suoi tre video Arabian Happy Ending, I Saved My Belly Dancer e You Never Left.
La mostra raccoglie, in una selezione del tutto inedita, le più straordinarie immagini realizzate da Margaret Bourke-White – tra le figure più rappresentative ed emblematiche del fotogiornalismo – nel corso della sua lunga carriera. Accanto alle fotografie, una serie di documenti e immagini personali, video e testi autobiografici, raccontano la personalità di un’importante fotografa, una grande donna, la sua visione e la sua vita controcorrente.
Sarà possibile ammirare oltre 100 immagini, provenienti dall’archivio Life di New York e divise in 10 gruppi tematici che, in una visione cronologica, rintracciano il filo del percorso esistenziale di Margaret Bourke-White e mostrano la sua capacità visionaria e insieme narrativa, in grado di comporre “storie” fotografiche dense e folgoranti.
L’esposizione rientra ne “I talenti delle donne”, un palinsesto promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano dedicato all’universo delle donne, focalizzando l’attenzione di un intero anno – il 2020 – sulle loro opere, le loro priorità, le loro capacità. Si vuole rendere visibili i contributi che le donne nel corso del tempo hanno offerto e offrono in tutte le aree della vita collettiva, a partire da quella culturale ma anche in ambito scientifico e imprenditoriale, al progresso dell’umanità.
L’obiettivo è non solo produrre nuovi livelli di consapevolezza sul ruolo delle figure femminili nella vita sociale ma anche aiutare concretamente a perseguire quel principio di equità e di pari opportunità che, dalla nostra Costituzione, deve potersi trasferire nelle rappresentazioni e culture quotidiane.
Dal 18 Marzo 2020 al 28 Giugno 2020 – Palazzo Reale MILANO
Dal 6 marzo al 21 giugno 2020 Palazzo Pallavicini ospita un’importante retrospettiva dedicata al grande fotografo parigino Robert Doisneau (Gentilly, 14 aprile 1912 – Montrouge, 1º aprile 1994), celebre per il suo approccio poetico alla street photography, autore di Le baiser de l’hôtel de ville, una delle immagini più famose della storia della fotografia del secondo dopoguerra.
La mostra è curata dall’Atelier Robert Doisneau, creato da Francine Deroudille e Annette Doisneau per conservare e rappresentare le opere del fotografo, ed è organizzata da Pallavicini s.r.l. di Chiara Campagnoli, Deborah Petroni e Rubens Fogacci in collaborazione con diChroma photography.
Sono 143 le opere in mostra nelle prestigiose sale di Via San Felice, tutte provenienti dall’Atelier. L’esposizione è il risultato di un ambizioso progetto del 1986 di Francine Deroudille e della sorella Annette – le figlie di Robert Doisneau – che hanno selezionato da 450.000 negativi, prodotti in oltre 60 anni di attività dell’artista, le immagini della mostra che ci raccontano l’appassionante storia autobiografica dell’artista.
I sobborghi grigi delle periferie parigine, le fabbriche, i piccoli negozi, i bambini solitari o ribelli, la guerra dalla parte della Resistenza, il popolo parigino al lavoro o in festa, gli scorci nella campagna francese, gli incontri con artisti e le celebrità dell’epoca, il mondo della moda e i personaggi eccentrici incontrati nei caffè parigini, sono i protagonisti del racconto fotografico di un mondo che “non ha nulla a che fare con la realtà, ma è infinitamente più interessante”. Doisneau non cattura la vita così come si presenta, ma come vuole che sia. Di natura ribelle, il suo lavoro è intriso di momenti di disobbedienza e di rifiuto per le regole stabilite, di immagini giocose e ironiche giustapposizioni di elementi tradizionali e anticonformisti.
Influenzato dall’opera di André Kertész, Eugène Atget e Henri Cartier-Bresson, Doisneau conferisce importanza e dignità alla cultura di strada, con una particolare attenzione per i bambini, di cui coglie momenti di libertà e di gioco fuori dal controllo dei genitori, trasmettendoci una visione affascinante della fragilità umana.
Le meraviglie della vita quotidiana sono così eccitanti; nessun regista può ricreare l’inaspettato che trovi per strada. Robert Doisneau
Dal 06 Marzo 2020 al 21 Giugno 2020 – Palazzo Pallavicini – Bologna
In occasione della settimana della moda di Milano, Giorgio Armani inaugura negli spazi di Armani/Silos la nuova mostra dedicata al lavoro del fotografo Peter Lindbergh. Intitolata Heimat. A Sense of Belonging, la mostra presenta un’ampia selezione dell’opera di Lindbergh, percorrendo vari decenni del lavoro del fotografo, pubblicato come inedito.
