Ma chi era Mario GIACOMELLI? Vita, foto, intervista.

Mario Giacomelli (Senigallia, 1º agosto 1925 – Senigallia, 25 novembre 2000) è stato un tipografo, fotografo, poeta e pittore italiano.

Nasce il 1º agosto 1925 a Senigallia. A nove anni resta orfano di padre. Sua madre, per mantenere i tre figli ancora bambini, fa la lavandaia in un ospizio. A tredici anni è garzone presso la Tipografia Giunchedi finché non sopraggiunge la guerra, vi ritorna, dopo aver partecipato ai lavori di ricostruzione dai bombardamenti post bellum, come operaio tipografo. Nel 1950 decide di aprire una tipografia tutta sua. A permettergli il gran passo, prestandogli tutti i suoi risparmi, sarà un’anziana ospite dell’ospizio in cui la madre lavorava. Nasce così la Tipografia Marchigiana via Mastai 5, che diverrà, negli anni, luogo di “peregrinaggio” da parte di artisti, critici, studiosi di tutto il mondo.

Nel 1953, Giacomelli acquista una Bencini Comet S (CMF) modello del 1950, con ottica rientrante acromatica 1:11, pellicola 127, otturazione con tempi 1/50+B e sincro flash e il giorno di Natale va in spiaggia e scatta le sue prime foto. Da qui nasce L’approdo, la celebre fotografia della scarpa trasportata dalle onde sulla battigia, con cui partecipa a diversi concorsi fotoamatoriali e grazie al quale capisce da subito che vuole esprimersi attraverso il mezzo fotografico. Tra il ’53 e il ’55 inizia a fotografare assiduamente parenti, colleghi e gente della sua cerchia amicale in pose e costruzioni iconografiche teatrali. È di questo periodo la famosa foto Mia Madre (ritratto alla madre con in mano una vanga). In quegli anni frequenta lo studio fotografico di Torcoletti e sarà questo, avendo intuito le grandi potenzialità espressive del giovane tipografo, a fargli incontrare Giuseppe Cavalli, artista e critico d’arte dal temperamento carismatico, che lo inizia alla riflessione sulla Fotografia e sull’Arte, introducendolo nell’ambiente dei grandi circoli fotografici dell’epoca, come la “Bussola” e la “Gondola”, nel cuore della riflessione sul ruolo della Fotografia nell’arte e nella società.

Sotto la guida di Ferruccio Ferroni e con la supervisione di Cavalli, Giacomelli si addentra nella tecnica fotografica fino a trovare una sua propria sicurezza espressiva. È così che nel ’54 si costituisce ufficialmente il gruppo fotografico Misa. La strada verso la notorietà di Giacomelli è aperta dalla vittoria al prestigioso Concorso Nazionale di Castelfranco Veneto nel ’55. Qui Mario Monti, della giuria, denomina Giacomelli “l’uomo nuovo della Fotografia”. Ben presto Giacomelli sentirà stretti i severi precetti stilistici di Cavalli: avverte che i toni di grigio sono inappropriati a rappresentare quell’impeto e quel tragico che ritrovava invece nei suoi forti − e all’epoca sconvolgenti − contrasti di bianco e nero. Sono di questi anni le prime indagini sull’Ospizio e sui Paesaggi, che l’artista porterà avanti per i decenni a venire. Giacomelli intanto, continua a partecipare assiduamente ai concorsi fotoamatoriali anche dopo il raggiungimento della fama internazionale, ricevendo innumerevoli premi e riconoscimenti.

Risale al 1955 l’entrata in scena della mitica Kobell Press, obbiettivo Voigtlander color-heliar 1:3,5/105, la macchina fotografica da cui non si dividerà mai e che andrà a manipolare personalizzandola. Nello stesso anno conosce Luigi Crocenzi, presentatogli da Cavalli. E nel ’56 Pietro Donzelli insiste, in una lettera inviata a Giacomelli, sulla necessità di strutturare la produzione fotografica in sequenze e racconti. Dello stesso stampo, l’insegnamento di Crocenzi. Sono di questo periodo serie dall’apparenza “reportagistica” (anche se in Giacomelli è sempre un azzardo chiamarle tali, visto l’alto grado evocativo e astrattizzante che distingue le sue foto), e nascono Lourdes (1957), Scanno (1957/59), Puglia (1958, dove tornerà nel 1982), Zingari (1958), Loreto (1959, dove ritorna nel 1995), Un uomo, una donna, un amore (1960/61), Mattatoio (1960), Pretini (1961/63), La buona terra (1964/66). Romeo Martinez gli apre intanto la strada verso le pubblicazioni sulle riviste specializzate di Fotografia. Continuando con la sua ricerca, il fotografo inizia a chiedere ai contadini, pagandoli, di creare con i loro trattori precisi segni sulla terra, agendo direttamente sul paesaggio da fotografare per poi accentuare tali segni nella stampa (anticipazione della Land Art americana degli anni 60-70). Giacomelli realizza che dalla realtà deve partire come pretesto per ricercare, nelle sue forme, un senso nuovo che possa permettergli un avvicinamento estremo al reale attraverso la fotografia: nasce Motivo suggerito dal taglio dell’albero (1967/68) e seguono la stessa filosofia le serie da Favola, verso possibili significati interiori (1983/84) in poi, in un percorso creativo sempre più astratto. Tramite Crocenzi, nel ’61 Elio Vittorini chiede a Giacomelli l’immagine Gente del sud (dalla serie Puglia) per la copertina dell’edizione inglese di Conversazione in Sicilia. Nel ’63 Piero Racanicchi, che insieme a Turroni è stato tra i primi critici sostenitori dell’opera di Giacomelli, segnala il fotografo a John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del MOMA di New York che sceglie di esporre una sua fotografia alla mostra The Photographer’s Eye. L’immagine è tratta dalla serie Scanno. Da tutti riconosciuta come Il bambino di Scanno, questa fotografia è oggi la sua più famosa nel mondo. Questa partecipazione sarà per Giacomelli una vera e propria consacrazione che lo farà entrare di diritto della Storia della fotografia mondiale.

