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“Sei un bastardo che tu faccia o non faccia la foto”

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Pochi mesi fa, gli attentati all’aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles; non si contano i filmati e le fotografie che sono apparse su tutti gli organi di informazione. Una di queste, scattata dalla giornalista georgiana Ketevan Kardava, ha riportato a galla l’annosa questione di quanto sia lecito/etico scattare questo tipo di fotografie invece di prestare assistenza.

                                                                                       (Ketevan Kardava)

La risposta della Kardav a chi le chiedeva se non fosse stato più utile posare la fotocamera ed aiutare le vittime, è stata: “Non so come ho fatto. Non so come ho scattato quella foto. Come giornalista è stato un mio istinto, in quel preciso momento, ho realizzato che per mostrare al mondo cosa stava succedendo in quegli attimi di terrore, una foto era più importante”.

Ad un simile “dilemma” furono messi davanti Kevin Carter nel 1994 per la celeberrima foto della bimba sudanese con l’avvoltoio, prima di lui Franck Fournier, WPP nel 1985, con l’immagine della bimba colombiana prigioniera di una colata di fango causata dall’eruzione di un vulcano e prima ancora Eddie Adams nel ’69.

                       (Kevin Carter)                                                                         (Franck Fournier)

                                                 (Eddie Adams)

Tutti i dibattiti, gli articoli e le disquisizioni, non hanno mai portato a condanna o assoluzione (mi si perdonino i termini) degli autori delle immagini e nemmeno ho l’arroganza di pensare che lo possano fare queste poche righe, ma vorrei provare a stimolare una vostra riflessione che mi auguro, anche per una crescita personale, vogliate condividere con noi. La frase che sta nel titolo è di Gilles Peress (di cui abbiamo già presentato un libro) e forse sintetizza tutta la questione, ma ho voluto provare a darmi delle risposte che, ripeto, non sono certo il Vangelo. Penso che chiunque fotografi, ma non solo, abbia dei limiti propri oltre il quale non vorrebbe o non intende spingersi, questi limiti non sono imposti da leggi, civili o religiose che siano, ma derivanti dal vissuto di ognuno di noi e proprio perché autoimposti, potremmo un giorno oltrepassarli e spostare questo confine etico un poco più in là. Questo, come dicevo, non riguarda solo chi fotografa, ma anche chi selezione le immagini da pubblicare, la testata stessa che le diffonde, fino al fruitore finale che decide se acquistare o aprire il sito di quella testata per guardare queste fotografie.

Credo, a torto o a ragione, che sia anche leggermente ipocrita scagliarsi sulla giornalista georgiana per aver fatto null’altro che il suo lavoro, ossia raccontarci, quando siamo i primi a sfoderare il nostro smartphone e scattare immagini dell’incidente accaduto sotto casa o appassionarci davanti a trasmissioni che raccontano altrui disavventure; con questo non voglio puntare il dito ne contro chi produce o pubblica queste foto, ne contro i censori delle stesse, ma invitarvi ad indagare su quali siano i vostri “limiti” e magari condividerli su questo blog.

Interessante, per chi volesse approfondire, leggere l’articolo pubblicato dall’ European Journalism Observatory sull’argomento (e che mi ha stimolato queste righe), di cui lascio il link di seguito.

Grazie a tutti….Angelo

 

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