Curata personalmente da Giorgio Armani in collaborazione con la Fondazione Peter Lindbergh, la mostra evidenzia le straordinarie affinità tra due figure visionarie, il cui originale senso di identità ha definito standard molto personali e molto alti, tanto nell’arte quanto nella vita. Giorgio Armani e Peter Lindbergh hanno condiviso valori che hanno permeato tutta la loro estetica. In particolare, l’apprezzamento per la verità e l’anima che da essa emana, e la ricerca dell’onestà in opposizione all’artificio, hanno dato vita a una stretta collaborazione iniziata negli anni Ottanta e proseguita nel corso delle rispettive carriere.
Incentrata sugli aspetti noti e meno noti del lavoro di Lindbergh e allestita al piano terra di Armani/Silos, Heimat. A Sense of Belonging si sviluppa come un movimento in tre sezioni. Il punto di vista unico del fotografo, la sua idea di spazio e di bellezza, la sua estetica inconfondibile e le sue fonti di ispirazione si svelano in un viaggio che va oltre l’idea della fotografia di moda. Si parte dai ritratti di The Naked Truth, si prosegue con le possenti atmosfere di Heimat, si conclude con la sorprendente schiettezza delle immagini di The Modern Heroine.
La comprensione della femminilità dimostrata da Lindbergh, il suo interesse per la personalità e la sua propensione per la verità, lo hanno sempre distinto dai suoi colleghi. C’è un’onestà intrinseca nel lavoro di Lindbergh che è strettamente legata alla sua stessa Heimat. La parola Heimat, in tedesco, significa qualcosa di più di casa: è un luogo del cuore, il luogo a cui si appartiene. Per Lindbergh, Heimat é il background industriale di Duisburg, con le sue fabbriche, la nebbia, il metallo e il cemento. L’estetica della Berlino degli anni ’20 ha lasciato un’altra indelebile impronta nel suo lavoro. Attraverso il filtro di uno sguardo pieno di umanità, tali spunti hanno generato un senso di cruda bellezza che connota l’intera opera del fotografo.
Il cuore della mostra ospitata nell’Armani/Silos ruota intorno a immagini in cui l’espressivo ambiente industriale è qualcosa di più di un semplice sfondo: un protagonista narrativo, splendidamente nudo nella sua verità, così come lo sono i ritratti di Lindbergh, sempre spogli da qualsiasi artificio, insieme alla sua idea di eroina moderna come donna piena di potere, che mostra con orgoglio i segni dell’età e del tempo. All’interno di questi tre movimenti, Heimat descrive la complessità e l’immediatezza dell’opera di Lindbergh, e la sua atemporalità.
“Ho sempre ammirato Peter per la coerenza e l’intensità del suo lavoro. Essere senza tempo è una qualità a cui aspiro personalmente, e che Peter sicuramente possedeva. Con questa mostra all’Armani/Silos voglio rendere omaggio a un compagno di lavoro meraviglioso il cui amore per la bellezza rappresenta un contributo indelebile per la nostra cultura, non soltanto per la moda” afferma Giorgio Armani.
Noto per le sue immagini cinematografiche, Peter Lindbergh (1944-2019) nasce a Leszno, in Polonia, e trascorre l’infanzia a Duisburg (Renania Settentrionale-Vestfalia). Studia belle arti a Berlino e pittura a Krefeld, rivolgendo il suo interesse alla fotografia dopo essersi trasferito a Düsseldorf nel 1971. Entrato a far parte della famiglia della rivista Stern insieme a leggende della fotografia quali Helmut Newton, Guy Bourdin e Hans Feurer, si trasferisce a Parigi nel 1978 per proseguire la carriera. In poco tempo Lindbergh introduce una forma di nuovo realismo, dando priorità all’anima e alla personalità dei suoi soggetti, modificando così in modo definitivo gli standard della fotografia di moda, e allontanandosi dagli stereotipi riguardanti età e bellezza. Il suo lavoro è conosciuto soprattutto per i ritratti semplici e rivelatori, e per le forti influenze esercitate su di esso dal cinema tedesco e dall’ambiente industriale della sua infanzia.
