Buongiorno a tutti, ecco alcuni dei lavori prodotti dai miei studenti a New York, durante le settimane dei workshop intensissimi che ho tenuto. Esperienza sempre positiva per me che imparo tantissimo.
Purtroppo non tutti i lavori sono presenti perché alcuni sono ancora da terminare.
Spero che troviate i lavori interessanti e che possano dare spunto per lavori di altri fotografi. Ciao a tutti Sara
“Leeder 115 Engine 258” di Daniel Von Johnston
Ho seguito per una settimana i vigili del fuoco del Leeder 115 e Engine 258 nella caserma di Long Island City, 47th Ave. Sono entrato per una settimana nella loro vita, nel loro lavoro, nella loro quotidianità. Mi hanno fatto sentire come uno di loro, facendomi sedere al loro tavolo e aprendomi tutte le porte di casa loro. Curiosi di vedere l’esito finale del mio lavoro mi hanno fatto conoscere molti loro “piccoli segreti”.
Con immenso rispetto nei loro confronti ho realizzato questo lavoro, sperando di riuscire a trasmettere le stesse emozioni che ho provato anche io.
Durante questo workshop tenuto a New York sono riuscito a capire molte cose che a me erano ancora sconosciute della fotografia. Tutto merito della bravura con la quale Sara ci ha saputo accompagnare in questa settimana di lavoro e soprattutto con la determinazione di riuscire a farci portare a casa un lavoro ben strutturato e completo. Con ciò ringrazio lei e tutti coloro che hanno partecipato a questa esperienza, che dal mio punto di vista è riuscita a delineare un po’ il cammino che voglio intraprendere.
Per vedere il lavoro completo
“The WishProject Desiderīum” di Maria Ianesi
Sentimento intenso che spinge a cercare il possesso, il conseguimento o l’attuazione di quanto possa appagare un proprio bisogno fisico o spirituale.
Cos’è un desiderio in una città come New York? Cosa desiderano le persone che vivono in una città che è al centro del mondo, una città cosmopolita che offre ogni tipo di contaminazione e opportunità. Una città difficile da vivere e piena di contrasti. È questo che mi ha incuriosito gironzolando per le vie della “Grande Mela”.
È stato un confronto bello e diretto con i soggetti che ho fotografato.
Alcuni mi hanno sorpreso tantissimo aprendosi e raccontandomi parte della loro vita. Altri mi hanno preso per una sorta di fatina. Altri ancora hanno preso tutto come un gioco, per me è stato un modo per prendere contatto con le persone “vere”, mi hanno regalato un attimo della loro vita con i loro sogni e desideri.
“Tiramisù” di Veronica Siano
New York City. Prima cosa che ti viene in mente? I taxi. Be’, non la prima ma una delle… E qual è la cosa più interessante dei taxi di NY? I passeggeri, i tassisti e le destinazioni a cui portano.
Così, in una settimana nella Grande Mela, ho cercato di convincere quante più persone possibili a farmi salire con loro durante un tragitto in taxi. Andavo ovunque mi portassero. E durante il tragitto, tra buche, code e brusche frenate, ho scattato loro alcune foto, ho ascoltato quello che avevano da raccontarmi e ho raccontato loro quello che volevano sapere di me.
Viaggi più o meno brevi ma sempre intensi che mi hanno dato la possibilità di conoscere persone meravigliose da ogni parte del mondo, generose e incuriosite quanto basta da voler condividere così tanto con una persona mai vista prima. Tra storie e incontri che mi lasciavano con il sorriso e tanti pensieri positivi una volta scesa dal taxi in cerca di un nuovo passaggio.
53 rifiuti e 21 “okay” ricevuti in 6 giorni. Chi mi guardava storto, chi era di fretta o non era truccata, chi mi ha liquidato con un secco “Forgot it!”, chi voleva che pagassi io la corsa e chi invece mi ha accolto nel suo yellow cab, sorridendomi divertito e incuriosito.
Un’intensa esperienza che mi ha permesso di instaurare un rapporto di fiducia con perfetti sconosciuti nel giro di pochi secondi. In un mondo che vorrebbe convincerci a non fidarci di nessuno, ho avuto la conferma di quanto può essere bello conoscersi e condividere, faccia a faccia.