Nel ’64 Szarkowski acquisirà poi l’intera serie Scanno e alcune immagini della serie Pretini. Nello stesso anno partecipa alla Biennale di Venezia con la serie dell’Ospizio, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dove viene messo in rilievo il concetto di fotoracconto. Sotto l’influsso di Crocenzi, nel ’67 Giacomelli pensa alla realizzazione di una serie fotografica incentrata sul racconto, interpretando Caroline Branson dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master, e chiede a Crocenzi di fornirgli un canovaccio da seguire. La serie sarebbe dovuta essere destinata alla televisione, ma quello che ne sarebbe dovuto sortire è un risultato che Giacomelli non trova nelle sue corde, quindi il progetto decade, ma la serie viene comunque ultimata nel ’73, completamente stravolta, ed è qui che compaiono per la prima volta le sovrimpressioni, espediente stilistico che Giacomelli riprenderà in tutta la produzione futura.

Nel 1968 conosce Alberto Burri, con cui instaura un’amicizia profonda e a cui dedicherà delle opere di Paesaggi dove forte è il richiamo all’Informale e alla poetica dell’artista. L’informale, in effetti, affascina Giacomelli tanto che, dalla fine degli anni ’50 fino agli anni ’70, crea egli stesso centinaia di opere pittoriche, e negli anni Sessanta entra a far parte del gruppo artistico senigalliese in cui ci si confrontava sull’arte e sull’astrattismo, creatosi attorno alla figura del corniciaio Mario Angelini in via Arsilli, in cui si riunivano pittori e scultori come Marinelli, Ciacci, Donati, Gatti, Genovali, Bonazza, Mandolini, Moroni, Sabbatini. In realtà, secondo la lettura che ne fa Katiuscia Biondi, nipote dell’artista, nel libro Mario Giacomelli. Sotto la pelle del reale (Ed. 24 Ore Cultura, 2011), vediamo che l’intera opera giacomelliana nasce e si sviluppa secondo direttive concettuali e metodologiche prossime all’Informale, prima fra tutte il considerare ogni singolo elemento, ogni fotografia, non come un prodotto finito, un oggetto chiuso in sé secondo criteri di perfezione formale, ma parte di un tutto (l’intero corpus fotografico), un tutto in divenire che prende senso e forma e vitalità proprio dalle interrelazioni dei singoli elementi che lo compongono: l’opera giacomelliana è un complesso sistema, un organismo che si nutre del suo stesso movimento, e Giacomelli revisiona continuamente le serie fotografiche mettendole in comunicazione tra loro, sia iconograficamente (con rimandi simbolici che si ripetono nei decenni), sia con interventi su di esse tanto da fondere fotografie di una vecchia serie (attraverso la sovrimpressione) con scatti per una nuova, o anche alimentando nel corso degli anni una vecchia serie con l’aggiunta di nuove fotografie prese da una sorta di serbatoio, Poesie in cerca d’autore (anni ’70/2000), un amm***o di scatti archiviati proprio a questo scopo.

Nel ’78 partecipa alla Biennale di Venezia con fotografie di Paesaggi. Nel 1980 Arturo Carlo Quintavalle scrive un libro analitico su tutta l’opera del fotografo, acquisendo una buona quantità di sue opere per il centro CSAC di Parma. L’astrattismo si ritrova esplosivo nella serie Favola, verso possibili significati interiori del 1983/84. Data in cui conosce il poeta Francesco Permunian con il quale instaura una collaborazione che dà alla luce le serie Il teatro della neve (1984/86) e Ho la testa piena mamma (1985/87). Dal 1984 Giacomelli invita a partecipare alla realizzazione delle Serie fotografiche, suo figlio Simone, che contribuirà alla scelta delle immagini e al loro accostamento finale, sempre sotto l’occhio attento dell’artista. Da qui fino alla fine, Giacomelli, assieme a Simone, crea serie fotografiche lasciandosi ispirare da testi poetici: nel 1984/85 crea Il canto dei nuovi emigranti (Franco Costabile), nel 1986/88 Felicità raggiunta si cammina (Eugenio Montale), nel 1986/88 L’infinito (Giacomo Leopardi), nel 1987/90 P***ato (Vincenzo Cardarelli), nel 1987/88 A Silvia (Giacomo Leopardi), nel 1992/94 Io sono nessuno Emily Dickinson, nel 1994/95 La notte lava la mente (Mario Luzi), nel 1997/99 Bando (Sergio Corazzini), nel 1998/2000 La mia vita intera (Jorge Luis Borges); e in un secondo momento cambia il titolo delle serie dell’Ospizio con titoli di poesie (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1954/83) di Cesare Pavese, e Ninna Nanna (1985/87) di Leonie Adams), e dei Pretini (Io non ho mani che mi accarezzino il volto da una poesia di Padre David Maria Turoldo).

