La stupidità fotografica.

Di Annalisa Melas

Si presenta così, e così lo continuerete a immaginare fino alla fine del libro di cui vi parlerò.

Ando Gilardi

Ma prima una premessa è dovuta e riguarda il termine “stupidità”: il termine che deriva dal latino “stupere”  aveva  in origine due accezione diverse: indicava infatti sia la persona che, improvvisamente stupita da qualcosa, si trovava in una condizione passiva indotta  da stupore, ma anche  una persona che esprimeva persistente lentezza e carenza nel comprendere.

Il significato della parola ha poi subito numerose deformazioni nel corso della storia, fino a diventare ai giorni nostri quasi sinonimo di idiozia.

Lascio a voi il decidere a quale delle accezioni si rifaccia l’autore.

Ma veniamo al libro, si tratta de “La stupidità fotografica” di Ando Gilardi edito da Johan & Levi editore, curato da Patrizia Piccini

Dell’autore e fotografo trovate i riferimenti all’interno del sito (https://saramunari.blog/2015/01/29/musa-consiglia-meglio-ladro-che-fotografo-di-ando-gilardi/), pertanto passo direttamente a parlarvi del contenuto, che nulla ha a che vedere con l’aspetto fisico dell’oggetto, infatti un libro che all’apparenza si presenta  innocuo, piccolo e leggero con la sua rassicurante copertina azzurra e il titolo elegantemente scritto in alto sulla destra con sobri caratteri neri, si dimostrerà acuto e sfrontato.

Già dopo le prime righe si farà largo in voi il dubbio circa il contenuto del libro e l’impressione iniziale, legata all’estetica  apparentemente leggera, verrà schiaffeggiata da una sfacciata insolenza della forma e del contenuto.

Da parte mia la sensazione che ho avuto fin da subito è stata quella di trovarmi di fronte a un autore dotato contemporaneamente dell’ironia del vecchio Nadar e dell’irriverenza di Pino Bertelli (che accoppiata però a ben pensare!)

Ma cosa ci racconta Ando col suo stile inconfondibile?

Ebbene ci dice cos’è la stupidità in fotografia secondo lui e ci spiega da cosa deriva, lo fa partendo dal problema dell’origine della rappresentazione delle immagini e spostando  la nascita della fotografia indietro di anni,  riconducendola al momento in cui si iniziarono a produrre immagini volatili che si perdevano non appena veniva a mancare la luce, a quando insomma non  si era ancora in grado di fissarle su un supporto che ne permettesse la conservazione nel tempo.

Ci racconta la stupidità nascosta dentro un utilizzo inconsapevole dei termini che vengono normalmente usati per raccontare la fotografia, e sollecitando i tanti sedicenti insegnati di fotografia a conoscere i termini prima di addentrarsi nel mondo delle immagini riprodotte.

Continua buttandosi sui fotografi, giudicando poco furbo l’approccio aggressivo e di rifiuto che hanno davanti alla velocità con la quale gli strumenti utilizzati per fotografare si evolvono a livello tecnologico, con una vena critica che rivolge anche a se stesso, sostenendo che rivoltarsi contro le innovazioni non fa bene alla fotografia, perché crea uno spazio vuoto fra coloro che hanno fatto fotografia prima di quell’innovazione e coloro i quali hanno iniziato e iniziano a farlo dopo, provocando una perdita di possibilità ai primi e una presunzione di conoscenza nei secondi che rende tutti “stupidi”.

E continua così per tutto il libro, rimescolando le carte e sollevando dubbi laddove per molti anni sono state viste certezze.

Ma la più grande e banale delle anomalie che rileva Il nostro buffo autore riguarda l’approccio che hanno i fotografi alla possibilità generata dallo sviluppo tecnologico di produrre un numero sempre maggiore di immagini, secondo Gilardi infatti, questa possibilità dovrebb’essere vista un po’ come se fosse stata data alla fotografia la possibilità di produrre migliaia di monete d’oro piuttosto che una, e la stupidità risiederebbe in coloro i quali, piuttosto che apprezzare le possibilità di arricchimento del patrimonio di immagini a disposizione dell’essere umano, lo giudicano solo fonte di immondizia visibile agli occhi.

Si dovrebbe in sostanza aspirare, non a un ritorno al passato e ad una produzione limitata di immagini, ma piuttosto ad una presa di consapevolezza tale delle persone che producono immagini, da aumentare a dismisura la quantità di buona fotografia disponibile.

Se ci pensate poi dovrebbe essere stimolante per tutti coloro i quali si buttano a capofitto nel mondo della fotografia, sapere di avere una marea di immagini sempre nuove e ben fatte da osservare e da utilizzare come incentivo per  creare lavori di qualità sempre maggiore; dovrebbe essere quello in cui sperano tutti coloro che amano la fotografia e la rispettano: vederla diventare qualcosa per cui si debba essere formati e della quale si debbano conoscere il linguaggio che utilizza e la storia, per poterla praticare degnamente e insegnare.

Di tutto questo e di molto altro ci parla l’autore spingendoci a riflettere sempre e comunque su quello che facciamo con o senza macchina fotografica in mano.

Sperando di aver incuriosito e non annoiato vi lascio con questa riflessione, che non è l’unica ma è sicuramente l’ultima e più pungente: leggere il libro immaginando l’autore come un “anziano babbo natale con la lingua fuori” è stata un’esperienza illuminante su come l’immagine di chi ha prodotto il messaggio e lo stile con cui l’ha trasmesso , (che sono poi il vestito del messaggio) possano ingannare sul contenuto tutt’altro che balordo e stupido del testo, come a dire: non fermatevi mai alla superficie in fotografia, ma nemmeno nelle cose di ogni giorno perché, dopo una lettura superficiale, sotto il primo strato di pelle delle cose, potrebbe esserci qualcosa che sarebbe un peccato perdere solo per aver scelto di fermarsi alle apparenze.

Qui il link per l’acquisto

E qui il link alla fototeca Ando Gilardi dove potete trovare diverso materiale sull’autore: http://www.fototeca-gilardi.com/info/

Di Annalisa Melas

8 pensieri su “La stupidità fotografica.

  1. Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati.
    Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese, i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte.
    Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime della droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia.
    Non fotografare chi ha le manette ai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perchè non possono respingerti.
    Non fotografare il suicida, l’omicida e la sua vittima.
    Non fotografare l’imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo.
    Non fotografare il carceriere, il giudice e nessuno che indossi una toga o una divisa. Hanno già sopportato la violenza, non aggiungere la tua. Loro debbono usare la violenza, tu puoi farne a meno.
    Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi.
    Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l’eroico moncherino.
    Non ritrarre un uomo solo perchè la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme.
    Non perseguitare con il flash la ragazza sfigurata dall’incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l’attrice imbruttita dal tempo. Per loro gli specchi sono un incubo, non aggiungervi le tue fotografie.
    Non fotografare la madre dell’assassino, e nemmeno quella della vittima.
    Non fotografare i figli di chi ha ucciso l’amante e nemmeno gli orfani dell’amante.
    Non fotografare chi subì ingiuria: la ragazza violentata, il bambino percosso.
    Le peggiori infamie fotografiche si commettono nel nome del “diritto all’informazione”.
    Se è davvero l’umana solidarietà quella che ti conduce a visitare l’ospizio dei vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica.
    Non fotografare chi fotografa: può darsi che soddisfi solo un bisogno naturale.
    (Ando Gilardi)

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