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Avventura di un fotografo

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Quanto mi hanno colpita i passi di questo racconto, in particolare questi che vi propongo. Spero ispirino anche voi.

L’avventura di un fotografo

di Italo Calvino, contenuto nella raccolta “Gli amori difficili”.

“Con la primavera, a centinaia di migliaia, i cittadini escono la domenica con l’astuccio a tracolla. E si fotografano. Tornano contenti come cacciatori dal carniere ricolmo, passano i giorni aspettando con dolce ansia di vedere le foto sviluppate (…), e solo quando hanno le foto sotto gli occhi sembrano prendere tangibile possesso della giornata trascorsa, solo allora quel torrente alpino, quella mossa del bambino col secchiello, quel riflesso di sole sulle gambe della moglie acquistano l’irrevocabilità di ciò che è stato e non può esser più messo in dubbio. Il resto anneghi pure nell’ombra insicura del ricordo.”

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” … una volta che avete cominciato, – predicava – non c’è nessuna ragione che vi fermiate. Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo. (…) Basta che cominciate a dire di qualcosa: “Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!” e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografarle possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita.”

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(…) continuava a scattare istantanee di lei che si districava dal sonno, di lei che si adirava con lui, di lei che cercava inutilmente di ritrovare il sonno affondando il viso nel cuscino, di lei che si riconciliava, di lei che riconosceva come atti d’amore queste violenze fotografiche. (…) La fotografia ha un senso solo se esaurisce tutte le immagini possibili. Ma non diceva quello che soprattutto gli stava a cuore: cogliere Bice per la strada quando non sapeva d’essere vista da lui, tenerla sotto il tiro d’obiettivi nascosti, fotografarla non solo senza farsi vedere ma senza vederla, sorprenderla com’era in assenza del suo sguardo, di qualsiasi sguardo. Non che volesse scoprire qualcosa in particolare.

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“Cominciò a tenere un diario: fotografico, s’intende. Con la macchina appesa al collo, chiuso in casa, sprofondato in una poltrona, scattava compulsivamente con lo sguardo nel vuoto. Fotografava l’assenza di Bice. Raccoglieva le foto in un album: vi si vedevano portaceneri pieni di mozziconi, un letto sfatto, una macchia d’umidità sul muro. Gli venne l’idea di comporre un catalogo di tutto ciò che nel mondo esiste di refrattario alla fotografia, di lasciato fuori sistematicamente dal campo visivo non solo delle macchine ma degli uomini.”

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