E’ stata un’esperienza molto intensa e faticosa. Eravamo preparati ma finché non si prova non si sa mai quanto. Soprattutto, però, mi ha permesso di vivere un’avventura bellissima che mi porterò sempre dentro.
Era la prima volta che affrontavo un viaggio da fotografa e la difficoltà maggiore riscontrata è stata non farsi distrarre da una città come New York, e dalla voglia di scoprirla in ogni suo angolo, ma rimanere concentrata per tutta la settimana sul progetto scelto.
E’ stato bello condividere tanto con le persone che sono state delle fantastiche compagne di viaggio. E Sara, come sempre, ci hai dato tanto, in termini di insegnamento e di energia! Grazie!
Per contattare Veronica
“The Nuyoricans” di Nora Kabli
From street art to the vibrant and colorful bars, restaurants, barbershops, churches and community gardens, it is almost impossible not to notice the Puerto Rican flags and decorations prevailing in the popular places of East Harlem. The Puerto Rican influence and culture is unquestionably present in what was once called the “Spanish Harlem” to be, later, colloquially called “El barrio” (The Neighborhood). “El Barrio” counts an increasing number of Dominicans, Salvadorans, Mexicans and Chinese immigrants. The area is currently undergoing gentrification whereupon wealthier residents and businesses are moving in and property values are on the rise. This shift in this community lifestyle has caused some Puerto Ricans to leave East Harlem for the Bronx or even cities like Miami. Therefore, I could not resist to think of the Puerto Ricans left as the “Franco-Belge” comic “Asterix”, a small Gauls village resisting the Roman Empire. Who are the Puerto Ricans of East Harlem? How are they identified? But, most of all, how do they identify themselves? As Americans, Latinos, or Puerto Ricans? “Nuyoricans” is a “portemanteau” word of the terms New York and Puerto Rico. It refers to the members or culture of the Puerto Rican diaspora based in New York City and their descendants. The reason why I have chosen to call this project “Nuyoricans” is because it illustrates exactly what I have found in the Puerto Rican community of East Harlem: a genuine mix between the American and the Puerto Rican cultures. From the “Spanglish” to food or fashion, I was walking the streets alternately listening to rhythm and blues and Puerto Rican salsa. Some Puerto Ricans were easy to identify, wearing shirts or hats mentioning the name of their country, tattoos or even jewelry representing the exotic island. It was a real pleasure, a visual one, to look for them. I easily came to the conclusion that “in East Harlem anyone is Puerto Rican, who feels Puerto Rican”. Albeit, I repeatedly heard, from Puerto Ricans born in Puerto Rico commonly called “Boricuas”: “a Puerto Rican is born in Puerto Rico and the people who were born here are Americans.” It is important to mention that Puerto Ricans have been U.S. citizens since 1917. The Jones–Shafroth Act grants US citizenship to anyone born in Puerto Rico on or after April 25, 1898. Among the people I met and photographed, some were proud to be veterans who had fought for the USA, while others strongly expressed their wish to see Puerto Rico free from the American political influence and sovereignty. The Nuyoricans have all been kind to me and despite having been told regularly “Be careful who you ask questions to; not everyone is nice here”, the majority of Americans, Latinos, Boricuas and Nuyoricans were happy to be asked about their neighborhood, country, or roots. Many spoke nostalgically about “La isla del encanto” (the charming Island), when telling me their stories. It was an interesting journey that allowed me to explore another New York, another Harlem, a Harlem I barely knew about, far away from the typical ‘cliché’ of it, too often mentioned in films or books for its crime and poverty stricken reputation.
“Un esperienza intensa, con una docente onesta e disponibile, dove hai l’opportunità d’imparare tanto su di te, vedendo il lavoro degli altri.”