Nel 1983/87 crea Il mare dei miei racconti fotografie aeree scattate alla spiaggia di Senigallia. Negli anni ’70/90 Giacomelli fotografa la costa adriatica nei pressi di Senigallia, creando la serie Le mie Marche. Nel 1986 muore la madre, e per l’artista è un trauma fortissimo che segna un mutamento nella sua produzione fotografica verso un sempre più esplicito dato autobiografico. Ormai la sua notorietà si è espansa a livello internazionale e nel mondo le sue opere sono richieste dai più prestigiosi musei d’Arte, mentre la sua ricerca si fa sempre più introspettiva, intimistica e votata al Vuoto, chiuso nel suo territorio marchigiano a fotografare il paesaggio come possibile luogo di ritrovamento di se stesso.

Le serie Vita del pittore Bastari del 1991/92, gli autoritratti e i muri corrosi di Poesie in cerca d’autore, Bando del ’97/99 (ancora una volta una serie votata all’astrattismo), 31 Dicembre (1997), sono ormai scenari completamente costruiti da un Giacomelli regista ancor prima che fotografo. Interessante seguire il suo percorso esistenziale attraverso la sua produzione fotografica, in una totale fusione tra vita e arte, in una visione della fotografia come strumento per poter entrare sotto la pelle del reale, per scoprire che non c’è netta distanza tra il mondo e il soggetto che lo guarda.

Mario Giacomelli muore il 25 novembre del 2000 a Senigallia, dopo un anno di malattia, lavorando fino all’ultimo alle sue fotografie, nella creazione delle serie: Questo ricordo lo vorrei raccontare (1999/2000) e La domenica Prima (2000).

La sua opera più nota: Il bambino di Scanno

Questa fotografia venne scattata il 19 ottobre 1957 in Abruzzo nel paese di Scanno.

La fotografia ritrae in maniera fiabesca, quasi irreale, delle figure femminili scure e mosse che avanzano verso l’osservatore mentre un unico soggetto centrale è fermo e a fuoco: un bambino che cammina con le mani in tasca.

La serie Scanno, da cui l’opera proviene venne resa pubblica da Giacomelli poco tempo dopo ma solo nel 1964 riscosse vera notorietà ed apprezzamento da parte del mondo della fotografia. Questo avvenne quando John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del MOMA di New York scelse di esporre l’opera alla storica mostra The Photographer’s Eye. Tra migliaia di foto visionate, assieme a Giovanni Bonicelli, Giacomelli è l’unico italiano che verrà selezionato per questa esposizione passata alla storia.

Il ritrovamente del soggetto della fotografia Dopo 56 anni Simona Guerra, archivista e nipote di Mario Giacomelli, è tornata sulle tracce del bambino ed ha ritrovato il soggetto che senza saperlo posò per quell’icona della fotografia. Egli si chiama Claudio De Cola e il 19 ottobre 1957, come le altre persone ritratte, stava uscendo dalla chiesa di Sant’Antonio da Padova dopo una funzione religiosa. Oggi Claudio ha più di sessant’anni e da molto tempo non vive più a Scanno. Il suo riconoscimento, confermato dal soggetto, è stato fatto dai genitori, in particolare dalla mamma Teopista Di Gennaro che ha mostrato diverse immagini del ragazzo in cui è sorprendente constatare in maniera inconfutabile le generalità del bambino ritratto da Giacomelli. Ma c’è dell’altro: oltre al bambino sono state riconosciute da molti abitanti del luogo anche le due signore in primo piano, ormai purtroppo scomparse. La donna a destra sembra rispondere al nome di Paolina De Crescentis mentre quella a sinistra si chiamava Sapienza Fronterotta. Quest’ultima, che più della prima sembra essere coperta da una sciarpa nera, mostra un fazzoletto particolare che le copre la bocca e che si indossava a Scanno nei periodi di lutto.

Biografia presa da Wikipedia, in linea di massima giusta.