Dalla fine degli anni Settanta, Peter Lindbergh ha collaborato con prestigiose riviste, tra cui l’edizione americana e italiana di Vogue, Rolling Stone, Vanity Fair, l’edizione americana di Harper’s Bazaar, Wall Street Journal Magazine, Visionaire, Interview e W. Ha realizzato le foto di tre calendari Pirelli, rispettivamente nel 1996, 2002 e 2017, e i suoi lavori sono presenti nelle collezioni permanenti del Victoria & Albert Museum (Londra), del Centre Pompidou (Parigi), del MoMA PS1 (New York). Sue mostre personali sono state ospitate all’Hamburger Banhof (Berlino), al Bunkamura Museum of Art (Tokyo), al Pushkin Museum of Fine Arts (Mosca) alla Kunsthal di Rotterdam, alla Kunsthalle di Monaco di Baviera, alla Reggia di Venaria (Torino) e al Kunstpalast (Düsseldorf).
Peter Lindbergh ha diretto una serie di film e documentari acclamati dalla critica: Models, The Film (1991); Inner Voices (1999), che si è guadagnato il premio Best Documentary al Toronto International Film Festival (TIFF) nel 2000; Pina Bausch, Der Fensterputzer (2001) e Everywhere at Once (2007), con la voce narrante di Jeanne Moreau, presentato a Cannes e al Tribeca Film Festival.
Dal 22 Febbraio 2020 al 02 Agosto 2020 – Armani/Silos – Milano
Inaugura venerdì 21 febbraio al WeGil, l’hub culturale della Regione Lazio a Trastevere, ELLIOTT ERWITTICONS, la mostra a cura di Biba Giacchetti che celebra uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea. In programma dal 22 febbraio al 17 maggio 2020, la retrospettiva, promossa dalla Regione Lazio e organizzata da LAZIOcrea in collaborazione con SudEst57, raccoglie settanta degli scatti più celebri di Erwitt: uno spaccato della storia e del costume del Novecento visti attraverso lo sguardo tipicamente ironico del fotografo, specchio della sua vena surreale e romantica.
L’obiettivo di Erwitt ha catturato alcuni degli istanti fondamentali della storia del secolo scorso che, grazie alle sue fotografie, sono rimasti impressi nell’immaginario collettivo. Tra le foto in mostra, non mancheranno i celebri ritratti di Che Guevara, Marlene Dietrich e la famosa serie dedicata a Marilyn Monroe. Il pubblico potrà ammirare alcuni degli scatti più iconici e amati di Erwitt come il “California Kiss” in cui emerge la vena più romantica del maestro.
Completa l’esposizione il catalogo della mostra a cura di SudEst57 in cui ogni fotografia è accompagnata da un dialogo tra Elliott Erwitt e Biba Giacchetti attraverso cui scoprire i segreti, le avventure e il senso di ognuna di esse.
Dal 21 Febbraio 2020 al 17 Maggio 2020 – WeGil – Roma
Toward the end of her life, Dorothea Lange (1895–1965) reflected, “All photographs—not only those that are so called ‘documentary’…can be fortified by words.” A committed social observer, Lange paid sharp attention to the human condition, conveying stories of everyday life through her photographs and the voices they drew in. Dorothea Lange: Words & Pictures, the first major MoMA exhibition of Lange’s in 50 years, brings iconic works from the collection together with less seen photographs—from early street photography to projects on criminal justice reform. The work’s complex relationships to words show Lange’s interest in art’s power to deliver public awareness and to connect to intimate narratives in the world.
In her landmark 1939 photobook An American Exodus—a central focus of the show—Lange experiments with combining words and pictures to convey the human impact of Dust Bowl migration. Conceived in collaboration with her husband, agricultural economist Paul Taylor, the book weaves together field notes, folk song lyrics, newspaper excerpts, and observations from contemporary sociologists. These are accompanied by a chorus of first-person quotations from the sharecroppers, displaced families, and migrant workers at the center of her pictures. Presenting Lange’s work in its diverse contexts—photobooks, Depression-era government reports, newspapers, magazines, poems—along with the voices of contemporary artists, writers, and thinkers, the exhibition offers a more nuanced understanding of Lange’s vocation, and new means for considering words and pictures today.
Through May 9 2020 – MOMA – New York All details here
At Home In Sweden, Germany And America – Gerry Johansson
Nelle fotografia di Johansson l’uomo è traccia, è ciò che fa e che ha fatto, ciò che resta nel paesaggio. E il paesaggio è ovunque arrivi lo sguardo del fotografo, camminatore e osservatore attento a quel microcosmo di elementi che fanno la differenza una volta individuati e contenuti nel perimetro dell’immagine. – Laura De Marco
At home in Sweden, Germany and America è la mostra personale del fotografo svedese Gerry Johansson nata dalla collaborazione tra Spazio Labo’ e OMNE – Osservatorio Mobile Nord Est di Castelfranco Veneto che con i curatori Stefania Rössl e Massimo Sordi si occupa di progetti di fotografia contemporanea con particolare attenzione al tema del paesaggio.
