Ma questa è fotografia documentaria?

Elucubrazioni mentali su Max Pinckers, il suo approccio e la fotografia documentaria.

Scritto da Anna Brenna

Ho avuto modo di leggere un articolo di Cassidy Paul su Max Pinckers apparso recentemente su Time che mi ha intrigato e mi ha fatto riflettere e porre qualche interrogativo.

Dichiaro subito che a me le sue foto piacciono molto, così sgombriamo il campo da eventuali fraintendimenti. Queste immagini così cinematografiche, che mi fanno veramente porre delle domande, mi affascinano molto. Mi piace la visione di Pinckers, in un certo qual modo spiazzante.

Il dubbio è come classificare questo tipo di lavoro, ammesso poi che sia davvero necessario farlo. Forse no.

Da tempo è in atto una diatriba sui confini della fotografia documentaria, tra fotografi documentari in senso stretto e cosiddetti “storytellers” o “contastorie”, come mi piace definirli, visto che la terminologia inglese a qualcuno dà fastidio, anche se a me sembra molto più diretta e puntuale. Il dibattito tocca anche l’aspetto del ritocco, cosa è consentito e cosa no, ma non voglio entrare in questo ambito ora.

Date un’occhiata alle fotografie di Pinckers qua sopra, soprattutto quelle riferite ai suoi lavori più recenti, Giappone e India.  Il lavoro sui trans in Thailandia, mi sembra già più rispondente alla documentazione in senso stretto. Se v’interessano i suoi progetti completi, questo è il suo sito, questo il suo profilo sul sito di Magnum

Ebbene Max Pinckers dichiara a Time: “Io sto facendo un lavoro di documentazione, forse solo in maniera differente.” Queste non sono foto “staged” o completa finzione ma scene spontanee che Pinckers ha visto svolgersi davanti a sè, afferma il giornalista. In alcuni casi in realtà, quando le cose non si svolgevano esattamente come lui si aspettava, Pinckers non ha esitato a ricreare le scene così come lui le aveva in mente o si aspettava che fossero, anche se di fatto poi la realtà non era esattamente quella.

Le sue fotografie ci mostrano un mondo strano e misterioso, dove sembra che le cose succedano fuori dalla nostra vista. Il suo approccio è un mix di spontaneità e controllo.

Il fatto che Pinckett appartenga alla più importante agenzia di foto reporter al mondo (Magnum Photos),  storicamente legata alla tradizione della fotografia documentaria e al foto-giornalismo rende la cosa ancora più strana.

Lui sembra essere perfettamente a suo agio nel suo ruolo all’interno di Magnum; per lui è di vitale importanza che le sue fotografie rientrino nella categoria della fotografia documentaria, ed è convinto che ne facciano parte a pieno diritto, sebbene più che mostrare fatti, lui ci racconti storie e interpreti la realtà in base alla sua visione.

E’ proprio questo secondo me il nodo della questione. Documentazione stretta dei fatti o spazio all’interpretazione della realtà? Sono due cose diverse. Verità assoluta o finzione al servizio dell’interpretazione?

Per coloro che ritengono che la fotografia documentaria non possa essere staged, Pinckers manda un messaggio chiaro e anche provocatorio: “[coloro che credono questo] si perdono molte opportunità di raccontare storie. Alla fine, quello che conta è come si racconta la storia. Non importa se sia vera o no, è quello che voi state cercando di dire che è vero. E se voi vi fate costringere da queste idee così immense e dogmatiche, state spazzando via dal tavolo una gran parte delle possibilità. E questo credo significhi che il mezzo stesso si impedisca di utilizzare il suo pieno potenziale”.

Da Wikipedia traggo una definizione di fotografia documentaria: La fotografia documentaria (o documentaristica) è un’attività fotogiornalistica che si propone di riprodurre oggettivamente la società attraverso la cronaca per immagini della realtà quotidiana.

Chiaramente se sposiamo questo tipo di definizione, Pinckers non sembrerebbe rientrare nella categoria documentaristica. Ma a mio parere c’è differenza tra fotografia documentaristica e foto-giornalismo.

Personalmente credo che in qualche modo anche queste fotografie documentino delle realtà, quanto meno quelle percepite o interpretate dall’autore. Certo, probabilmente il foto-giornalismo in senso stretto è lontano da questa visione e gli amici fotoreporter penseranno che quello che dice Pinckers sia un’eresia.

