Storia di una fotografia: Paul Fusco – Funeral Train – 1968

Ciao,

oggi, più che la storia di una singola fotografia, vi vorrei parlare di un intero progetto,  che mi ha molto colpito, dal primo momento in cui l’ho visto. Non so come mai ma la saga dei Kennedy ha sempre esercitato una forte attrazione su di me…

Si tratta di “Funeral Train” di Paul Fusco, un ritratto del popolo americano in un momento particolare, la morte di Robert Kennedy.

Ho scelto questa foto a rappresentare l’intero lavoro, perchè la trovo veramente toccante, anche se non corrisponde all’immagine preferita dallo stesso Fusco.

Ho spulciato e  raccolto da diverse fonti e siti web alcune notizie su questa foto e sul progetto in generale ed anche degli stralci di un’intervista di Mario Calabresi allo stesso Paul Fusco che ci racconta la storia di Funeral Train e di come  ha prodotto questo lavoro (testo in corsivo).

La storia di questo lavoro è inclusa anche nel libro di Mario Calabresi “Ad occhi aperti”, edito da Contrasto, che tra parentesi vi consiglio caldamente di leggere.

Sul sito di Magnum, trovate tutte le foto che sono state inserite in un libro, “RFK Funeral Train” .

Anna

USA. Harmans, MD. 1968. Robert KENNEDY funeral train.

Siamo nel 1968. Robert Francis Kennedy, fratello del più famoso JFK e candidato alle elezioni presidenziali del 1968, viene assassinato all’indomani della sua vittoria  nelle elezioni primarie di California e Dakota del Sud.

Paul Fusco lavorava come fotografo per il periodico Look Magazine il giorno in cui il feretro di RFK partì dalla Penn Station, a New York, per arrivare alla Union Station di Washington. Il funerale si svolse a Manhattan, nella cattedrale di St. Patrick, dopo di che la bara venne caricata su un treno di dieci vagoni che la portò alla destinazione finale: il cimitero di Arlington, dove Bob Kennedy venne sepolto poco lontano dal fratello John.

“Quel giorno non dovevo lavorare, ma vivevo a Manhattan e decisi di passare in redazione. Gli uffici di Look erano su Madison Avenue, proprio alle spalle di St. Patrick, i colleghi erano tutti in silenzio, si respirava un’angoscia fortissima. Mi siedo. Bill Arthur, il direttore, mi vede e mi chiama nella sua stanza: “Paul vai a Penn Station, porteranno la bara di Kennedy a Washington. Sali su quel treno”. Non aggiunse una parola, non disse cosa voleva, che tipo di foto, se aveva delle idee, nulla. Io non chiesi nulla, allora funzionava così, presi le pellicole, attraversai la strada e mi fermai per mezz’ora fuori dalla cattedrale. Poi camminai veloce fino alla stazione. Trovai subito il treno, era circondato dagli uomini del secret service. Era un convoglio speciale: non ho mai capito se fosse stato organizzato dal governo o dalla famiglia. Mostro il tesserino e salgo, un agente mi mostra un sedile dell’ottavo vagone e mi dice: “Siediti qui e non ti muovere”.

“Era l’8 giugno, un giorno caldissimo, un anticipo d’estate. Il viaggio durò più di otto ore attraverso cinque Stati: New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware e Maryland. Un milione di persone aspettavano lungo i binari. Il treno si muoveva lentissimo, si fermava spesso per dare la precedenza agli altri convogli, impiegammo quasi il triplo del tempo che si impiega normalmente. Ma era la velocità giusta per un funerale. Quel treno è stato il vero funerale, quello dell’America, è durato un’intera giornata, era fatto per il popolo. Era il funeral train”.

“Nell’ultimo vagone i servizi segreti decisero di mettere la bara di Bobby, la appoggiarono per terra, poi dissero ai familiari e agli amici di prendere posto nella penultima carrozza. Erano loro ad aver preso il comando del treno e non volevano discussioni. Ma i ferrovieri pensarono che sarebbe stata un offesa alla folla che attendeva e appena il convoglio cominciò a muoversi la sollevarono e la appoggiarono sugli schienali dei sedili. Era una sistemazione instabile e precaria, ma così il feretro si poteva vedere attraverso i finestrini”. 

“Non sapevo cosa fare, pensavo che a Washington e poi al cimitero di Arlington avremmo trovato decine di colleghi e di telecamere ad aspettarci, avevo bisogno di un’idea subito. Ero pieno d’ansia ma mi bastò guardare fuori dal finestrino per capire: vidi la folla e tutto fu chiaro. Abbassai il finestrino, allora si poteva fare, e cominciai a scattare. Rimasi nella stessa posizione per otto ore a fotografare la gente accanto ai binari. Quella era la storia”. 

Non so se sia stato fortunato o se abbia veramente avuto un’idea geniale, perchè trovo che questo lavoro sia veramente originale e anzi sia di molto maggior impatto rispetto ad un tradizionale reportage che un fotografo avrebbe potuto scattato sul treno e al funerale.