INTERVISTA A MARIO GIACOMELLI fatta da Horvat

Questa intervista è stata realizzata da Frank Horvat e fa parte del libro Entre Vues, una serie di conversazioni con alcuni tra i più importanti fotografi del ’900. La versione italiana è pubblicata per la prima volta su Maledetti Fotografi. Mi chiedo se i tuoi occhi somigliano a quelli di tua madre. Non so bene come li aveva, mia madre. Forse la sola differenza tra noi era che lei portava un vestito da donna, e io da uomo. Di mia madre, la cosa che mi sembra la più importante, e anche la più bella, è che in tutta la sua vita non sono mai riuscito a dirle che la amavo. Forse per il mio cattivo carattere, o per timidezza. Non sono mai riuscito a darle un bacio, e nemmeno a chiederle come stava. È morta pochi mesi fa. Ho baciato le sue labbra, dopo morta, ma per me era bello, e da quel momento ho cominciato a vivere con lei, adesso le chiedo come sta, se è felice di me. Son cose più grandi della fotografia, forse è meglio non parlarne. Ma tu guardi i tuoi occhi allo specchio, ogni tanto ? Ti chiedi cosa sono, questi occhi? Non li guardo, forse neanche li sento. O li sento come un tramite. Quando tu fotografi, hai un’immagine di fronte, che attraverso un forellino entra nella macchina, e tu puoi averne una copia, un estratto. Cosi sono i miei occhi, uno strumento per prendere, per rubare, per immagazzinare cose che vengono poi intrise e rimesse fuori, per gli occhi degli altri. E la macchina fotografica ? Tu non hai una macchina come noi tutti, Kodak o Nikon o Leica. Io non so cosa hanno gli altri. Io ho una macchina che ho fatto fabbricare, una cosa tutta legata con lo scotch, che perde i pezzi. Io non sono un amante di queste cose. Ho questa da quando ho iniziato, sempre la stessa. Con lei ho vissuto le cose, belle o brutte, con lei ho diviso tanti attimi della mia vita. Mi rattrista solo l’idea di staccarmi da lei. Ma questa macchina da dove viene ? L’ho fatta fare io. Ho smontato un’altra macchina di un amico mio, togliendo tutte le cose inutili. Per me l’importante è che ci sia la distanza e… cosa c’è d’altro? Io non so came funzionano queste cose. L’importante è che non passi la luce. È una cassa senza niente. E che film ci metti ? Quello che trovo. Ma un film 35 millimetri ? Non mi chiedere i millimetri. I film grandi, non quelli piccoli. Non il piccolo formato. Mai avuto. Centoventi ? Non mi dire mai i numeri! Io so solo una cosa: il sei per nove e ridotto a sei per otto e mezzo. Cioè fai dodici foto con un rullino ? Non ricordo. Mi sembra che ne faccia dieci, non dodici. Dieci immagini. Per me questo è importante. Una volta ho vinto un apparecchio di piccolo formato, in un concorso, ma non sono riuscito a fotagrafare, era troppo veloce, non c’era più la partecipazione come con la mia macchina, non avevo il tempo di pensare, scattavo quasi inutilmente. E perdevo la gioia più bella, che è questo aspettare, questo preparare l’immagine, girare, cambiare il rullino. Invece questa è giusta per me, per il mio carattere. E che velocità ha questa macchina ? Un trentesimo? Un centesimo ? Non ricordo. So che non arriva oltre il duecentesimo. Per fare i paesaggi dall’aereo, me ne faccio prestare un’altra, da un amico, ci sarebbe da vergognarsi, però non me ne frega niente. Per me va bene lo stesso, perché io, se potessi, fotograferei senza macchina, non ho questo grosso amore per la meccanica. E il diaframma che apertura ha? Secondo le volte. A Scanno, per esempio, le ho fatte quasi tutte a un venticinquesimo. In inverno faccio due e ventidue. Diaframma ventidue e mezzo secondo. So che c’è un due e un ventidue. È la chiusura dell’obiettivo, questo l’ho imparato a memoria. Dunque chiudi completamente l’obiettivo. Tutto chiuso, sempre uguale. Perché sono paesaggi. Invece quando faccio le figure no. Tengo l’obiettivo aperto perché c’è poca luce. E i vecchi nell’ospizio? I vecchi nell’ospizio è un altro discorso, adopero un lampo. Volutamente. Perché alla cattiveria di chi ha creato il mondo, di chi ci fa invecchiare, a questa cattiveria aggiungo anche la mia cattiveria. Non tanto per mostrare la materia della pelle, ma per aggiungere qualche cosa di ancora più forte, un contrasto. Il lampo modifica la realtà, la fa più mia. Anche se quello che il lampo ti dà non è quello che vedi al momento in cui scatti? Se non lo vedo, non lo scatto. Quando uno è abituato a usare il lampo, non tiene più conto se c’è luce o non c’è luce, solo di quello che sta accadendo di fronte all’obiettivo, dell’espressione dei volti. Direi anzi che so tutto prima. Anche perché, su ogni progetto, tu non lavori per un giorno o una settimana. Ma per due anni, tre anni. E poco a poco conosci. Per me l’importante è crearmi questa atmosfera. Essere chiuso in questa specie di scatola, in contatto con questo piccolo mondo. Vivere le cose che loro vivono, essere uno di loro. All’ospizio sono andato per un anno senza macchina fotografica, perchè non volevo che sentissero la macchina puntata. Ero un vecchio come loro. Che età avevi? Avevo cominciato a fotografare da pochi mesi. Avevo una trentina d’anni. Avevi pensato per molto tempo a questa progetto? Niente, non ci ho pensato niente. Le prime immagini che avevo fatto erano state di mia moglie, di mia madre, dicevo loro: stai lì. Ma mi son reso conto che non so fotografare una persona che sorride, che è dolce nel viso, ho bisogno che l’altro sia come sono io dentro. Allora inveisco, divento cattivo. Fotografando loro, ho sentito che avevo bisogno di qualcosa di più vero. Per questo ho pensato all’ospizio. È stato il tuo primo lavoro importante? È importante anche oggi. Se dovessi scegliere tra le cose fatte, salvarne una, salverei l’ospizio. Non per l’ospizio in sè, dell’ospizio non me ne frega niente. Quello che mi importa è l’età, il tempo. Tra me e il tempo c’è una discussione sempre aperta, una lotta continua. L’ospizio me ne dà una dimensione più esatta. Prima di fotografare io dipingevo, si