La mostra è una retrospettiva della celebre trilogia di libri Amerika (1998), Sverige (2005) e Deutschland (2012) che raccolgono fotografie realizzate da Johansson nel corso di svariati viaggi compiuti tra il 1993 e il 2018 in Svezia, Germania e America.
Oltre vent’anni di campagne fotografiche sul paesaggio americano, svedese e tedesco: paesaggi urbani e agricoli, città e piccoli centri urbani, poca presenza umana ma molte tracce dell’uomo. Uno sguardo sul paesaggio antropizzato che ricorda quello dello storico gruppo dei New topographics – da Lewis Baltz ai coniugi Becher per limitare le citazioni ai nomi più noti – a cui sicuramente Johansson si è ispirato all’inizio della sua carriera ma da cui successivamente si è mosso per costruire uno sguardo proprio, all’apparenza distaccato ma in cui l’occhio attento riscontra una certa intimità e una ricorrenza di temi e simbologie propri dell’autore svedese.
Nelle fotografia di Johansson l’uomo è traccia, è ciò che fa e che ha fatto, ciò che resta nel paesaggio. E il paesaggio è ovunque arrivi lo sguardo del fotografo, camminatore e osservatore attento a quel microcosmo di elementi che fanno la differenza una volta individuati e contenuti nel perimetro dell’immagine.
Ogni immagine vive di vita propria e chiede di essere letta nella sua individualità, svincolata da una narrazione rigida o premeditata. Ma allo stesso tempo Johansson tesse le fila di un discorso più ampio, ci riporta a casa ovunque ci troviamo, sia in Svezia, Germania o America. La sua casa, quella del suo sguardo.
Pur appartenendo a luoghi geograficamente distanti, le fotografie in mostra possiedono la capacità di restituire i frammenti di un universo che trova il modo di ricomporsi attraverso la dimensione autoriale del fotografo svedese.
Comparabili a molte realtà appartenenti al territorio italiano, le immagini presentate possiedono un valore iconico e invitano l’osservatore a decifrare, attraverso ogni singolo dettaglio, la visione d’insieme che avvicina al presente.
Il caratteristico uso del bianco e nero dai toni morbidi che, come un rituale, Johansson sviluppa e stampa rigorosamente in camera oscura, e la composizione precisa di ogni fotografia suggeriscono, nella loro combinazione, il superamento della dimensione soggettiva dell’immagine aperta ai molteplici aspetti del paesaggio contemporaneo.
Accanto alle fotografie la mostra presenta una selezione della produzione editoriale di Johansson che raccoglie, ad oggi, più di trenta volumi. In mostra saranno esposte anche fotografie finora inedite.
La mostra è organizzata in collaborazione con OMNE – Osservatorio Mobile Nord Est, Alma Mater Studiorum / Università di Bologna / Dipartimento di Architettura, Spazio HEA e Circolo Fotografico El Paveion di Castelfranco Veneto.
L’anima di New York Le immagini più evocative della città che non dorme mai Ripercorrete l’epica storia di New York attraverso centinaia di fotografie emozionanti che ci mostrano i tanti volti di questa magica città dalla metà dell’Ottocento a oggi. Seguitene le mutevoli sorti dalle folli notti degli anni d’oro del jazz all’edonismo delle discoteche, dai tetri giorni della Depressione alle devastazioni dell’11 settembre e dei giorni che seguirono. Questa meravigliosa collezione di immagini rende omaggio all’architettura, all’energia e al patrimonio civile, sociale e fotografico della metropoli. Dal Brooklyn Bridge agli immigrati che sbarcavano a Ellis Island, dai bassifondi del Lower East Side ai magnificenti grattacieli art déco, le strade, i marciapiedi, il caos, l’energia, il crogiuolo di etnie, la cultura, la moda, l’architettura, la rabbia e la complessità della Grande Mela sono tutte rappresentate nella forza del loro spirito e delle loro contraddizioni. Oltre a centinaia di scatti firmati da fotografi del calibro di Alfred Stieglitz, Berenice Abbott, Weegee, Margaret Bourke-White, William Claxton, Ralph Gibson, Ryan McGinley, Steve Schapiro, Garry Winogrand, Larry Fink, Keizo Kitajima, e tanti altri, New York: Portrait of a City offre oltre un centinaio di citazioni e riferimenti provenienti da libri, film, spettacoli di vario tipo e canzoni.