Tutto scorre attraverso il finestrino del treno, Paul Fusco scatta quasi duemila ritratti, si vedono bambini scalzi, genitori con i neonati in braccio, pensionati con il cappello, coppie vestite con l’abito della festa, boy scout, donne in lutto, ragazze con vestiti coloratissimi, suore che accompagnano le allieve di un collegio femminile, ragazzi seduti sulle motociclette, vigili del fuoco, famiglie in piedi sul tetto dei furgoncini, anziani che aspettano seduti sulla sedie a sdraio, uomini in bilico su un palo. Un intero spaccato di vita delle periferie americane, che rende omaggio all’uomo che aveva dato loro una speranza, dopo l’assassinio del più famoso fratello JFK.

“Venni investito da un’onda emotiva immensa, c’era tutta l’America che era venuta a piangere Bobby, a rendergli omaggio. Vedevo mille inquadrature possibili, non avevo tempo per pensare, per aspettare, dovevo reagire al volo. Le mie macchine non avevano il motore e io mi ripetevo soltanto: “Dai, scatta, scatta, scatta””.

Ma veniamo alla nostra immagine.

Verso il tramonto Fusco inquadra una famiglia di sette persone disposta in ordine d’altezza e probabilmente di età, a sinistra la più piccola dei cinque figli a destra la madre, poi il padre. Tutti sull’attenti con la testa bassa. È la foto che meglio restituisce la malinconia dell’addio. (E’questa la foto che ho scelto per rappresentare l’intero portfolio n.d.a.).

La luce cala, le fotografie cominciano ad essere mosse, sgranate. “Avevo una pellicola Kodachrome, quella che amavo di più, ma era lenta e cominciai a preoccuparmi mentre vedevo il sole scendere”. I volti si fanno sempre meno riconoscibili: è la dissolvenza di una storia, di una vita, del sogno americano.

“La mia immagine preferita è quella in cui si vedono un padre e un figlio su un ponticello di legno che salutano portandosi la mano alla fronte, dietro di loro la madre ha la mano al petto. Il giovane è a torso nudo, hanno i capelli arruffati. Quella è la foto simbolo dell’America dopo l’omicidio di Bobby: quella famiglia era povera, combatteva per sopravvivere e vedeva passare via la possibilità di una vita diversa. I Kennedy avevano dato speranza alla gente e ora quella gente vedeva tramontare il sogno. Se ne andava con quel treno, era chiuso in quella bara”.    

Eccola:

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Delle 2000 fotografie scattate, fino ad oggi ne conoscevamo soltanto cinquantatré, ma ora dagli archivi della Biblioteca del Congresso a Washington ne sono riemerse altre milleottocento.

Look magazine non pubblicò nessuna di quelle foto. Il direttore disse che erano belle ma il concorrente Life uscì prima con le foto della morte e dei funerali; allora a Look decisero di fare uno speciale sulla vita di Bob Kennedy e il reportage di Fusco finì in archivio.

“Io mi portai a casa un centinaio di stampe e non mi sono mai dato pace che non fossero state pubblicate. Ho dovuto aspettare trent’anni per vederle stampate. Le proposi al primo anniversario, al secondo, poi dopo dieci anni, venti, venticinque. Nel frattempo ero diventato uno dei fotografi di Magnum ma ogni volta che c’era un anniversario tondo cominciavo il mio giro di art director, quotidiani, riviste. Nessuno le voleva, tutti mi dicevano di no. Nel trentesimo anniversario, era ormai il 1998, provo a chiamare Life, che era diventato un mensile, ma rispondono che non interessava. Torno sconsolato qui nella sede di Magnum e mi fermo a parlare con una giovane ragazza che era appena stata presa come photo editor, Natasha Lunn. Le dico sconsolato: “Sono trent’anni che vado in giro con questo lavoro, ma cosa devo fare per vederlo pubblicato?”. Mentre lo sto per rimettere via lei mi stupisce: “Io lo so, fammi provare” e telefona a George Magazine, il mensile del giovane John John Kennedy, il nipote di Bobby. Impiegò solo due minuti a convincerli e finalmente io vidi le mie foto pubblicate”.      

Se volete approfondire la conoscenza di Paul Fusco, qua trovate la sua biografia e altri suoi lavori .

4 pensieri su “Storia di una fotografia: Paul Fusco – Funeral Train – 1968

  1. Belle e toccanti sia le fotografie che il racconto di Paul Fusco. Penso che quando nelle fotografie si immortalano le emozioni e si riesce a trasferirle, non esiste, per il Fotografo, un riconoscimento più grande. Non importa proprio nulla che la fotografia sia sgranata, non incisa, sfocata,mossa, sotto o sovraesposta: quello che conta è l’emozione che traspare dai soggetti, e che il Fotografo ha saputo cogliere e trasferirci. Anzi questi “difetti” fotografici non fanno altro che enfatizzare il senso di disagio, smarrimento, sofferenza e preoccupazione della gente accorsa al “Funeral Train”.

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