potrebbe pensare che dipingere non abbia niente a che fare con il tempo, ma anche allora era il tempo che contava. Ogni sera iniziavo un quadro, e mi imponevo di terminarlo quella notte, anche se non andavo a dormire. Per finire il quadro con quella stessa tensione. Perché il giorno dopo sarei stato un’altra persona, non avrei più sentito le stesse cose. Cosa dipingevi? Ho iniziato a dipingere con la terra, incollavo la terra con altre materie, con le foglie, non so se si può chiamare dipingere. Poi ho provato i colori, le tele. Poi ho distrutto tutto. Poi, per un periodo, ho scritto poesie, e ho distrutto anche quelle. Poi ho scoperto che la fotografia ha una forza maggiore che tutte le cose che avevo fatto prima. Anche se non crei, anche se non puoi dire tutte le cose che vuoi, la fotografia ti permette di testimoniare del passaggio tuo su questa terra, come un blocco di appunti. Ho scoperto che questo mezzo meccanico, freddo come dicono, permette di rendere delle verità che nessuna altra tecnica può rendere. La mia prima macchina era una Comet, l’ho comprata il 24 dicembre. II 25 sono andato al mare, e ho provato – ma non capivo neanche come funzionava – ho provato con queste pose molto lunghe. Le onde venivano verso di me e io spostavo la macchina in senso opposto. Ce ne sono state tre a quattro giuste, come le avevo immaginate. Le altre erano da buttare. Così, al primo contatto tra me, la natura e la macchina fotografica, ho scoperto che questo aggeggio meccanico, che prima mi faceva paura, poteva diventare una continuazione di me stesso. E le fotografie le sviluppi tu? Le sviluppo e le stampo. Le bacinelle son lì, il tavolo, come vedi, è tutto consumato. E quello che trovi nelle tue foto è quello che pensavi di trovare? O ci sono molte sorprese? Se ci fossero troppe sorprese non le userei. Sono molto vicine a quello che volevo, qualche volta sono proprio quello che volevo. Ma certe nascono anche dal caso, io sono uno che crede anche al caso. Da particolari non preventivati prima, che forse sentivo senza rendermene conto. Qualche volta le cose non vengono come volevo, ma qualche volta vengono meglio. Ma al momento in cui fotografi tu sai quello che vuoi. Il fatto che non le butto significa che in qualche modo corrispondono a quello che volevo. Tanto più che tu ti dai il tempo necessario per sapere quello che vuoi, per avvicinarti sempre di più. Vorrei entrare dentro. Io credo all’astrattismo, per me l’astrazione è un modo di avvicinarsi ancora di più alla realtà. Non mi interessa tanto documentare quello che accade, quanto passare dentro a quello che accade. E le fotografie che contano di più sono forse quelle che ho vissuto senza scattarle. Questa donna senza denti, che cerca di masticare e non riesce a mandar giù, si toglie di bocca questa cosa e la rimette sul tavolo. Poverette, non vedono. L’altra che le sta vicino la riprende – all’inizio, per mesi, non riuscivo più a mangiare – riprende la cosa masticata dalla prima, se la mette in bocca e continua, come se fosse una cosa sua. Le immagini più vere sono queste, che io conosco e che tu non saprai mai, le immagini che non ho fatto. Ma che sono contenute, in qualche modo, in quelle che hai fatto. Certo, vivendo tanto tempo insieme a loro, uno le fa e non se ne accorge. Ci andavi tutti i giorni ? Tutti i momenti liberi, Natale, Pasqua, sabato pomeriggio, la domenica appena svegliato e appena fatta colazione. Perché tu sei un fotografo della domenica. Fotografo quando ho il tempo. Io non sono un mestierante, nessuno mi può mandare, nessuno mi può dire : adesso vai a fotografare. Neanche la fame me lo può dire. Vado quando fa comodo a me, quando mi sento preparato. Se sono distratto io non fotografo, neanche mi viene in mente di fotografare. Ma all’ospizio ci andavi ogni settimana. Tutti i giorni che non lavoravo in tipografia. Stavo lì, tenevo la mano all’una, portavo le caramelle all’altra che il figlio non andava mai a trovare – e che poi invece mi ha denunciato perché la fotografavo. E in una giornata così facevi un rullino, due rullini? Certe giornate non facevo niente. Perché è come se tu ti vedessi in uno specchio, e non sempre hai il coraggio di vederti. Ci sono delle volte che vorresti che non avessero mai inventato lo specchio, perché quell’immagine sei tu, sono i tuoi figli, è tua madre. Ognuna di queste immagini è il ritratto mio, come se avessi fotografato me stesso. Non ho niente contro i vecchi o contro l’ospizio. Solo contro il tempo, questo presente che non esiste mai, già il momento in cui parliamo è fatto un po’ di prima, un po’ di dopo, di passato e di futuro. Là dentro lo senti ancora di più, come un coltello puntato contro il tuo cuore, ogni cosa ti concerne e ti ferisce. A volte hai il coraggio di fotografare e a volte no. Come a Lourdes, le fotografie che ho fatte non so neanch’io come le ho fatte. Una volta stavo a vedere una bambina, non so che male aveva, la tenevano in quattro o cinque, e lei cercava di morderli, e loro la lasciavano e poi la rincorrevano. Io ho messo giù la macchina sul muretto di quella scalinata, e sentivo le lacrime, non so come si piange, però scendevano come da un rubinetto. Quell’immagine là ho sempre davanti agli occhi, questi miei occhi hanno saputo piangere ma non hanno saputo guardare attraverso la macchina. E la macchina è stata abbastanza onesta per non forzarmi. Apposta voglio tenere questa, che ho sempre avuto, è come se avesse la mia stessa sensibilità, niente di diverso dal mio carattere. Non vuole cose difficili perché non voglio case difficili, la posso lasciare dove voglio, la ho lasciata anche nei campi e l’ho ritrovata, a molti sembra forse un oggetto buttato via. Ma sono cose che è meglio non spiegare. Dunque ci sono delle cose davanti a cui tu ti dici : questo no, non lo fotografo. Non è che me lo dico, io mi accorgo che non fotografo. Quando non accetto come verità quello che i miei occhi vedono, perché mi sembra impossibile che