In My Taxi: New York After Hours by Ryan Weideman (1991-10-02) di Ryan Weideman (Autore)
Per acquisto Max Kozloff (Autore), Ed Grazda (a cura di), William Klein (Fotografo)
Per acquisto Keizo Kitajima spent six months in New York roaming it’s gritty streets and hanging out in its clubs. He presents a vison of eighties New York, full of energy, decadence and moments of quiet desperation. Like the city the publication is full of stark juxtapositions, flaboyant dispays of outrageous behaviour live next to pictures of desolation and dejection.
Per acquisto [(Naked City )] [Author: Weegee] Mar-2003 Copertina flessibile – 1 mar 2003 di Weegee
Per acquisto Cecil Beaton’s New York Hardcover – 1938 by Cecil Walter Hardy Beaton (Author)
Per acquisto Harlem Stirs – 128 pages, softbound with slight edgewear and light soiling from handling to covers. text block is clean tight and bright. Wonderful black and white photos throughout. the pictures and words presents the horror of Harlem in the 1960’s. A vivid story of this powerful, tangled and much maligned region of New York City, leading to the changes and upheaval in the 1960’s. ~ Rasism, Social, Black America, Urban Blight
Per acquisto Written in English and Swedish. The title is in reference to a street sign indicating traffic directions. Black and white images of “traces of life” in New York. The kind of thing you’d see when walking around, if you had your eyes open to it, Found objects, storefronts, signs, graffiti, abandoned/lost items, trash, anything that caught artist Enke Rothman’s interest. Photos by Tana Ross.
Per acquisto Based on the blog with more than four million loyal fans, a beautiful, heartfelt, funny, and inspiring collection of photographs and stories capturing the spirit of a city Now an instant #1 New York Times bestseller, Humans of New York began in the summer of 2010, when photographer Brandon Stanton set out to create a photographic census of New York City. Armed with his camera, he began crisscrossing the city, covering thousands of miles on foot, all in an attempt to capture New Yorkers and their stories. The result of these efforts was a vibrant blog he called “Humans of New York,” in which his photos were featured alongside quotes and anecdotes. The blog has steadily grown, now boasting millions of devoted followers. Humans of New York is the book inspired by the blog. With four hundred color photos, including exclusive portraits and all-new stories, Humans of New York is a stunning collection of images that showcases the outsized personalities of New York. Surprising and moving, printed in a beautiful full-color, hardbound edition, Humans of New York is a celebration of individuality and a tribute to the spirit of the city.
Per acquisto I See a City: Todd Webb’s New York focuses on the work of photographer Todd Webb produced in New York City in the 1940s and 1950s. Webb photographed the city day and night, in all seasons and in all weather. Buildings, signage, vehicles, the passing throngs, isolated figures, curious eccentrics, odd corners, windows, doorways, alleyways, squares, avenues, storefronts, uptown, and downtown, from the Brooklyn Bridge to Harlem. The book is a rich portrait of the everyday life and architecture of New York. Webb’s work is clear, direct, focused, layered with light and shadow, and captures the soul of these places shaped by the friction and frisson of humanity. A native of Detroit, Webb studied photography in the 1930s under the guidance of Ansel Adams at the Detroit Camera Club, served as a navy photographer during World War II, and then went on to become a successful postwar photographer. His work is in many museum collections, including the Museum of Modern Art in New York and the National Gallery of Art in Washington. Published on the occasion of the exhibition Todd Webb’s New York at the Museum of the City of New York, where Webb had his first solo exhibition in 1946, this book helps restore the reputation and legacy of a forgotten American artist. 150 back-and-white illustrations
Based on the popular New York photography blog by the same name with over 2.5 million loyal fans, this coffee table photo book takes you on a dream-infused nostalgic journey through New York City featuring an exquisite collection of photographs and prose. Street photographers will never tire of New York as a subject. It is the perfect setting for the genre, the world’s most evocative cityscape, against which candid, memorable moments play themselves out every day. Nearly a decade ago, Vivienne Gucwa began walking the streets of the city with the only camera she could afford a sub-$100 point-and-shoot and started taking pictures. Choosing a direction and going as far as her feet would take her, she noticed lines, forms and structures that had previously gone unnoticed but which resonated, embodying a sense of home. Having limited equipment forced her to learn about light, composition and colour, and her burgeoning talent won her blog millions of readers and wide recognition in the photographic community. “NY Through the Lens” is a timeless photo book which showcases the stunning results of Vivienne’s ongoing quest. Filled with spectacular photographs and illuminated by Vivienne’s poetic commentary, NY Through the Lens is a quintessential New York book as well as a beautiful travel guide to the city; it will be a must-read for her many fans and for any lover of New York photography.