Per il lavoro completo www.norakabliphotography.wordpress.com
“Under construction” di Giuseppe Perico
Ho cercato, incontrato e osservato i lavori in corso per le strade di New York. Lavori stradali, ma anche diversi tipi di cantieri, con o senza uomini al lavoro, ai bordi delle strade. Ho fotografato la città, le persone, gli orizzonti da questo punto di vista. La città brulica di cartelli, segnalazioni e indicazioni di lavori in corso, molto più di quanto uno si aspetti. Raramente si pone al centro questo tema e solitamente molte di queste situazioni passano inosservate. Interessante è stato fotografare da vicino le persone al lavoro, con attrezzi, elmetti e mezzi, al centro di cantieri affascinanti per colori, linee, forme e situazioni inusuali che si vengono a creare. Nel corso del lavoro l’attenzione si è concentrata nel cercare prospettive della città, anche nei suoi orizzonti più riconoscibili, viste attraverso un cantiere o gli uomini che ci lavorano. Scenari e orizzonti impressi nella memoria collettiva, come lo skyline di Manhattan, visti e contemplati da un’altra prospettiva. Gli orizzonti e profili che mutano per i cambiamenti in corso, la fanno sembrare la città meno statica e ancora più dinamica. Giuseppe Perico
L’esperienza è stata molto interessante. Sia per il tipo di proposta, vale a dire individuare e sviluppare un tema e nel corso del workshop, mano a mano circoscriverlo e interpretarlo nella maniera più adatta. Sia per la metodologia utilizzata ossia il confronto con Sara e in gruppo. Osservare e imparare anche dal percorso che stanno facendo gli altri è preziosissimo. Grazie
Per contattare Giuseppe spikej@inwind.it
“John Doe” di Anna Brenna
John Doe #1
Jane Doe #9
John Doe #2
John Doe #4
John Doe #7
John Doe #8
Baby Doe #10
Jane Doe #3
Jane Doe #5
Jane Doe #6
Il ritratto è in generale considerato la rappresentazione di una persona secondo le sue fattezze e sembianze, reali o nella visione dell’autore, in modo da caratterizzarne l’identità e l’individualità. Nelle grandi città sia ha sempre più frequentemente l’impressione che la persona si annulli nella totalità della massa, che diventa un aggregato variegato ed informe che fagocita le singole persone L’individuo viene spersonalizzato e perde la propria identità sociale e culturale, diventando quasi invisible agli occhi degli altri. In questo senso ho inteso ritrarre questi individui di spalle, rimuovendo la loro espressione, trascurandone la personalità data dalla caratterizzazione dei tratti somatici, quasi trasformandoli in presenze aliene all’ambiente circostante e al tempo presente. John Doe è un nome usato solitamente nel gergo giuridico statunitense per indicare un uomo la cui reale identità è sconosciuta o va mantenuta tale. Il suo equivalente femminile è Jane Doe, mentre nel caso di bambini è frequente l’uso di Baby Doe.
Portrait is generally considered as the representation of a person according to its features and appearance, be it real or in the author’s view, so that its identity and individuality are characterised. In the big cities it has become a common thinking that every person is blended into the mass, which turns into a variegated and unformed aggregate, swallowing the single persons. Every individual is depersonalised and loses its social and cultural identity, almost becoming invisible to the other’s gaze. This is the meaning of these portraits from behind, removing people’s expression and disregarding their personality, conveyed through their somatic features, and transforming them into presences alienated from the surrounding environment and from present time. The names “John Doe” for men, “Jane Doe” for women and Baby Doe for children are used as placeholder names for a party whose true identity is unknown or must be withheld in a legal action, case, or discussion.