una persona, dopo una vita di stenti e di lavoro, sia condannata in quella maniera. Ci sono delle cose che non vogliono essere riprese. Poi altre volte mi accorgo invece che fotografo: quando posso fare delle immagini che non gridano contro nessuno. Solo contro il tempo. E quando tu le guardi, dopo, queste tue foto, c’è un momento in cui ti dici : questa va bene e questa no, in questa direzione voglio cercare più lontano? Non capisco cosa vuoi farmi dire. Mi sembra che vuoi sapere qualche cosa che non so dirti. Io non mi dico mai : adesso scatto, adesso non scatto. Ci sono delle volte che io guardo una cosa, ma le mani sono bloccate. Invece altre volte quello che accade è cosi naturale che lo posso fermare, l’immagine mostra solo quello che mi aspetta domani, non grida contro nessuno. Io ti chiedevo di un secondo tempo, quando guardi i contatti. Nel secondo tempo le vedo ancora meglio, queste cose che ho vissuto. Le immagini che scelgo sono quelle che rendono le sensazioni che ho provato nel momento in cui scattavo, le sensazioni che vorrei non perdere, che vorrei dare ad altri. Scelgo le immagini che potrebbero aiutare gli altri a riflettere, ad amare di più la vita. La mia domanda era in relazione al progresso del lavoro. Hai fatto le tue foto domenica, le hai sviluppate lunedì. Martedì guardi i contatti. Ti dici : ecco, questa cosa l’ho mostrata bene, quest’altra dovrei cercare di mostrarla meglio domenica prossima? Finchè, dopo tre anni, o cinque anni, tu hai l’impressione di aver reso quello che potevi rendere? Questo accade per tutti gli altri soggetti, ma non per l’ospizio. Ogni fotografia è il ricordo di un giorno vissuto in mezzo a loro. Per l’ospizio non faccio programmi, domani vivrò altre situazioni. Invece ho programmato nel caso di certi paesaggi, alcuni addirittura li ho costruiti io. Vengo con il contadino, con il trattore, dico: Vorrei fare dei segni qui, costruisco la fotografia come un quadro. L’ospizio invece lo vivo come la vita, giorno per giorno, ogni volta imparo delle cose che la volta prima non sapevo. A proposito dei paesaggi, mi hai detto che sei andato verso un’astrazione sempre più grande, finchè, ad un certo punto, hai avuto l’impressione di aver esaurito il soggetto. L’ospizio, in fondo, è come la vita mia, che continua. Con il paesaggio, invece, purtroppo, mi sono bloccato. A un certo momento ho voluto vederlo verticalmente, per averne una prospettiva diversa. Sono partito da questa terra, come la vede il contadino che ci lavora, poi ho voluto vedere la stessa cosa da sopra. E guardandola così mi è sembrato, ancora una volta, di essere entrato dentro, la terra non era più terra ma segno, come le rughe delle mani, come la pelle dei vecchi. Sulla terra c’è il contadino, che pianta le patate, e che non sa che quello che lui fa è per me un segno, che a me dà un’emozione diversa. Le rughe della terra e della pelle mi insegnano delle cose che non conoscevo, che il contadino non può conoscere, che quello che guida l’aereo non può sapere. Come se qualcuno illuminasse le cose magicamente. I neri nascondono, i bianchi mettono in evidenza certe forme, quello che si viene a creare sulla pellicola è un mondo diverso, certi paesaggi diventano come merletti ricamati. Se il contadino che ha abbandonato quella casa sapesse com’era bella la sua terra, vista così, forse non l’avrebbe abbandonata. Ma qualche volta mi chiedo qual’è la relazione tra la realtà che fotografo e questo segno che resta. Le rughe dei vecchi sono ancora i vecchi, è ancora la loro sofferenza ? Quello che dici delle rughe della terra, come le rughe dei vecchi, mi fa pensare che tu vai sempre dritto ai temi essenziali, la vecchiaia, la sofferenza, la terra, l’amore. Forse è per questo che abbiamo parlato dell’occhio e della macchina fotografica, strumenti essenziali del tuo lavoro. Un terzo tuo strumento essenziale, del quale ti vorrei chiedere, è la parola. Perchè il tuo punto di partenza è da una parte lo sguardo, dall’altra la parola. Molte tue fotografie si riferiscono a poemi che hai letto. E immagino che quando tu le guardi e le giudichi, il criterio che te la fa accettare – o rifiutare – è l’aderenza a una parola. A quello che ha creato dentro di me la parola. Però io racconto, non illustro. Vedo le immagini del poeta, ma poi cerco emozioni nuove, come se mi lasciassi prendere per mano e portare per strade dove mi sembra di essere sempre passato, e dove invece non sono mai passato. E certe immagini, che prima non mi dicevano niente, da quel momento parlano, respirano. E so che quando la mia emozione mi dice schiaccia questo pulsante, questo vuol dire che lì qualcosa ci deve essere, anche se a prima vista l’immagine può non parere bella, se il soggetto può sembrare povero, o ridicolo. Come quest’altra: un muro vecchio e un cane solo. Un’immagine stupidissima, la saprebbe fare chiunque. Ma questa immagine provoca in me una certa emozione, come se azzerassi tutto… Nel senso che metti a zero… Che riparto da capo, che mi sento proprio senza niente. lo non vedo né il cane né il muro, ma vedo come sono piccolo, come ho paura, vedo che domani la mia vita deve finire, mentre pensavo di fare ancora mille cose. Ma non è facile parlare di questo. Se io fossi onesto con me stesso, mi incazzerei come una bestia. Son cose che ho provato ma che non so spiegare, cose belle, che raccontarle è da vigliacchi. Tu me lo spieghi un orgasmo con tua moglie? Ti voglio chiedere una cosa: c’è questa vita che scorre, e questi istanti che valgono tutti la pena di essore vissuti, e queste diecimila o ventimila foto che tu hai fatto, che sono tutte interessanti. Ma poi ce ne sono venti, o trenta, o quaranta, dove c’è qualcosa di più, la grazia. Tra tutte le foto che tu hai fatto all’ospizio c’è questa, che è stata pubblicata dappertutto… Sai perchè per me è bella? Tu vedi la vecchia, l’ospizio. Ma se tu la guardi ancora meglio, non c’è più né vecchia né ospizio, è come un mare bianco, come