Differing from other photo books about New York, New Yorkers: As Seen by Magnum Photographersintroduces a gallery of eye-catching, untamed images of the metropolis taken by members of the renowned Magnum photo agency. Known for their spirit of independence, these photographers proffer droll, enigmatic, melancholic, enchanting, perhaps even effervescent scenes of the worlds most well known city, often combining these disparate sensibilities together, against great odds, in a single image. For these pictures to have been on target, they had to be off-kilteras charged with contradiction and nuance as the reality of their subjects.
The photographers in this book come from many countries and, armed with a wide range of purposes, are united only by their membership in Magnum Photos. Though best known for reportage of global wars and crises, they have created a New York archive of great magnitude documenting the last sixty years of New Yorksand Magnumshistory. Of the more than one hundred and fifty photographs in New Yorkers, only a fraction have ever been published.
Leafing through New Yorkers, edited by the acclaimed art critic Max Kozloff, is like walking the streets of New York City, beguiled by its implausible and mixed energies, renewed at each turn of a corner. Throughout the citys sidewalks, bars, subways, rooftops, bridges, street corners, diners, barbershops, boardwalks, and empty lots, and inside its ball games, parks, protests, parades, society events, and myriad trade districts, these photographers have roamed freely, snapping its denizens with a realism that smarts and a wit that sparkles, featuring never-before-seen work by Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Inge Morath, Elliott Erwitt, Bruce Davidson, Leonard Freed, Raymond Depardon, Eve Arnold, Dennis Stock, Ferdinando Scianna, Richard Kalvar, Burt Glinn, Eli Reed, René Burri, Susan Meiselas, and more.
New Yorkers: As Seen by Magnum Photographers emphasizes the color work of the Magnum photographers, much of it surprisingly early, and contains an essay by Kozloff, who tackles his offbeat selection with relish.
Danish-born Jacob A. Riis (1849–1914) found success in America as a reporter for the New York Tribune, first documenting crime and later turning his eye to housing reform. As tenement living conditions became unbearable in the wake of massive immigration, Riis and his camera captured some of the earliest, most powerful images of American urban poverty. This important publication is the first comprehensive study and complete catalogue of Riis’s world-famous images, and places him at the forefront of early-20th-century social reform photography. It is the culmination of more than two decades of research on Riis, assembling materials from five repositories (the Riis Collection at the Museum of the City of New York, the Library of Congress, the New-York Historical Society, the New York Public Library, and the Museum of South West Jutland, Denmark) as well as previously unpublished photographs and notes. In this handsome volume, Bonnie Yochelson proposes a novel thesis—that Riis was a radical publicist who utilized photographs to enhance his arguments, but had no great skill or ambition as a photographer. She also provides important context for understanding how Riis’s work would be viewed in turn-of-the-century New York, whether presented in lantern slide lectures or newspapers.
Per acquisto Presents a thorough study of the artist’s candid photographs of urban life in New York City, and the connection between his painting and his photography.
Nearly 100 classic images by noted photographer: Rockefeller Center on the rise, Bowery restaurants, dramatic views of the City’s bridges, Washington Square, old movie houses, rows of old tenements laced with laundry, Wall Street, Flatiron Building, waterfront, and many other landmarks.
Per acquisto A re-release of an acclaimed volume features definitive images of 1930s New York, in a deluxe edition that features more than three hundred duotones as taken with the support of the WPA’s Federal Art Project documenting Depression-era changes throughout the city. Reissue.
Timing, skill, and talent all play an important role in creating a great photograph, but the most primary element, the photographer’s eye, is perhaps the most crucial. In The Eyes of the City, Richard Sandler showcases decades’ worth of work, proving his eye for street life rivals any of his generation.
From 1977 to just weeks before September 11, 2001, Richard regularly walked through the streets of Boston and New York, making incisive and humorous pictures that read the pulse of that time. After serendipitously being gifted a Leica camera in 1977, Sandler shot in Boston for three productive years and then moved back home to photograph in an edgy, dangerous, colicky New York City.