Per vedere tutto il lavoro: http://www.annabrenna.com/
Le 10 foto sono una parte del lavoro che ho prodotto in occasione del recente workshop con Sara. Ormai sono una veterana di questi workshop, avendo partecipato in diverse occasioni. Che dire? Esperienze bellissime tutte: molto impegnativi, si scarpina dalla mattina alla sera, ma si torna a casa soddisfatti e cresciuti da un punto di vista fotografico. Toglietevi dalla testa di fare i turisti e visitare la città dove vi trovate… :-O Sara supporta tutti indistintamente dal livello fotografico e dalla tipologia del lavoro. E’ importantissima la condivisione con il gruppo. Consiglierei questa esperienza a chiunque abbia voglia di impegnarsi e crescere. Anna
“A Coney Island of the Mind” di Valeria Crisofoli
A Coney Island of the Mind è il titolo della raccolta poetica di Lawrence Ferlighetti e ho scelto di utilizzare questa stessa intestazione perché il mio lavoro fotografico, come le sue poesie, non raccontano di un luogo ma di uno stato d’essere, una specie di Luna Park dell’anima. “Diversi editor e fotografi, nel corso degli anni, mi hanno proposto di pubblicare un’edizione di A Coney Island of the Mind corredata di fotografie della vera Coney Island di New York. Ma io non ho mai concepito il libro come una rielaborazione di quel luogo geografico. Come poeta, a volte mi immagino ancora nei panni di un reporter onnisciente venuto dallo spazio, che invia i suoi dispacci a un caporedattore supremo convinto della necessità di rappresentare senza censure le tragicomiche pagliacciate di quelle creature bipedi note col nome di esseri umani. E dunque, A Coney Island on the Mind è il mio reportage su ciò che succede quaggiù.” Lawrence Ferlinghetti
Il lavoro completo qui www.valeriacristofoli.com
Il workshop di Sara Munari permette di affrontare tutte difficoltà che emergono quando si deve portare a casa un lavoro fotografico in un ambiente sconosciuto e in tempi molto ristretti. Si parte con l’idea di una tematica da sviluppare ma quando si arriva sul posto ci si confronta con la realtà e le complessità del luogo. Lavorare con Sara Munari insegna a comprendere l’importanza di progettare e di studiare la tematica che si desidera sviluppare con coerenza e rigore, poi il suo entusiasmo e le sue capacità intuitive danno supporto alla realizzazione del progetto fotografico rendendo l’esperienza formativa e indimenticabile.
“On the go” di Marta Ugolini
A New York le abitudini alimentari sono diverse da quelle italiane. Un pranzo o uno spuntino per strada è sempre possibile grazie a un nutrito gruppo di food truck e food cart che offrono una multiforme varietà di cibo “on the go”, da consumarsi in ogni angolo, che può soddisfare gusti differenti. Questi mezzi sono facili da trovare, soprattutto se si passeggia nelle zone di uffici, dentro e fuori i parchi e i musei. Non hanno un indirizzo fisso, ma si spostano nelle varie zone della città e comunicano la loro posizione attraverso i “social” o per mezzo di specifiche app. Così come molteplice è la tradizione culinaria che viene offerta, allo stesso modo è disparata la provenienza dei venditori. I gestori sono prevalentemente non statunitensi, molte volte non parlano e non capiscono neanche bene l’inglese. Street food può essere sinonimo di fast food, ma non necessariamente di junk food. Anzi, possono anche offrire cibo da gourmet. La tradizione alimentare scende in strada per soddisfare chi necessita di velocità, ma non vuole rinunciare alla qualità.
Per vedere il lavoro completo www.martaugolini.it
Questo di New York non è il primo workshop che faccio con Sara. Ogni anno mi iscrivo con slancio perché so che lavorerò duro, mi stancherò, vivrò momenti di allegria e, qualche volta, anche di scoramento ma , al termine, con il lavoro concluso tra le mani, non vedrò l’ora di partecipare al workshop seguente.
Grazie Sara per l’entusiasmo e la passione che trasmetti e con la quale insegni.