una barca su un’onda. Ma questo è venuto dopo che ho pianto dentro di me una quantità di volte, di fronte ad altre immagini. Non so se questa è più importante, per me sono tutti attimi, come il respiro, quella prima non è più importante di quella dopo, ce ne son tanti, finché tutto si blocca e tutto finisce. Quante volte abbiamo respirato questa sera ? Nessun respiro era più bello dell’altro e tutti insieme sono la vita. Ma un’altra fotografia che sento è questa: perchè c’è qualche cosa che ha ancora il sapore di vivo, ma qualche cosa d’altro che è già come decomposto, deformato. Da qui a qui è passato il tempo, qui riesci a decifrare, qui c’è solo una macchia, solo polvere, si è già impastato tutto, perso tutto. E da dietro, invece, viene una luce. Per un attimo lo sento, questo. Non è una bella fotografia, è tutta sbagliata, ma c’è la mia rabbia di chiedere: perché essere vivo? perchè la morte è così vicina? Io ho sessant’anni, ed è come avere sessant’anni di morte sulle spalle, più morte addosso che vita. Sono queste idee che si impastano con le figure. Come anche in questa dove si baciano, due amanti, lui gli prende le mani, gli fa una carezza. Nessun amore può avere più dolcezza che questo vecchio con questa vecchia. Io faccio queste immagini perché vorrei che gli altri, dal momento in cui le vedono, vivessero diversamente. Che la carezza che questi ancora cercano da vecchi, da giovani l’avessero saputa fare. Quanta gente vive e non sa carezzare ? Quante donne muoiono senza aver mai provato l’orgasmo ? Quando io mostro questi vecchi, mostro me stesso, le cose che non ho capito, che avrei voluto fare in un’altra maniera, che vorrei ricominciare. Ma l’immagine è solo una minima parte di quelle che sento, è per questo che se ne fanno tante. Ma solo certe sono dei miracoli, solo in certe quello che è stato il flusso della vita si ritrova in quello che è stato fermato. La vecchiettina come una nave sulle onde è un miracolo, il flusso della vita è là, nell’istante che hai fermato. Ma forse tu questo lo inventi, la fotografia non è solo quello che tu vedi, ma anche quello che tu aggiungi. Un altro vede magari un’altra cosa, io ho forse visto un’altra cosa. Ma che importanza ha che una veda una cosa o l’altra? Forse l’importante è il contatto tra uomo e uomo, il fatto che parliamo degli alberi che perdono le foglie, delle cose che si calpestano senza accorgersene, di questa casa che muore così, piano piano, il proprietario l’ha abbandonata, eppure magari è nato lì, ha pianto lì, ha riso lì. In questa casa si apre una frattura, piano piano, e un giorno o l’altro la casa cade, e mi dispiacerebbe che morisse senza che io me ne accorga. E tu vai a vederla ogni settimana? Conto i giorni come se andassi a trovare un figlio, o una madre. Io con lei riesco a parlare, c’è un legame. E magari non so aprirmi con un altro uomo, perchè lui parla solo di soldi. Io non butto via neanche cinque lire, però non parlo mai di soldi. Perchè le ricchezze, per me, sono proprio queste, le cose inutili che gli altri hanno buttato via, le cose piccole che per molti non hanno senso. Come questa casa che si apre piano piano. Ogni settimana questa casa m’aspetta. Diranno che sono pazzo, ma per me va bene essere un pazzo che si accorge di quello che accade attorno a lui, per me sono più pazzi quelli che non si accorgono. Di tutto no, non mi accorgo, però vorrei accorgermi di tante cose, apposta cerco le cose piccole, perché le grosse mi soffocano, non sono fatto per le cose grandi, preferisco far grandi le cose piccole. È per questo che le tue foto più grandi le hai fatte qui a Senigallia. Le devo far qui, è una questione di respiro. Come sarebbe possibile fare un respiro qui, poi un altro nell’albergo, poi un altro a Milano ? Qui tutto è come un respiro continuo. D’altra parte, ci sono delle cose che non si sentono più. Io, per esempio, qui nella mia città, non ha mai camminato con la macchina fotografica in mano, la gente non sa che io fotografo. Mi dà fastidio la gente che sta attorno, che interroga. Dunque mi allontano un po’. Quanto basta per trovare un mondo in cui immergermi. In campagna, per esempio, non mi ero mai reso conto del profumo del fieno, dopo la pioggia. Una cosa che non conoscevo, cinquant’anni inutili per questa cosa, vedi quante cose ci sono da conoscere, però sono tutte piccoline, quasi non fotografabili, ma che si impastano nell’immagine. Finalmente tu, stando qui a Senigallia, riesci a vedere le cose come se tu fossi sbarcato oggi dal pianeta Marte, con l’occhio nuovo. Come quando mi hai detto, alcune ore fa : io in automobile sbaglio sempre strada, perché per me le strade sono sempre nuove. Perché mi sembra sempre che qualche cosa stia per nascere, che qualche cosa di diverso stia per avverarsi. Il luogo dove le cose accadono non è così importante, un luogo vale l’altro. Mi dicono: come fai a fare queste fotografie? Ma non tengono conto che sono le immagini che scelgono me, non io che scelgo loro. Come se il paesaggio mi dicesse: ma tu sei tonto, credi che sei tu che fai i paesaggi ? non vedi quanto son bello? Ci sono delle immagini che ti bloccano loro, e tu cerchi di capirle, però sono loro che vengono da te, come gli sguardi delle donne. Tu dici: quanto è bella questa! e se lei ti dà l’occhio più dolce, se vedi che si presta, tu dici: Madonna! forse io riesco anche a baciarla. Il paesaggio è uguale, tu lo vedi e dici: Madonna!. Il paesaggio non scappa, ma io ho sempre paura che resti lì solo per un attimo, lo faccio col cavalletto, perché faccio due e ventidue, devo sempre ricordarmi i numeri perché non capisco mai, con due e ventidue ci vuole per forza il cavalletto, allora ho sempre paura che mi scappi, continuo a guardare mentre sposto il cavalletto, trattengo il fiato, io quando fotografo non respiro, mi blocco e scatto, quella per me è la gioia più bella, come se avessi spogliato le più belle donne del mondo. Quando loro si lasciano spogliare.