In the 1980s crime and crack were on the rise and their effects were socially devastating. Times Square, Harlem, and the East Village were seeded with hard drugs, while in Midtown Manhattan, and on Wall Street, the rich flaunted their furs in unprecedented numbers, and “greed was good.”
In the 1990s the city underwent drastic changes to lure in tourists and corporations, the result of which was rapid gentrification. Rents were raised and neighborhoods were sanitized, clearing them of both crime and character. Throughout these turbulent and creative years Sandler paced the streets with his native New Yorker’s eye for compassion, irony, and unvarnished fact.
The results are presented in The Eyes of the City, many for the first time in print. Overtly, they capture a complex time when beauty mixed with decay, yet below the picture surface, they hint at unrecognized ghosts in the American psyche.
Per acquisto New York at Night: Photography after Dark, showcases images of New York City’s legendary nightlife by the leading photographers of the 20th and 21st centuries, from Joseph Byron and James Van Der Zee to Henri Cartier-Bresson, Diane Arbus, Elliott Erwitt, Larry Fink, and more. As diverse and complicated as the city itself, New York’s nightlife is glamorous and grungy, lonely and dangerous, highbrow and lowbrow. These images are complimented by writing from some of New York’s most respected contemporary authors, adding depth, context, and personal stories of their own experiences to those presented by the photographers. This engaging book captures the energy of the New York night and the city’s evolving hotspots, building a history of how New Yorkers play after dark and how that helps make this city a cultural and entertainment powerhouse.
Photographers featured within the book include: Berenice Abbott, Apeda Studio, Amy Arbus, Diane Arbus, Eve Arnold, Richard Avedon, John Baeder, Frank Bauman, Guy Bourdin, Bonnie Briant, Paul Brissman, René Burri, Joseph Byron, Cornell Capa, Drew Carolan, Henri Cartier-Bresson, Bob Colacello, John Cohen, Ted Croner, Bruce Davidson, Philip-Lorca diCorcia, Elliott Erwitt, Walker Evans, Louis Faurer, Donna Ferrato, Larry Fink, Robert Frank, Lee Friedlander, Paul Fusco, Ron Galella, William Gedney, Bruce Gilden, Burt Glinn, Nan Goldin, William P. Gottlieb, Samuel H. Gottscho, Charles Harbutt, Phillip Harrington, Paul B. Haviland, Thomas Hoepker, Evelyn Hofer, Jenny Holzer, Peter Hujar, Douglas Jones, Sid Kaplan, William Klein, Stanley Kubrick, Collin LaFleche, Elliott Landy, Annie Leibovitz, Joan Liftin, Peter Lindbergh, Roxanne Lowit, Alex Majoli, Fred McDarrah, Ryan McGinley, Susan Meiselas, Lisette Model, Inge Morath, Helmut Newton, Toby Old, Paolo Pellegrin, Iriving Penn, Gilles Peress, Anton Perich, Hy Peskin, Jean Pigozzi, Sylvia Plachy, Robin Platzer, Eli Reed, Jacob Riis, Arthur Rothstein, Damien Saatdjian, Lise Sarfati, Paule Saviano, Norman Seeff, Neil Selkirk, Sam Shaw, Aaron Siskind, Dennis Stock, Erika Stone, Christopher Thomas, Peter Van Agtmael, James Van Der Zee, Weegee, and Garry Winogrand.
Brooklyn Photographs Now reflects the avant-garde spirit of the city’s hippest borough, containing previously unpublished work by well-known and emerging contemporary artists. The book presents 250 images by more than seventy-five established and new artists, including Mark Seliger, Jamel Shabazz, Ryan McGinley, Mathieu Bitton, and Michael Eastman, among many others. The book documents the physical and architectural landscape and reflects and explores an off-centered—and therefore a less-seen and more innovative—perspective of how artists view this borough in the twenty-first century. This is the “now” Brooklyn that we have yet to see in pictures: what might seem to be an alternative city but is actually the crux of how it visually functions in the present day. This unique collection of images is the perfect book for the photo lover and sophisticated tourist alike.
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Ciao a tutti, è un pò lungo ma se avete tempo, guardatevi questo documentario.
Parla di Henri Cartier Bresson, stranamente mi è piaciuto molto.