“A spasso con Woody” di Ivano Cetta
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Capitolo primo. “Adorava New York. La idolatrava smisuratamente…” No, è meglio “la mitizzava smisuratamente”, ecco. “Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin…” No, fammi cominciare da capo… capitolo primo. “Era troppo romantico riguardo a Manhattan, come lo era riguardo a tutto il resto: trovava vigore nel febbrile andirivieni della folla e del traffico. Per lui New York significava belle donne, tipi in gamba che apparivano rotti a qualsiasi navigazione…” Eh no, stantio, roba stantia, di gusto… insomma, dai, impegnati un po’ di più… da capo. Capitolo primo. “Adorava New York. Per lui era una metafora della decadenza della cultura contemporanea: la stessa carenza di integrità individuale che porta tanta gente a cercare facili strade stava rapidamente trasformando la città dei suoi sogni in una…” Non sarà troppo predicatorio? Insomma, guardiamoci in faccia: io questo libro lo devo vendere. Capitolo primo. “Adorava New York, anche se per lui era una metafora della decadenza della cultura contemporanea. Com’era difficile esistere, in una società desensibilizzata dalla droga, dalla musica a tutto volume, televisione, crimine, immondizia…” Troppo arrabbiato. Non devo essere arrabbiato. Capitolo primo. “Era duro e romantico come la città che amava. Dietro i suoi occhiali dalla montatura nera, acquattata ma pronta al balzo, la potenza sessuale di una tigre…” No, aspetta, ci sono: “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata…” (tratto da “Manhattan”, 1979) Da sempre New York City, ed in particolar modo il quartiere di Manhattan, scatenano nella mente delle persone il formarsi di una serie di immagini che nel corso degli anni abbiamo subìto, soprattutto attraverso il cinema e la televisione. Io, per la prima volta a New York, ho cercato di viverla con una guida d’eccezione: Woody Allen e la sua cinepresa. Da moltissimi anni ammiratore dei suoi film, sono partito per New York con la macchina fotografica al collo, il treppiedi sulle spalle… e le scene stampate dei suoi film nelle tasche. Ventiquattro sono i film che Woody Allen ha girato a New York. Da “Bananas” (uscito nel 1971) fino a Blue Jasmine (del 2013), passando per Manhattan, Annie Hall, e Whatever Works, solo per citarne alcuni. Ho quindi percorso in lungo e largo Manhattan (oltre a Brooklyn ed al Queens) alla ricerca delle stesse strade in cui il regista newyorchese ha svolto gran parte del suo lavoro, e tentando di mantenere le stesse inquadrature, per ricordare a me ed a voi che… “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata”.
Per il lavoro completo http://www.ivanocetta.com
Quando i primi di dicembre ho letto che Sara avrebbe tenuto un workshop a New York, ho pensato… “che bella esperienza potrebbe essere partecipare…”. I motivi erano molteplici: New York ed il suo fascino; Sara Munari e la possibilità di poter usufruire del suo talento e della sua guida; io ed un progetto che mi frullava in testa da qualche mese… Ad inizio gennaio la mia decisione era quindi già presa in maniera irrevocabile: volevo iscrivermi. E così è stato. Da allora e fino al momento della partenza, ho cercato di “vivere” il workshop, perché per me la preparazione è già il viaggio. Lavorare per il progetto e studiarne i particolari per non arrivare impreparati. Conoscere i colleghi fotografi ed i loro progetti in una sera di fine maggio dentro un appartamento con vista sul Lago di Annone. Tutto questo ha aumentato il mio bisogno di cibarmi di fotografia a trecentosessanta gradi. Poi la partenza. E si è cominciato a fare sul serio. Si usciva ogni giorno armati della fotocamera e delle migliori intenzioni, con la consapevolezza che al ritorno in albergo… nel momento del ritrovo quotidiano con gli altri colleghi per discutere del lavoro e scegliere gli scatti… Sara un po’ ci avrebbe bastonato (spronato???) perché cerca sempre di spremerti e di ottenere il massimo. Ma anche questo serve. So che quando arrivano, non sono cazziate fine a se stesse. Ma sono volte a farci aprire fotograficamente gli occhi su questo meraviglioso mondo che ci circonda. In conclusione: SI’. Ne è valsa la pena partecipare. Perché la Fotografia occupa un posto rilevante nella mia vita… Perché un workshop, in generale, è quasi sempre un arricchimento personale da un punto di vista tecnico… Perché in un workshop di Sara, c’è la possibilità di ascoltare, capire e assorbire le sue “lucidamente folli visioni”… Ma soprattutto perché ho avuto la possibilità di condividere momenti di Vita accanto ai miei “fotocolleghi” Anna… Daniel… Giuseppe… Marina… Raoul… Salvatore… ed, ovviamente, Sara. Grazie a tutti per ciò che mi avete insegnato. Di cuore.
“D-Central Park”di Cucci Domenico
Il mio lavoro sul Central Park evidenzia una New York inattesa per quanto essa possa sembrare scontata. Immerso nella metropoli dell’immaginario comune, abitata da gente organizzata che velocemente raggiunge la propria meta tra le vie grandi e immense della città, quasi come un cambio di dimensione degno di un film, d’improvviso si arriva in questa sconfinata oasi verde dove un’altra città vive e si svaga in svariati modi. Basta alzare la testa al cielo però e scorgere la metropoli che guarda da fuori il verde dei suoi prati e il defluire dei ruscelli impotenti ma allo stesso tempo maestosi.