Se sono riuscito a fotografarle vuol dire che è andata bene. Se no, si dirà che le ho sognate, e basta. Senigallia,

Febbraio 1987 ciao a tutti!

PER ULTERIORI INFORMAZIONI SULL’AUTORE, CONSULTATE IL SITO DELL’ARCHIVIO

www.archiviomariogiacomelli.it

8 pensieri su “Ma chi era Mario GIACOMELLI? Vita, foto, intervista.

  1. Che documento ! eloquente è dire poco, il fotografo mi piace, un modo unico e irripetibile di fare fotografia forse anche per i tempi troppo diversi da oggi, c’era un altra ricerca condizionata dai mezzi.
    Ho visitato una sua mostra a Roma, mi ha colpito !
    ciao

    • Rivedendo le fotografie mi ricordo che… allora ero un giovine apprendista fotografo, mentre oggi sono un vecchio apprendista fotografo … ma lasciamo stare … stavo appunto dicendo … A la memoria… stavo dicendo che gli chiesi quale macchina (fotografica n.d.a.) usasse e il Giacomelli mi rispose che lui di macchine non ne capiva un tubo e quella che usava era, per così dire, assemblata da un suo amico e tenuta assieme con gli elastici!
      Domani, forse, se la memoria non mi tradisce, ti racconto un’altro aneddoto.
      Ciao
      Franco

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