In questo articolo, il punto di vista di Maurizio G. De Bonis, apparso su Punto di Svista tempo fa, che trovo abbastanza simile al mio.

Recentemente l’argomento è stato affrontato anche da Michele Smargiassi, in questo articolo del suo blog Fotocrazia.

Voi cosa ne pensate?

Anna

Di seguito una breve biografia di Max Pinckers, tratta dal suo profilo Magnum e tradotta (spero decentemente), per chi non conoscesse questo autore.

Pinckers (Belgio, 1988) è cresciuto in Indonesia, India, Australia e Singapore. Si è avvicinato alla fotografia all’età di 12 anni. Nel 2006 è tornato al suo paese natale per studiare fotografia documentaria al Kask (Gandes), dove attualmente è un dottorando ricercatore. Nel 2015 è diventato membro di Magnum Photos.

Dal 2011 ha realizzato diverse serie in paesi quali la Thailandia, l?india, il Giappone e il Kenya. Ogni serie si è trasformata in un libro accuratamente editato, che include un intreccio di fotografia, documenti e testi.

Non credendo nell’assoluta obiettività o neutralità, Pinckers è un fautore dell’approccio manifestamente soggettivo, che è reso palese attraverso l’uso esplicito di illuminazione teatrale, regia o extra. Una ricerca approfondita e una diligente preprazione tecnica sono combinate con l’improvvisazione con lo scopo di ottenere immagini documentarie ma contemporaneamente anche vivaci, inattese, critiche, poetiche.

4 pensieri su “Ma questa è fotografia documentaria?

  1. Incasellare un fotografo e le sue fotografie in un genere è sempre un’operazione ardita. Se si tratta di documentaristica lo è ancora di più.
    A me personalmente queste fotografie non piacciono. Per il mio senso dell’immagine sono troppo posate e mi ricordano troppo le tecniche dei fotoromanzi. Ma naturalmente è solo una questione di percezione.
    Preferisco (dal punto di vista concettuale) il genere di fotografie “posate” che si trovano nel lavoro di Paul Strand e Cesare Zavattini fatto a Luzzara. Non c’è “l’eccesso” di posa che trovo ci sia in Pinkers. Si può obiettare che l’effetto [di Pinkers] sia stato voluto, magari per smontare il concetto di “documentazione”. Certo, è possibile, ma allora è mia opinione che non sia più “documentazione” (sempre che si possa definire un perimetro preciso per questo genere di fotografia).

    • Ciao, scusa il ritardo nella risposta, sono in America per lavoro, credo che tu abbia ragione. In qualche caso trovo anche io eccessivo, il suo lavoro, grazie ancora. Sara

  2. Grazie per regalarci, parlando di critica fotografica, queste autentiche perle di saggezza:
    1. La fotografia è tutta documentale, perchè anche quando è costruita, sceneggiata o trasformata con il fotoritocco, riflette una realtà e una verità che, pur non esistendo nel mondo fisico esterno, esiste e vive nell’interpretazione dell’autore. Seguendo questo ragionamento ora mi rendo conto che Kandinsky è un pittore iper-realista.
    2. Che noioso e retrogrado infastidirsi per l’uso e abuso dell’inglese nella lingua italiana, visto che è più appropiato, oltre che per darsi un tono, anche per definire concetti che l’italiano proprio non riesce a esprimere. Quando c’è povertà di chiarezza e d’espressione non è, come pensavo, dovuto alla scarsa preparazione dell’autore (ma anche autrice) sui temi sui quali si vuole dissertare o sull’uso dell’italiano, ma al fatto che l’inglese è proprio meglio.
    Ce l’ho con la lingua inglese? Forse no, visto che ho letto varie cosette, da Shakespeare a Joyce, in lingua originale…

  3. Ciao Roberto,
    perdonami, ma non sono certa di aver compreso il tuo commento. Provo lo stesso a rispondere.
    Posso essere d’accordo con te che Pinckers non faccia documentazione in senso stretto, ma non utilizzerei estremismi eccessivi. Il tema è spinoso e il dibattito è aperto. Ho sentito campane moto diverse in materia e ho voluto esprimere anche la mia impressione. Grazie di avermi fornito ulteriori spunti di riflessione.
    Riguardo all’uso della terminologia inglese, io credo che alcuni termini siano semplicemente più precisi e puntuali nel rappresentare un concetto. Detto questo, che ognuno usi la lingua che ritiene più appropriata. Non è certamente un problema.
    Ciao
    Anna

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