Ve lo consiglio! Ciao Sara
Biografia Di Henri Cartier Bresson (da biografie on line)
Non sono necessarie molte presentazioni per chi è conosciuto come il padre della fotografia e ha fermato nei suoi scatti quasi un secolo di eventi. Henri Cartier-Bresson, uno tra i più convinti puristi della fotografia è nato il 22 agosto 1908 a Chanteloup (Francia), 30 chilometri ad est di Parigi, da una famiglia alto borghese amica delle arti. Inizialmente si interessa solo di pittura (grazie soprattutto all’influenza di suo zio, artista affermato, che all’epoca considerava un po’ come un padre spirituale), e diventa allievo di Jaques-Emile Blanche e di André Lhote, frequenta i surrealisti e Triade, il grande editore.
Dagli inizi degli anni ’30 sceglie definitivamente di sposare la fotografia.
Nel 1931, a soli 23 anni, ritornato in Francia dopo un anno in Costa d’Avorio, Henri Cartier-Bresson scopre la gioia di fotografare, compra una Leica e parte per un viaggio che lo porta nel sud della Francia, in Spagna, in Italia e in Messico. La Leica con la sua maneggevolezza e la pellicola 24×36 inaugurano un modo nuovo di rapportarsi al reale, sono strumenti flessibili che si adattano straordinariamente all’occhio sempre mobile e sensibile del fotografo.
L’ansia che rode Cartier-Bresson in questo suo viaggio fra le immagini del mondo lo porta ad una curiosità insaziabile, incompatibile con l’ambiente borghese che lo circonda, di cui non tollera l’immobilismo e la chiusura, la piccolezza degli orizzonti. Nel 1935 negli USA inizia a lavorare per il cinema con Paul Strand; tiene nel 1932 la sua prima mostra nella galleria Julien Levy.
Tornato in Francia continua per qualche tempo a lavorare nel cinema con Jean Renoir e Jaques Becker, ma nel 1933 un viaggio in Spagna gli offre l’occasione per realizzare le sue prime grandi fotografie di reportage.
Ed è soprattutto nel reportage che Cartier-Bresson mette in pratica tutta la sua abilità e ha modo di applicare la sua filosofia del “momento decisivo”: una strada che lo porterà ad essere facilmente riconoscibile, un marchio di fabbrica che lo distanzia mille miglia dalle confezioni di immagini celebri e costruite.
Ormai è diventato un fotografo importante. Catturato nel 1940 dai tedeschi, dopo 35 mesi di prigionia e due tentate fughe, riesce a evadere dal campo e fa ritorno in Francia nel 1943, a Parigi, dove ne fotografa la liberazione.
Qui entra a far parte dell’MNPGD, un movimento clandestino che si occupa di organizzare l’assistenza per prigionieri di guerra evasi e ricercati.
Finita la guerra ritorna al cinema e dirige il film “Le Retour”. Negli anni 1946-47 è negli Stati Uniti, dove fotografa soprattutto per Harper’s Bazaar.
Nel 1947 al Museum of Modern Art di New York viene allestita, a sua insaputa, una mostra “postuma”; si era infatti diffusa la notizia che fosse morto durante la guerra.
Nel 1947 insieme ai suoi amici Robert Capa, David “Chim” Seymour, George Rodger e William Vandivert (un manipolo di “avventurieri mossi da un’etica“, come amava definirli), fonda la Magnum Photos, cooperativa di fotografi destinata a diventare la più importante agenzia fotografica del mondo.
Dal 1948 al 1950 è in Estremo Oriente. Nel 1952 pubblica “Images à la sauvette”, una raccolta di sue foto (con copertina, nientemeno, che di Matisse), che ha un’immediata e vastissima eco internazionale.
Nel 1955 viene inaugurata la sua prima grande retrospettiva, che farà poi il giro del mondo, al Musée des Arts Décoratifs di Parigi.
Dopo una serie di viaggi (Cuba, Messico, India e Giappone), dal 1966 si dedica progressivamente sempre più al disegno.
Innumerevoli, in questi anni, sono i riconoscimenti ricevuti, così come le esposizioni organizzate e le pubblicazioni che in tutto il mondo hanno reso omaggio alla sua straordinaria produzione di fotografo e di pittore.
Dal 1988 il Centre National de la Photographie di Parigi ha istituito il Gran Premio Internazionale di Fotografia, intitolandolo a lui.
Oltre ad essere universalmente riconosciuto tra i più grandi fotografi del secolo, Henri Cartier-Bresson ha avuto un ruolo fondamentale nella teorizzazione dell’atto del fotografare, tradotto tra l’altro nella già ricordata e celebre definizione del “momento decisivo”.
Poco prima di raggiungere i 96 anni, è morto a Parigi il 2 agosto 2004. La notizia ha commosso e fatto il giro del mondo solo due giorni più tardi, dopo i funerali.
Ciao
Sara
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