Contatti web: http://www.jonnyzeroc.com http://www.instagram.com/jonnyzeroc
“BasketBALL Courts” di Ilaria Pretto
Ci sono centinaia di campi all’aperto a New York City. Nella capitale internazionale del BasketBALL è possibile trovarli percorrendo brevissimi tratti a piedi o seguendo i ragazzi con i palloni in mano che spuntano da ogni angolo. La mia ricerca si è basata su vari canali da Google search a NYCgovparks a “serendipity”. Oltre al lato sportivo molto importante è quello ricreativo e di aggregazione. In questa città che non dorme mai ho continuato il mio progetto di ricerca concentrandomi su questi spazi. Percorrendo i quartieri di MANHATTAN, BRONX, QUEENS e BROOKLYN a piedi, ho avuto modo di fotografare oltre 100 campi e notare come cambiasse la loro architettura in relazione a quella del quartiere circostante, le linee ed i colori. Percorso di ricerca personale nel tessuto urbano.
Lavoro completo ilariapretto.com
Workshop molto intenso, in una città come New York, dove le distanze sono spesso impegnative mi ha dato la possibilità di attraversare tutto il tessuto urbano dal Bronx alla sfavillante Manhattan e vedere luoghi in cui non sarei mai passata. La cosa più importante che mi Sa porto a casa è che …. c’è sempre tantissimo da imparare! Sara , mettendosi lei in primis in discussione ti invita continuamente a far lo stesso, a scoprire, cambiare, pensare e poi ricominciare, distruggendo le certezze precedenti e ricostruendone di nuove! Bellissima esperienza come sempre! Ilaria Pretto
“The Empathy Doll” di Maria Ianesi
A figure having the likeness of a human, especially one used as a child’s toy.
La mia curiosità riguardo alle bambole nasce fin da quando ero una bambina. Spesso incuriosita guardavo quei giochi non più come tali, ma come degli oggetti curiosi che rappresentavano dei corpi finti, spesso non realistici, apparentemente senza anima, ma a cui davo un nome e a cui attribuivo mille storie. Si creava un’empatia unica tra me e quei personaggi che creavo dal momento in cui ne entravo in possesso.
I collezionisti di bambole o artisti che le creano spesso vengono guardati come delle persone strane e le bambole a volte destano inquietudine, ma dietro questo mondo si nascondono significati e dei mondi interessantissimi.
Nei miei incontri con gli artisti di bambole e collezionisti si è aperto un mondo pieno di informazioni storiche e di esperienze personali uniche. Proprio quell’empatia che si crea attorno alle bambole parlava del “vissuto”.
Per vedere i lavori di Maria https://www.instagram.com/marianesi3388/
“Smell rose” di Michela Bigini
Nel cuore di Manhattan c’è una strada dove la primavera dura tutto l’anno. E’ la 28th Street, a Chelsea, dove si è insediato il Flower District, un’isola verde nel bel mezzo del cemento. La 28th Street si colora delle tantissime varietà di piante e fiori che spuntano dai negozi e invadono i marciapiedi e, fin dalle prime ore del mattino, c’è un allegro via vai di compratori alla ricerca del fiore giusto per un’amica, il boy-friend, il boss al lavoro o il proprio negozio.
E’ stata un’esperienza intensa, di crescita non solo professionale ma anche personale. Grazie a Sara Munari per l’entusiasmo e la generosità con cui insegna!
Per contattare Michela michela.bigini@virgilio.it
“Street photography a New York” di Raul Ventura
Sono uno studente di Istituto Italiano di Fotografia ed ho conosciuto Sara in quanto mia docente. Ho deciso di prender parte a questo workshop con lei perché da subito ho capito che poteva darmi tanto, di certo a livello fotografico ma anche a livello personale. Cosi è stato. Essendomi da poco avvicinatomi al mondo della street, ho incontrato parecchie e grosse difficoltà che son state smorzate pian piano con i suoi duri ( chi ha preso parte alle sue sedute capirà ) ma fondamentali consigli! Esperienza, in ogni caso, straordinaria e di grande importanza formativa.
Per vedere il lavoro di Raoul www.raoulventura.com